Alla fine del loro viaggio nel mondo di Oz, Dorothy e i suoi compagni scoprono che il potente e venerato Mago è soltanto un vecchio ventriloquo arrivato dal Nebraska. I loro sogni si realizzeranno ugualmente e non grazie a quell’impostore, ma perché ciò che desiderano – un cuore, un cervello, il coraggio – lo possiedono già, semplicemente non ne sono ancora consapevoli.
Ecco, i colossi della sharing economy sono come il Mago di Oz: all’apparenza potenti e invincibili, ma alla fine tutto quello che hanno è la nostra devozione. Così Janelle Orsi – guru dell’economia collaborativa – condensa tra tweet e applausi le speranze di chi, dopo le profezie sull’avvento di un sistema economico basato su condivisione e collaborazione, ha visto questo stesso sistema farsi strumento di estrazione della ricchezza e di sfruttamento del lavoro precario. L’occasione per tentare una rivincita è un’affollatissima conferenza alla New School di New York sul platform cooperativism – un’espressione coniata da Trebor Scholz, organizzatore dell’incontro insieme con Nathan Schneider – divenuta presto l’incarnazione della ricerca di alternative al modello dominante di sharing economy.
Ma perché questi colossi del web, le cui quotazioni rivaleggiano con quelle delle grandi industrie dell’economia tradizionale e che i venture capitalist fanno a gara a finanziare, sarebbero così vulnerabili? Perché – proprio come il Mago di Oz – dietro le apparenze non hanno nulla: Uber è la più grande azienda di trasporti urbani al mondo ma non ha tassisti né auto, mentre Airbnb ospita ogni notte più clienti dell’Hilton senza avere una sola stanza. Senza lavoratori e senza neppure le risorse, tutto quello che queste imprese hanno è la “collaborazione” di masse di persone e un sito (o un’app) che funziona bene. Ma le persone possono sempre abbandonare una piattaforma, se ne trovano una migliore, e un software si copia piuttosto facilmente.
È quindi possibile smascherare una volta per tutte la fragilità di questi novelli incantatori che – come insinua Scholz – stanno vivendo il loro “Andy Warhol moment of fame”?
Il primo passo è all’apparenza molto semplice: clonare la tecnologia vincente, copiando l’algoritmo, per utilizzarla su piattaforme di tipo cooperativo. Così i profitti colossali dei giganti della new economy sarebbero finalmente sottratti al proverbiale 1% e restituiti al 99%. Qualcuno sembra già provarci con qualche successo: Fairmondo è un sito di e-commerce alternativo a eBay; La Zooz offre un servizio di ride sharing simile a Uber ma di proprietà degli stessi driver; Loconomics è una cooperativa di freelance, mentre Resonate, Member’s Media e Stocksy consentono a musicisti, video maker e fotografi di offrire direttamente il proprio lavoro senza intermediari.
Allora basta copiare un software e il gioco è fatto? In realtà, qualche difficoltà c’è.
La prima sfida per le sharing companies è creare un servizio affidabile pur senza lavoratori dipendenti, grazie al contributo volontario – e, come tale, non prevedibile a priori – di soggetti esterni all’organizzazione d’impresa (i famosi “pari” dell’economia peer-to-peer). Aziende come Uber o Airbnb ci sono riuscite benissimo e qualcun altro potrebbero riprodurre quelle stesse soluzioni con relativa facilità.
La seconda sfida è più complessa perché riguarda la sostenibilità economica di un’impresa entro un sistema la cui domanda è per definizione imprevedibile (on demand, appunto). Le aziende della sharing economy hanno risolto anche questo, ma lo hanno fatto esternalizzando il rischio sui collaboratori esterni e ridefinendo le responsabilità giuridiche a proprio vantaggio. Questo esempio il platform cooperativism non può seguirlo: perché il suo obiettivo è sì la sostenibilità economica, ma anche e soprattutto assicurare diritti, tutele e guadagni decenti a chi partecipa.
Alla ricerca di modelli alternativi, si guarda all’open software e alla commons-based peer production, anche se – avverte Yochai Benkler, giurista di Harvard tra i massimi esperti del tema – qui le difficoltà sono perfino maggiori perché c’è di mezzo il sostentamento delle persone e la posta in gioco sale. Anche blockchain – la tecnologia diffusa alla base di bitcoin che sta trovando le prime applicazioni in tema di governance partecipata – torna spesso nel dibattito; e insieme serpeggia l’illusione, tanto comune quanto ingenua, che un sistema tecnologico diffuso sia per ciò stesso intrinsecamente democratico negli esiti.
Riconoscere che il platform cooperativism ha un problema in più rispetto al modello dominante non vuol dire però profetizzare la sua inesorabile sconfitta, ma impone di ragionare sulla praticabilità in concreto delle singole soluzioni, a partire dalle variabili che ne favoriscono il successo: ad esempio, bassi livelli di capitale, contributi omogenei e uno sviluppo tecnologico non troppo sostenuto (caratteristiche, queste, che si trovano in alcuni settori, meno in altri). Sempre che non sia troppo tardi per scalzare chi il mercato lo occupa già e diventa ogni giorno più grande: è il tema delle esternalità di rete, tipiche di queste economie, e dei loro riflessi sul consolidamento di posizioni di monopolio.
Al di là dell’appello a questa o quella tecnologia, la riflessione più interessante riguarda però la dimensione istituzionale: non basta una proprietà distribuita a garantire un’organizzazione democratica e trasparente, ma occorrono forme effettive di partecipazione. Insomma, tecnologia ma soprattutto valori. Distribuzione della ricchezza e governance partecipata sono i due poli su cui si gioca la partita.
Platform cooperativism diventa anche l’occasione per allargare lo sguardo oltre l’organizzazione d’impresa: per indagare forme nuove di mutualismo, sganciate dal lavoro e dalla mano pubblica, e per capire come dar forza a una massa di lavoratori dispersi e spesso invisibili. È difficile organizzare un picchetto di lavoratori se manca un cancello ed è molto complicato far dialogare chi, pur lavorando per la stessa impresa, non si incontra mai come i turker di Amazon. Da qui, le iniziative per ridare voce ai lavoratori, come “Dear Jeff Bezos”, e creare forme nuove di rappresentanza in rete, da Reddit a Turkoptinkon.
Sotto un’unica etichetta, dunque, ricette e storie molto diverse. In comune, l’esigenza di reagire alle crescenti disparità di ricchezza che studi e statistiche fotografano in modo implacabile – citatissimo Picketty – e di non accontentarsi di spiegazioni vagamente consolatorie secondo cui, al tempo della rete, ad essere premiati sarebbero quelli con competenze elevate, in una sorta di meritocrazia tecnologica tanto predicata a parole quanto smentita nei fatti.
La conclusione dell’intenso incontro newyorkese è affidata al media theorist Douglas Rushkoff, di cui esce in questi giorni un libro dal titolo eloquente, “Throwing rocks at the Google bus”. Le persone ridono di cuore e, alla fine, fanno fatica a lasciare la sala. Dopo due giorni di entusiasmi, a guardarle andar via alla spicciolata il timore sembra essere che, fuori di lì, il Mago di Oz torni a sembrare più potente e temuto che mai.