Cooperative e politiche dell’innovazione
Le imprese cooperative sono al centro di cambiamenti epocali e di segno contrastante. Il loro modello è, allo stesso tempo, scosso alle fondamenta e trascinato verso nuovi lidi. I fondamentali sono messi alla prova da modelli di business rispetto ai quali è a volte difficile cogliere il valore distintivo della formula cooperativa, facendo assomigliare queste imprese a quelle convenzionali. A ciò si aggiunge anche la componente di socialità che esercita una pressione a due livelli: il primo riguarda l’effettivo coinvolgimento di compagini sociali che possono essere molto ampie ma che sono soprattutto sempre più differenziate al loro interno senza matrici socio-culturali significative a fare da collante.
l secondo punto di pressione riguarda la reputazione delle cooperative presso l’opinione pubblica, non solo per effetto di scandali, ma per una più profonda ridefinizione dei meccanismi attraverso cui si formano e si organizzano i corpi intermedi che agiscono tra politica, economia e società. L’effetto di trascinamento oltre i modelli cooperativi fin qui più diffusi è invece esercitato da tendenze socioeconomiche che, in modi diversi, mettono al centro elementi, se non di cooperazione, certamente di aggregazione e condivisione. A fare la parte del leone è però l’economia capitalistica che sempre più si ridefinisce, ancora in modo ambivalente, per la capacità di mettere a valore relazioni e di generare valore “condiviso” con un più ampio spettro di portatori di interesse.
Un insieme di ragioni strutturali e contingenti – oltreché ideologico / culturali – posiziona le cooperative ai margini del discorso, e delle politiche, sull’innovazione. Da dove può ripartire quindi una cooperazione che è sfidata proprio sul fronte del cooperare? Su quali basi è possibile candidare organizzazioni di questa natura come “imprenditoria innovativa”? Le strade sono diverse – e tortuose – ma una di queste appare promettente e consiste nella capacità di ricombinare su basi autenticamente cooperative tecnologia e lavoro.
Le cooperative possono rappresentare un punto di osservazione – e di intervento – per disinnescare uno dei più potenti effetti della nostra e – invero – di altre epoche caratterizzate da trasformazioni radicali dell’economia, ovvero la distruzione di posti di lavoro per effetto di innovazioni tecnologiche che lasciano sul campo prestazioni a basso valore aggiunto e precarie nelle tutele, dove l’unica forma di organizzazione è, oltre a quella dell’autoimprenditorialità, proprio quella cooperativa. Dunque le cooperative sono imprese che, al massimo, possono aspirare a fare da sentina ai modelli di economia estrattiva che caratterizzano le piattaforme di gig economy o, più diffusamente, le catene di outsourcing delle imprese for profit e della Pubblica Amministrazione?
In realtà se si spengono i riflettori dello storytelling sull’innovazione e si eliminano le incrostazioni della retorica cooperativa, emerge un quadro più sfaccettato rispetto rappresentazioni radicali ma residuali – il platformcooperativism – e quelle che invece non registrano ormai alcuna differenza rispetto ai modelli economici mainstream – ad esempio guardando alla cooperazione come leader di mercati come la GDO o l’industria agricola. Esistono invece segmenti di economia cooperativa – non solo buone pratiche – che possono candidare nell’immediato questo modello d’impresa al ruolo di “veicolo guida” della transizione verso un nuovo paradigma di sviluppo.
Transizione che, se non governata agendo direttamente sui fondamenti economici e sociali, appare, al tempo stesso, accelerata nel processo e ignota negli esiti, e quindi potenzialmente ancor più distruttiva negli effetti.
“Maneggiare con cura” tecnologie e relativi investimenti attraverso il modello cooperativo per generare – o ri-generare – lavoro significa operare secondo tre diverse modalità in vista di un duplice obiettivo: qualificare il lavoro come esperienza di senso – rispetto agli “oggetti” di produzione e al più ampio contesto socio ambientale – e come esperienza educativa – capace di valorizzazione di talenti e competenze soft – scambiando autonomia con responsabilità, protagonismo con assunzione di rischio, creatività con apporto di risorse.
La prima modalità consiste nell’inserire le tecnologie all’interno di nuove value chains dove socialità e ambiente rappresentano “fattori produttivi” sempre più ricercati da una domanda attenta alla qualità intrinseca e al valore di scambio, ma anche a determinanti che contribuiscono a far uscire definitivamente “l’equo e sostenibile” dalla nicchia.
La seconda consiste in un supporto tecnologico che operi su idle capacity non in senso estrattivo ma coesivo, ad esempio mettendo a disposizione spazi e servizi realmente condivisi a sostegno di una società che è sempre più orientata all’impatto non solo della gestione economica, ma anche per quanto riguarda l’azione sociale.
Infine le tecnologie sociale di community building in un contesto cooperativo dovrebbero riuscire a realizzare un significativo upgrade dei loro principali elementi costitutivi: capacità di feedback che si realizza all’interno di processi decisionali e partecipazione alla produzione che avviene non in modo limitato o estemporaneo ma in via stabile e continuativa, prevedendo adeguati ristorni del valore economico creato.
Sono strade, come si diceva, complesse perché richiedono investimenti notevoli non tanto sulle tecnologie in sé (molte delle quali sono praticamente delle commodities), ma in particolare sulla loro cultura d’uso. Questo richiede strategie e azioni di cambiamento organizzativo capaci di ridisegnare l’organizzazione nei suoi fondamenti. Allo scopo di renderla, ancora più, cooperativa.
Per raccogliere casi di interesse e buone pratiche su questo tema è stata attivata una call da parte di CoopUp e RENA, chi volesse contribuire alla raccolta può farlo tramite questo form; al termine della call l’8 ottobre si terrà un workshop di approfondimento, per iscriversi segnalare il proprio interesse tramite i canali presenti sul sito di Rena