Quali saranno le conseguenze di lungo termine del conflitto tra Russia e Ucraina? Come si ridefiniranno gli equilibri politici interni alla Comunità Europea, nel quadro di mutati equilibri geopolitici globali? L’esplosione del conflitto ha rapidamente polarizzato il dibattito in tutti i paesi europei, consolidando opposte visioni degli eventi in corso. cheFare e il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bergamo hanno deciso di sviluppare, nel quadro di un progetto di Terza Missione, un percorso editoriale che intende interrogare il nostro tempo, analizzando le sfide sociali e culturali che la guerra pone al continente europeo e al suo futuro. Autrici e autori con diversa formazione ed estrazione culturale ragioneranno di istituzioni comunitarie, di equilibri migratori, di geopolitica, di politiche energetiche, di crisi ambientale, di economia, di culture europee
È assordante, oggi, il rumore della storia. Assordante e incredibile, quando, come da sette mesi a questa parte, ripropone, nella rarefazione dell’età digitale, la guerra nella sua dimensione più paradigmatica del conflitto per la conquista del territorio. Certamente è una guerra combattuta con mezzi diversi da quelli tipici del “secolo breve”, ibrida in quanto giocata sulla convergenza, sulle quattro dimensioni tradizionali della strategia militare (terrestre, aerea, spaziale, navale), della quinta: quella cibernetica. Non è, ovviamente, una differenza da poco, soprattutto in quanto coinvolge nelle ostilità una frontiera, quale quella digitale, immateriale e inevitabilmente vulnerabile, perché non ancora assistita dai presidi tradizionalmente adottati dagli Stati a difesa dei confini.
E il riproporsi, alle soglie dell’Europa, della guerra nella sua configurazione più piena ci pone dinanzi a questioni inedite, la cui complessità ha dimostrato l’illusorietà di ogni alternativa manichea tra incondizionato sostegno militare all’Ucraina e rifiuto, altrettanto assoluto e incondizionato, di ogni intervento adesivo. Non si tratta soltanto di quello che Angelo Moretti (Avvenire, 13.4.22) definisce il paradosso della difesa della pace: in assenza dei conflitti ritenuta superflua e in contesti bellici derubricata a puro velleitarismo. La violenza di questo (ulteriore rispetto a quella inevitabilmente correlata ad ogni) conflitto, le “inutili stragi” come quelle di Bucha, integranti veri e propri crimini di guerra, l’asimmetria delle forze in campo, rendono infatti tutt’altro che agevole l’adesione incondizionata a posizioni neutraliste. Per quanto, infatti, l’intervento sia pur adesivo nei confronti della vittima di un attacco imperialista possa ostacolare la de-escalation e il contenimento del conflitto, è oltremodo difficile (anzitutto dal punto di vista etico e politico) tenere posizioni equidistanti in un contesto così evidentemente asimmetrico. Ma ciò non vuol dire, naturalmente, in alcun modo cedere alle spinte militariste che, benché dissimulate, riemergono come un fiume carsico dalle ceneri della storia, riaffermando il nomos della terra. Il sostegno alla resistenza ucraina resta, inevitabilmente, il male minore che va scelto con la consapevolezza del limite da non superare per non rinnegare, come in un pendio scivoloso, l’identità democratica anzitutto europea. È un passaggio quantomai delicato, in cui il progetto dell’Unione può rilanciarsi con prospettive del tutto nuove o, viceversa, indebolirsi sino a smarrire il suo senso.
Pur senza un’espressa rivendicazione di un cambio di paradigma rispetto alla linea tenuta pressoché uniformemente dal secondo dopoguerra, si assiste in molti Paesi europei a un incremento (che non pare solo congiunturale), degli stanziamenti per spese militari. La Germania ha riservato circa 100 miliardi alle politiche di difesa, mentre da noi, alla Camera, è stato approvato quasi all’unanimità un ordine del giorno che, in conformità agli impegni assunti già nel 2014 dagli Stati aderenti alla Nato, innalza fino al 2% del Pil le spese militari. Il tutto in un contesto di progressiva diminuzione delle risorse destinate ai progetti collaborativi. Come ben osserva Luigi Manconi (La Stampa, 31.3.22), queste iniziative nazionali non fanno che “demotivare e, comunque, rallentare il processo di creazione di una difesa comune continentale”, che appare invece il vero obiettivo da perseguire in vista di un’Europa sempre più federale in senso proprio. In questa direzione si muove, sia pur timidamente, la “Bussola strategica” approvata dal Consiglio europeo che promuove una prima, contenuta ma comunque significativa integrazione delle politiche di difesa europee.
Il riemergere, pur anacronistico, di pulsioni imperialiste e autocratiche proprio al di là dei confini del Vecchio continente dimostra, infatti, come la più grande incompiutezza del progetto europeo riguardi, forse, proprio settori, esclusi dalla “comunitarizzazione”, quali quelli della difesa e, in parte, anche dell’intelligence. Essi, infatti, relegati ai margini del percorso d’integrazione europea in assenza di un’urgenza che li sottraesse al monopolio nazionale già con l’abbandono del progetto della CED, si rivelano invece ora – all’interno di un progressivo rafforzamento delle politiche europee comuni anche sul terreno dei diritti sociali- come strategici argini al riemergere, sia pur solo iniziale per ora, di posizioni militariste in molti Stati membri.
Questa congiuntura impone all’Europa di ripensare la propria identità politica, consapevole del rischio di condannarsi all’irrilevanza, soprattutto laddove le spinte militariste si saldino con (e, anzi, sottendano) tendenze lato sensu, “sovraniste”. L’Europa come progetto politico nato, all’indomani della seconda guerra mondiale, dall’esigenza di evitare altri conflitti garantendo non soltanto la pace ma un percorso, anche politico, comune, rischia infatti di svuotarsi dall’interno, smarrendo il suo senso profondo, dinanzi al progressivo, dissimulato, riemergere di quello che il Manifesto di Ventotene definiva il rischio del “militarismo o del burocratismo nazionale”.
Ma, come scrive Romano Prodi sul Messaggero (29.3.22), la crisi dell’ordine (anche geopolitico) liberale ha radici più profonde della prospettiva meramente congiunturale emersa con la guerra. Esse affondano, infatti, nell’indebolirsi del multilateralismo, nell’approfondirsi delle diseguaglianze, nell’asimmetria tra democrazia ed economia di mercato, sempre più soggetta a poteri oligopolistici assurti al rango di poteri privati tali da insidiare il ruolo dei governi. Questi fattori disgreganti (destinati certo a rafforzarsi nel contesto bellico, unitamente a flussi migratori che andranno gestiti con la necessaria lungimiranza) hanno favorito l’emersione dei populismi e dei sovranismi, essendo questi ultimi frutti della “ritirata dello Stato”, come scrive appunto Prodi. Un reale argine a questa tendenza può essere rappresentato soltanto dalla rivitalizzazione, per quanto faticosa, della democrazia in tutte le sue componenti e un rilancio dell’aspirazione federale europea. Che non può prescindere dalla consapevolezza della differenza dell’Europa, democratica per scelta originaria, rispetto alle autocrazie, con il conseguente netto rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e la fiducia (essa sì incondizionata) nel diritto e nella politica quali strumenti di governo di una realtà, anche geopolitica, sempre più complessa.