Per una scuola includente

La scuola italiana mostra un paesaggio movimentato. Ma ci sono anche i grandi problemi irrisolti del sistema scolastico. Penso all’esclusione precoce, alla dispersione. Insomma se sei povero e se nasci e cresci in un posto o in un altro fa ancora la differenza, no?

Sì, fa la differenza. Intanto la buona o cattiva scuola è una cosa che fa la differenza. E ciò vale tanto nei quartieri protetti quanto nelle periferie difficili. La buona scuola – per essere chiari – è la vera potenziale leva per il cambiamento.

Il fatto decisivo. Per esempio, oggi in Italia, se vai in un certo numero di scuole di periferia, in luoghi difficili perché abitati da una profonda esclusione educativa multi-fattoriale, dove, però, è attivo un gruppo docente capace di sperimentare, di lavorare bene insieme, che sa riflettere sul proprio operare e che viene coordinato da un dirigente che guida processi di innovazione e manutenzione ben congegnati e per un lasso di tempo lungo, con costanza, puoi ottenere risultati migliori di una scuola di un quartiere bene dove vi è minore costruzione educativa e didattica.

Non possiamo permetterci di perdere dall’istruzione e formazione minima il 17 per cento di media

Detto ciò, va aggiunto che le aree del Paese dove c’è povertà educativa sono luoghi che richiedono più lavoro, più risorse, maggiore coordinamento tra più attori, dentro e fuori scuola e il tutto legato a vere politiche di sviluppo locale. I modelli, nel mondo, di fuoriuscita dei quartieri in crisi dalla loro condizione richiedono lunghe politiche compensative su più piani.

Così, se ci teniamo all’art. 3 della nostra Costituzione, più la scuola è chiamata a compiti compensativi, insieme agli altri attori in campo, più deve essere sostenuta per poter fare buona scuola, capace di curare contesti di apprendimento complessi, accoglienti e rigorosi insieme. Semplicemente perché la mole e difficoltà di interventi ulteriori rispetto alla media lo richiedono, perché costa più fatica anche fare scuola “di tutti i giorni” lì dove si parte da una situazione più difficile, proprio in termini di alfabeti, di opportunità, per poter fare bene nella vita di ogni bambino e ragazzo. Poi c’è altro ancora…

Cosa c’è ancora?

C’è che, vista nel suo insieme, è una grande questione nazionale irrisolta. Che chiama la politica a farsi davvero tale, a fare il bene della polis. C’è, insomma, il fatto che il principale problema della scuola italiana sono – ancora! – i ragazzi che perde. Come diceva don Milani nel 1967. Naturalmente in modi e forme del tutto diversi. Ma questo è ancora vero per il 17 per cento circa dei giovani fra i 18 e i 24 anni, sebbene siamo passati, in dieci anni, dal 25 al 17 per cento.

E sono tutti figli di poveri! Occorre anzitutto riuscire, finalmente, ad andare sotto quel 10 per cento di dispersione scolastica. Come abbiamo promesso all’Europa, ma soprattutto a noi stessi. Infatti, un Paese che aspira a uscire dalla crisi e fomentare sviluppo – nel tempo in cui è la conoscenza diffusa che permette di innovare produzioni e servizi, fare innovazione sociale e aspirare ad affrontare la concorrenza globale, oltre che preservare la coesione sociale necessaria a tenerci insieme – ecco, se vogliamo fare questo come Paese e facciamo anche pochi figli, non possiamo permetterci di perdere dall’istruzione e formazione minima il 17 per cento di media, con criticità via via maggiori quanto più si entra nei territori delle povertà! Dobbiamo – come ho scritto di recente – battere la dispersione scolastica e farlo presto!

Ritorniamo ai danni della mancata istruzione e ai vantaggi di una buona istruzione.

Per ciò che riguarda, insieme, le persone e la coesione sociale, viene attestato il rapporto diretto tra più anni di istruzione e maggiore protezione sociale, in particolare per quanto riguarda il benessere fisico delle persone, l’accesso al lavoro e il contrasto all’esclusione dalle opportunità.

C’è certamente un’associazione positiva tra istruzione e salute, correlata a una minore presenza di malattie croniche e acute (in modo indipendente rispetto alle variabili demografiche e occupazionali), a una minore incidenza delle dipendenze da sostanze e a una più lunga aspettativa di vita. Vi sono forti connessioni, poi, tra istruzione e possibilità di esercitare il diritto al lavoro.

In tutti i Paesi che hanno raggiunto un marcato sviluppo, infatti, gli individui con un più elevato livello d’istruzione e con una formazione aggiornata nel tempo sono quelli che più frequentemente fanno parte degli occupati. Tale rapporto è particolarmente evidente per le donne, in quanto quelle con livelli più elevati di scolarizzazione riescono più facilmente a contrastare una ineguale divisione del lavoro in ambito domestico.

Ciò vale sia nel caso di occupazioni subordinate che di lavoro autonomo. In Italia tra i laureati adulti nella fascia d’età 36-64 anni, prima della crisi (ma anche in presenza della crisi e della crescita drammatica dei neet, cioè coloro che non studiano, non lavorano e non cercano occupazione), quelli occupati sono fino a 25 punti percentuali in più rispetto ai loro coetanei in possesso, rispettivamente, di un diploma o di una licenza media inferiore.

Gli effetti di una maggiore istruzione sono ancora più accentuati nelle zone più deboli del Paese e nell’ambito dei gruppi più svantaggiati. Nel Mezzogiorno i laureati che prima della crisi avevano un impiego erano l’81 per cento, contro il 62 per cento dei diplomati e il 49 per cento delle persone con un diploma di scuola me- dia.

Uno studio della Banca d’Italia nello stesso periodo ha messo in evidenza che, in condizioni di parità rispetto ad altre circostanze, la probabilità di far parte del mercato del lavoro aumenta del 2,4 per cento per ogni anno di scuola frequentato. Nel Mezzogiorno e per le donne questo dato arriva al 3,2 per cento.

Le aree del Paese dove vi è migliore istruzione e decorosa formazione professionale rispondono meglio alla crisi

L’influenza di ogni anno d’istruzione sulla probabilità di essere occupato, rispetto alla media italiana, si aggira intorno all’1,6 per cento, mentre nel Sud è il 3 per cento e per le donne l’1,8 per cento. Sebbene la crisi condizioni e muti questi dati, il carattere positivo dell’istruzione resiste.

E vi è, in tutti i paesi ocse, sia pure con accenti diversi, un costante rapporto inverso tra tasso di disoccupazione e livello d’istruzione, per entrambi i sessi. Quanto più il livello d’istruzione è elevato, tanto inferiore diventa la proporzione di soggetti privi di un’occupazione. Come ho già detto, il titolo di studio è determinante anche per quel che riguarda la probabilità di vivere in condizioni di povertà e di disagio sociale. In particolare, il livello d’istruzione del capofamiglia incide sulla possibilità di diventare una famiglia povera.

Nel nostro Paese i nuclei famigliari il cui capofamiglia è in possesso di un basso livello di istruzione hanno un’incidenza di povertà di quasi il 20 per cento maggiore rispetto ai nuclei famigliari il cui capofamiglia è una persona con almeno la licenza media superiore. Nel complesso, una migliore istruzione non è da sola risolutiva nei confronti dei rischi dell’esclusione sociale.

Ma la scelta di investire in istruzione si dimostra redditizia: se si consegue un diploma superiore a partire dalla licenza media, ciò rende intorno al 10 per cento, mentre se si giunge in possesso di una laurea, dopo il diploma superiore, questo rende un ulteriore 10 per cento. Insomma, le aree del Paese dove vi è migliore istruzione e decorosa formazione professionale rispondono meglio alla crisi e hanno migliori indicatori economici e sociali sia secondo gli indicatori classici (prodotto interno lordo, tasso di occupazione etc.) sia secondo quelli che misurano il benessere relativo (consumi, deprivazione o, viceversa, empowerment materiale e culturale, opportunità di sviluppo locale e personale e esigibilità dei diritti, livelli e costanze nella spesa sociale etc.).

Ma, come hai detto, dietro ai fenomeni ci sono le persone, con le loro traiettorie di vita. Quand’è che li abbia- mo persi, questi ragazzi, negli ultimi decenni? A che età? Li abbiamo “persi”, è così che dobbiamo dire? E come sono i ragazzi drop-out, i “caduti fuori” dalla scuola?

Persi, in effetti, non è una buona parola. Questi ragazzi sono come gli altri. Per gusti, uso dei new media, emozioni. Sono come qualsiasi adolescente dell’Europa di oggi. Ma, al tempo stesso, vivono in condizioni di esclusione sociale e dalle opportunità rispetto ai loro coetanei che hanno avuto una vita ben più lineare, protetta. Ma non sono persi.

Ci tengo a rimarcarlo perché – a determinate condizioni e cioè costruendo buone politiche mirate, anche insieme a loro – possono essere riconquistati a una prospettiva di apprendimento, sviluppo personale e partecipazione alla crescita economica e della comunità. Perché, vedi, li incontri dopo 3 o 4 anni e molto spesso li trovi che provano ad andare a vivere con la loro ragazza nonostante il reddito basso, che lavorano sodo anche se spesso al nero, in condizioni difficili ed evitando pure, nel Sud, le sirene dei poteri criminali e dei soldi cosiddetti facili. Producono nelle imprese manifatturiere o nei servizi di ogni tipo. Contribuiscono alla ricchezza. Provano a fare una vita seria e bella in condizioni ben più dure che per gli altri.

Comunque, per rispondere alla tua domanda, da vari decenni questi ragazzi non li perdiamo più a 5, 6 o 7 anni, come al tempo di Pinocchio o di quando io ho iniziato a insegnare nei comuni vesuviani, negli anni Settanta del secolo scorso. Li perdiamo a 15-18 anni. E per riconquistarli – il progetto Chance e le altre scuole di nuova opportunità per adolescenti drop-out hanno fatto esperienza di questo – devi incoraggiare questi quasi giovani adulti con un’offerta ricca, che comprenda educazione, comunità, formazione, scuola-lavoro.

Perché sono poveri e vivono realtà complicate, quindi non sono capaci di crescere sul piano emotivo senza una stagione di riparazione e compensazione curata in modo sapiente e competente. Vogliono lavorare e hanno bisogno presto di un mestiere e di un reddito che diano loro dignità. E devi prevedere esperienze di lavoro protetto ma non simulato, nel quale ci sia davvero posto per apprendere e per vivere una o più esperienze di riorientamento.

E, ancora, devono poter riprendere le conoscenze indispensabili per essere cittadini, a partire da dove le hanno lasciate e riconoscendo ciò che sanno. Devono capire cosa sanno, cosa non sanno, cosa devono e possono imparare in termini di ricostruzione degli alfabeti di cittadinanza. Ma affinché ciò possa avvenire occorre un riconoscimento vero di tutto quel- lo – e spesso è molto – che hanno intanto imparato e di quel che avevano, nonostante tutte le umiliazioni e bocciature, appreso a scuola e lasciato lì, non considerato come una cosa effettivamente avvenuta. È terribile, se ci pensi.

Poi ci sono i loro vissuti: sono anche degli ometti e delle giovani donne precocemente entrati in ambiti del vivere che, in genere, i loro coetanei conoscono qualche anno più in là. Così, li incontri e capisci subito, ma subito davvero, come è stato per me, che non possono bastare e funzionare gli arnesi educativi e didattici usati in una ordinaria scuola per adolescenti, ammesso che funzionino per adolescenti (e ho i miei dubbi!). Comunque di sicuro non funzionano per adolescenti più costretti, rispetto alla media, a difese e compensazioni e molto più precocemente affaticati dagli eventi della vita.

Ma dove si può fare una cosa del genere, a scuola?

Capiamoci! Ora stiamo parlando di chi a 14, 15, 16 anni, nelle aree di massima povertà educativa, è da mesi o da anni lontano da scuola. Per questi ci vuole un’esperienza altra e diversa. Altra cosa è l’urgenza – generale! – di rifondare le scuole dell’adolescenza, di costruire un nuovo contenitore-scuola che sappia tenere dentro molto meglio di com’è ora.

Hai ragione a distinguere e sulla scuola dell’adolescenza torneremo. Ma, per chi già è fuori, dove e cosa si può fare?

Non penso che possa essere un semplice ritorno a scuola. Parliamo non in astratto, ma per esperienza. A volte in Italia i progetti detti di “seconda occasione” si sono fatti a scuola o in una parte della scuola. Altre volte, con tempi differenziati, tra scuole e altri luoghi. Altre ancora, in un posto a sé, ma con ore di nuovo a scuola. Altre in molti posti, entro un territorio tra scuola, formazione e lavoro.

Ma a scuola, così com’è, funziona poco, in genere, a meno che non si tratti di ragazzi sotto i 15 anni e non di abbandoni consolidati. Anche perché – lo abbiamo studiato proprio nelle esperienze italiane di seconda occasione – questi ragazzi sono stati cacciati o sono pluri ripetenti o sono andati via dalla scuola senza esserci voluti tornare.

Devi trovare un contesto che riconosca, anche simbolicamente, quanto stiamo dicendo. È un luogo che, al tempo stesso, non può essere un’esperienza solo compensativa e separata. Un ghetto, no! Deve stare tra scuola e prove di lavoro, perché spesso i ragazzi lo richiedono. Deve consentire un tempo di dedizione, anche individuale, alla ricostruzione degli alfabeti. E deve avere un forte tratto comunitario, coinvolgendo docenti, formatori, orientatori ed educatori al lavoro insieme, con assoluta pari dignità pur nelle diversità di compiti.

La scuola, con le sue rigidità, spesso non riesce una seconda volta dove ha fallito una prima! E questo però ci dice anche qualcosa sulla prima volta. Per riconquistare all’apprendimento chi se ne è allontanato, insomma, bisogna curare, insieme, gli aspetti psicologici e quelli pedagogici e didattici indispensabili a una ricostruzione. Si tratta di un insieme di spazi e tempi dedicati che favoriscano un riconoscimento e una riparazione multi-dimensionale.

Tutto questo serve a ri-costruire il senso di cui parlavamo all’inizio, il senso di quel posto dove si va per imparare. Un posto dove ci si siede la mattina e non si distrugge tutto, ma si fa la merenda insieme prima di iniziare la lezione, magari mangiando delle cose sane come il pane, il burro e la marmellata. Si parla di cosa è successo nel quartiere la sera prima, in modo da elaborare dalla sparatoria, al piccolo furto, al litigio con il fratellino, al fatto che la fidanzata di Pasquale – che pensava fosse l’unica persona che veramente lo capisce – non l’ha capito. E anziché chiedergli: «Hai fatto i compiti?», si cerca di decomprimere mondi interi, cercando con la parola di dare un senso alle cose.

Il primo convegno del progetto Chance lo intitolammo per questo Dal chiasso alla parola. Attraverso questi rituali i ragazzi iniziano a parlare uno alla volta, mangiando, vivendo un momento di convivialità, per cui se vado a svegliare Francesca perché non vuole venire a scuola, sa che non ci sarà il banco, l’interrogazione, ma una tavola imbandita dove ci si siede, ci si parla e si cerca di capire, e avrà dei facilitatori che la aiutano a capire cosa ha vissuto e perché si sente così.

Poi c’è un momento in cui questo viene interrotto con un rituale e si lavora per gruppi, per ricostruire quello che ognuno sa o non sa, perché hanno tutti un obiettivo che non avevano raggiunto. A differenza di tanti amici, compagni e familiari, non hanno ottenuto la licenza media perché sono stati bocciati tante volte. Allora si genera una proposta di riscatto su un traguardo che non è tra dieci anni, ma tra sei mesi: si crea un portfolio con cui Antonio si può presentare davanti a una commissione esterna che può valutare se si merita la terza media. Questo è quello che in fondo abbiamo fatto.

Pubblichiamo un estratto dall’intervista di Giulia Tosoni da La scuola è mondo. Conversazioni su strada e istituzioni (Edizioni Gruppo Abele, 2015) di Marco Rossi-Doria