Oltre la blockchain. Distopia e utopia finanziaria

Tra i concetti dell’area Bitcoin 2.0, legati alle tecnologie di decentralizzazione, merita una menzione particolare il concetto di cryptoequity, vale a dire la creazione di “gettoni di valore” sicuri, basati su network distribuiti e in grado di assicurare titoli di proprietà/accesso su beni fisici o digitali. Nella forma attuale questo concetto si traduce principalmente in quote di proprietà “scritte” sulla blockchain, che in questo modo trasmette valore al di là della mera applicazione monetaria.

La “criptoproprietà” su reti decentralizzate può avere numerose declinazioni tecniche e implica un impatto significativo in termini di regolazione, dato che basa interamente la sua validità sulla robustezza algoritmica ed è relativamente indipendente dai sistemi giuridici.

I quattro significati fondamentali di cryptoequity sono:

Quote di società: il cryptoequity inteso in senso stringente e affine al concetto di “azione”, che consente quindi di avere diritto di voto sulle decisioni di un’organizzazione ed eventuale partecipazione agli utili. Un esempio è il caso di Bitshares.

Gettoni di proprietà: token digitali che rappresentano forme di proprietà non relative a organizzazioni o a proprietà intellettuale. Un esempio è CommonAccord.

Gettoni relativi a prodotti: token digitali scambiabili con prodotti materiali o immateriali.

Gettoni di accesso: token digitali che offrono l’accesso a reti specifiche o a gruppi ad ammissione ristretta.

Tra i “mattoni” che potenzialmente consentono la costruzione di sistemi di cryptoequity ricordiamo la possibilità di utilizzare smart contract, vale a dire accordi tra parti fissati a livello algoritmico e con caratteristiche di auto-eseguibilità e controllo, indipendenti dall’intervento di terze parti e dall’adesione a un sistema giuridico e normativo esistente. L’altro elemento costituente è il concetto di organizzazione autonoma decentralizzata, in grado di distribuire diritti e doveri tramite un set di regole basate su reti peer-to-peer e robustezza crittografica. Un modo semplice per costruire cryptoequity è l’abbinamento tra una criptomoneta con smart contract e un’organizzazione decentralizzata.

blockchain

Pubblichiamo un estratto da Hacking Finance (Agenzia X)

Tra le piattaforme che hanno tentato di operare in questo spazio ricordiamo Bitshares, Koinify e Swarm, progetto ora fallito ma il cui potenziale teorico rimane interessante. Swarm, da non confondere con l’omonima app legata a Foursquare, era un sito di crowdfunding che consentiva a organizzazioni e startup di fare fundraising in modo indipendente dai tradizionali canali di finanziamento. Koinify e BitShares consentono invece di costruire organizzazioni decentralizzate e, nel caso della seconda, di lavorare con una serie diversificata di cryptotoken legati ad altri beni diversi dall’equity tradizionale. Attualmente purtroppo solo BitShares risulta ancora operativa, a riprova dell’alta mortalità delle startup di questo settore

Esistono poi progetti che operano come piattaforma (Mastercoin o Counterparty) consentendo di creare transazioni finanziarie sulla blockchain. Counterparty è la piattaforma che ha abilitato la creazione di iniziative come Swarm e Koinifiy. Infine ci sono progetti, come i già discussi Ethereum e colored coin, che permettono di costruire cryptoasset in senso più generale.

Il primo beneficio che possiamo identificare per il cryptoequity è la presenza di bassi costi di transazione e di funzionamento: i diritti di proprietà su reti decentralizzate potrebbero essere gestiti con meno spese, in modo più veloce ed efficiente, poca burocrazia, una complessità limitata e una migliore protezione della privacy. Dall’altro lato, è prevedibile che, quando questo settore raggiungerà una certa dimensione, una qualche forma di regolazione sarà imposta dal legislatore.

Un altro tipo di benefici riguarda la trasparenza: nel caso del crowdfunding di Swarm è possibile applicare una due diligence (ovvero una valutazione e analisi) di natura collettiva sui progetti e si può applicare anche al monitoring e ad altre funzioni. Ciò implica che gatekeeper tradizionali, come i venture capitalist, si ritroverebbero ad avere molto meno potere a disposizione. Si tratta di un processo simile a quello accaduto anni fa con AngelList per quanto riguarda l’investimento in startup.

Un altro elemento di favore per il cryptoequity è la flessibilità: diritti/doveri potrebbero essere ripartiti tra i vari attori in maniera dinamica direttamente dall’algoritmo, cosa molto più difficile e farraginosa da ottenere con i vecchi contratti “manuali”. Gli accordi sarebbero anche più veloci e potenzialmente personalizzabili di quelli ottenuti con i sistemi legali attuali.

Inoltre ci sarebbe un importante vantaggio in termini di accesso: la flessibilità della tipologia di accordi possibili consentirebbe di costruire organizzazioni di natura inedita e permetterebbe di investire a categorie di soggetti finora escluse da questo processo.

Tra le applicazioni potenziali del cryptoequity, a parte la costituzione stessa di società e organizzazioni, possiamo citare sistemi per il crowdfunding, IPO/aste, sistemi di scambio per asset digitali, mercati secondari e forme di proprietà collettiva e commons.

Tra le critiche vediamo invece alcuni temi ricorrenti, in parti- colare il fatto che le quote di proprietà fondate sulla blockchain non sono legalmente riconosciute in senso ufficiale e che quindi non si tratta di “vere azioni”. È un problema fondamentale che riguarda gli asset digitali in generale e in cui c’è un interessante lavoro di analisi in corso. Un altro quesito riguarda il fatto che la creazione di una moltitudine di progetti di cryptoequity distoglie risorse dal miglioramento della rete Bitcoin ed espone il sistema, nel breve termine, a ulteriori ritorsioni legislative da parte dei regolatori pubblici. Possiamo notare come alcuni degli esperimenti recenti abbiano dimostrato elevati livelli di vulnerabilità: ricordiamo il progetto The DAO, iniziativa di incredibilie popolarità che a metà del 2016 aveva raccolto oltre 160 milioni di dollari da privati e piccoli investitori, ha subito un cyberattacco devastante che ha messo in pericolo le risorse di molti degli utenti.

Dal punto di vista giuridico le criticità sono molteplici, a partire dal fatto che le quote di proprietà digitale non sono azioni emesse in modo regolare, fino all’ambiguità tra “bene” e “titolo” che caratterizza i token digitali, per non parlare della loro natura radicalmente transnazionale, il tema del riciclaggio di denaro, l’identificazione dei partecipanti e la tracciabilità delle transazioni, i problemi di tassazione e così via.

Per quanto riguarda la definizione giuridica dei bitcoin e dei cryptoasset ci sono diverse scuole di pensiero e non si è ancora giunti a un reale punto d’accordo. In vari contesti regolamentari i bitcoin possono essere infatti considerati come beni, quindi tassabili con l’Iva in caso di compravendita, come asset finanziari, più raramente come monete.

Ci vorrà ancora del tempo per giungere a una convergenza tra normative e sistemi di tassazione, nel frattempo si vive in un contesto dove l’incertezza giuridica è elevata e i riferimenti mutano rapidamente nel tempo. Anche i casi più illuminati di tentativi di regolamentazione, come la Bitlicense nello stato di New York, stanno portando comunque a un esodo di startup dalla zona, vista l’incompatibilità tra gli elevati costi di compliance in quanto legati a una regolazione stringente e all’innovazione tecnologica, che per sua natura necessita della libertà di sperimentare a basso costo.

Le tecnologie blockchain si posizionano al di fuori degli steccati tradizionali del diritto ed è quindi decisamente complesso trovare forme di armonizzazione legislativa compatibili con gli ordinamenti attuali e che allo stesso non vadano a snaturare il potenziale delle innovazioni legate alla decentralizzazione. Sarà questo il vero banco di prova per gli innovatori e i legislatori dei prossimi anni

Costruire le cryptocommons

Un’evoluzione importante del concetto di cryptoequity, ovvero criptoproprietà, è quello di cryptocommons traducibile come “cripto beni comuni”. Queste sono le applicazione delle tecnologie legate alla blockchain, delle reti decentralizzate, delle Dao (Decentralized Autonomous Organizations) e delle Dac (Decentralized Autononomous Corporations) per la libera condivisione di risorse tra pari. Nelle cryptocommons le risorse sono monitorate, gestite e distribuite a livello algoritmico, su reti peer-to-peer e tramite software open source.

Perché costruire insieme le cryptocommons? Innanzitutto per superare i limiti delle commons tradizionali, ovvero da una parte il problema del free rider, vale a dire il fatto che singoli individui possono sfruttare in modo eccessivo le risorse comuni a scapito della collettivià, e dall’altro la cosiddetta “tragedia del comune”, vale a dire il fatto che nelle proprietà collettive c’è minore incentivo individuale a preservare la risorsa comune.

A questi si aggiungono i problemi ricorrenti della robustezza delle strutture decentralizzate impiegate per la distribuzione di risorse e la loro vulnerabilità a forme di appropriazione indebita e creazione di enclosures, ovvero recinti privati nello spazio comune. La blockchain consentirebbe invece di concepire delle cryptocommons o smart commons in grado di evolvere, essere democratiche e decentralizzate allo stesso tempo, immuni ad attacchi di free rider, capaci di preservare le loro risorse nel lungo periodo tramite regole fissate a livello algoritmico.

Le cryptocommons avrebbero la possibilità di una governance decentralizzata, basata sull’intelligenza della rete. Le semplici reti peer-to-peer non sono sufficienti, la blockchain consente invece di aggiungere alla rete caratteristiche di sicurezza, stabilità, capacità di gestire asset di valore, coordinamento e “intelligenza” (tramite strumenti come gli smart contract).

Inoltre si invertirebbe il problema tradizionale delle risorse condivise: le commons, ovvero i beni comuni, hanno una difficoltà di gestione proporzionale al numero degli utenti, che storicamente implica l’utilizzo di strutture centralizzate (come lo stato) per gestirne lo sviluppo e la redistribuzione su larga scala. Le cryptocommons invece possono funzionare in modo opposto: ogni nodo che si aggiunge aumenta anziché diminuire l’intelligenza collettiva della rete, di conseguenza le cryptocommons che crescono possono diventare più efficaci.

Possiamo pensare almeno a quattro implementazioni delle cryptocommons, con alcune tecniche potenzialmente sovrapponibili tra loro:

Basate sulla proprietà: cryptocommons sull’implementazione di una cryptoequity condivisa.

Basate sui contratti: tramite smart contract su partecipazione collettiva oppure smart contract con diritti e doveri di coordinamento collettivo.

Basate su gettoni: cryptoasset, gettoni e cryptocoin che rappresentino quote di proprietà o diritto di accesso alle risorse comuni.

Basate su applicazioni software: applicazioni decentralizzate focalizzate sulla gestione di risorse comuni.

La costruzione di sistemi per la condivisione in rete, tramite l’ausilio della blockchain, è una delle linee di ricerca più promettenti. È anche una delle modalità con cui sarà possibile massimizzare il potenziale democratico delle tecnologie distribuite, rendendole uno strumento per il pieno sviluppo umano e non soltanto un motore per costruire più rapidamente profitti. Uno dei progetti che operano in questo spazio è Backfeed, una piattaforma creata per lanciare in modo semplice ed efficace progetti di collaborazione decentralizzata. L’iniziativa punta a divenire un protocollo o piattaforma universale da montare sopra la blockchain, da considerarsi come i browser o il protocollo http per internet. Un’altra iniziativa degna di nota è Freecoin, iniziativa creata da Denis Rojo detto “Jaromil” e supportata dalla rete europea D-cent. Il progetto favorisce la creazione di monete digitali “sociali” e di meccanismi di remunerazione/incentivazione per organizzazioni orizzontali e democratiche.

[…] Giunti al termine di questo breve viaggio, possiamo cercare di ricapitolare alcuni punti fermi e a ipotizzare uno schema di tre possibili scenari futuri:

Distopia / Teocrazia finanziaria

I grandi player della finanza riescono a comprendere le nuove onde tecnologiche, adattarsi a loro e alla fine dominarle. In questo scenario gli aspetti peggiori di rigidità, controllo, assenza di privacy sono enfatizzati: le AI (intelligenze artificiali) controllate dalle banche d’investimento riescono a espropriare anche le minime frazioni di valore generato dal lavoro fisico e cognitivo in ogni parte della terra, controllando le persone tramite una rete di contratti di debito ineliminabili, il tutto con il beneplacito di istituzioni e governi. Sostanzialmente si tratta dello Skynet della tecnofinanza.

Utopia

Il potenziale di decentralizzazione delle reti porta alla creazione dell’utopica network society teorizzata da molti, dove i sistemi peer-to-peer, la democrazia e la trasparenza riescono a erodere le posizioni di potere arbitrario costruite dalle grandi corporation e dai governi. Infatti, i vecchi attori si dimostrano troppo lenti nell’adattarsi al cambiamento e sono soppiantati da una moltitudine eterogenea e interconnessa che riesce a costruire reti autonome per tutelare la propria vita economica, sociale e culturale. È talmente bello che potrebbe anche essere vero.

Scenario misto

Come è accaduto per l’avvento di Internet, si creano nuovi spazi di libertà, alcuni vecchi attori crollano e altri nuovi attori li sostituiscono imponendo nuove forme di controllo e centralizzazione. La misura in cui questo scenario, crediamo il più probabile, possa avvicinarsi alla realtà dipende da scelte collettive che travalicano la mera questione tecnologica.

Sarà necessario progettare le nuove reti facendo attenzione alle conseguenze sistemiche e, allo stesso tempo, progettare forme di regolamentazione non invasiva e aperta al cambiamento tecnologico.

L’obiettivo è di far coesistere in modo armonico l’evoluzione delle nuove reti con l’erosione progressiva o la reinvenzione radicale del ruolo delle vecchie istituzioni, il tutto evitando shock sistemici e contraccolpi luddisti. Come ha sempre fatto, la realtà saprà improvvisare.

Non ci è dato sapere quale di questi scenari si realizzerà, tuttavia possiamo impegnarci per orientare le nostre scelte collettive, indirizzando standard, protocolli e tecnologie verso una maggiore distribuzione del potere invece che verso una sua ulteriore concentrazione.