Sputiamo su… Rosetta non è un genere

Se dovessi immaginare un tema politico centrale nel dibattito odierno, in grado di coinvolgere e far convergere generazioni, ceti e luoghi differenti, credo che non avrei dubbi: la questione del genere, dei generi è  in questo momento l’argomento più forte e sentito (con declinazioni differenti) a tutte le latitudini. Dell’ondata delle proteste che hanno caratterizzato l’inizio di questo decennio, la componente politica che è sopravvissuta e riempie le piazze dall’Argentina alla Polonia, dagli Stati Uniti all’Italia è sicuramente quella che coinvolge, in varie forme, non sempre coese, la libertà sessuale e la definizione dei generi.


chefare rosetta verso casa della cultura

Martedì 6 novembre 2018 alle h. 19.00 Carlotta Cossutta, Elisa Cuter, Sebastiano Mauri, Veronica Raimo parleranno di genere/gender con Valeria Verdolini alla libreria Verso in Corso di porta Ticinese 40.
Rosetta non è un genere è il 5° appuntamento del 2018 con il ciclo di incontri Rosetta di Casa della Cultura e cheFare


Spesso tacciato come “tematica borghese” e come diversivo rispetto al tema centrale dei diritti economico-sociali, in realtà il genere, i generi, incrociano le questioni economiche e sociali con più forza di quanto si possa immaginare, e stanno agendo da grimaldello per forme diffuse di conflitto sociale, e per piccoli avamposti di resistenza all’avvento delle destre.

Da “ni una menos” al “#metoo”, il gender è una tematica globale, proprio perché le istanze si sono fatte collettive, aperte, trasversali, e  sfidanti un sistema neoliberista di tipo conservatore, che replica cercando di disciplinare i corpi e pensieri di tutte e di tutti.

Ma come mai ora? Cosa è cambiato? In che modo questo processo si inserisce in una dimensione storica?

Sono moltissimi i lavori e gli autori, ma credo che si possano scegliere due contributi che ben riassumono quelle riflessioni e quelle istanze. Se si rileggono con gli occhi di oggi due testi centrali nella storia del movimento italiano per i diritti civili (preso e immaginato come un tutto unitario, cosa che non è e non è stato) le analisi appaiono pregnanti e attuali. Delle molte esperienze, ne sceglierò solo due, evocative ma al contempo uniche e dirompenti. Penso all’esperienza del Manifesto di rivolta, e all’altro manifesto, il Manifesto di critica omosessuale di Mario Mieli.

Il Manifesto di rivolta femminista è un documento del 1970 a firma di Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti: “Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale”.

Credo che questo sia il punto più interessante e critico, ma al contempo più datato di quella dichiarazione di lotta e di libertà. Punto contraddetto poco oltre quando si afferma che: “Per educazione e per mimesi l’uomo e la donna sono già nei ruoli nella primissima infanzia”, individuando tutti i paradossi della relazione tra genere e orientamento sessuale.

Sebbene al centro di un pensiero fondato sulla differenza, che si legittimava nel liberatorio “sputiamo su Hegel”, il manifesto di rivolta aveva già in nuce molti aspetti di superamento della dimensione naturale per un approdo ad un vero e proprio lavoro culturale: “La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto”, o ancora “L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione”. Gli immaginari, le rappresentazioni, i modelli che trovano nelle strutture educative  la propria legittimazione sono individuati dal manifesto come ragioni centrali della produzione e riproduzione della diseguaglianza, e come elementi di produzione e riproduzione del potere: “Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è una necessità del potere; l’unica scelta soddisfacente è un rapporto libero”.

La libertà passa da una dimensione che viene declinata come ovvia per i corpi oppressi e che ha nelle costruzioni culturali (e nelle sue decostruzioni) il potenziale di liberazione.

La stessa libertà viene gridata, con toni ancora più forti, con corpi ancora più esposti da Mario Mieli, portavoce del FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) e figura indisciplinate ed indisciplinabile del movimento.  Attingendo alle letture di Deleuze e Guattari e partendo dall’esperienza del proprio corpo, Mieli costruisce un processo di liberazione del desiderio dai processi di edu-castrazione: “Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l’Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero.”

Preconizzatore delle teorie queer in Italia, dal palco del festival proletario del parco Lambro e tra le righe del Manifesto di critica omosessuale Mieli metteva già in guardia dai rapporti tra desideri e capitale, tra immaginari e politica: “Protezione degli omosessuali, morale permissiva, tolleranza, emancipazione politica conseguita entro certi limiti nei paesi a dominio reale del capitale, tutto ciò si rivela in sostanza funzionale al programma di mercificazione e sfruttamento dell’omosessualità da parte dell’impresa capitalistica. L’industria del ghetto è assai fruttifera: bar, club, alberghi, sale da ballo, saune, cinema, stampa pornografica per soli omosessuali costituiscono fonti di cospicui introiti per gli sfruttatori del cosiddetto “terzo sesso”. Il capitale opera una desublimazione repressiva dell’omosessualità”. Le costruzioni degli immaginari diventano gli spazi dell’azione politica, o della repressione della stessa.

Basta  un forte rigurgito capitalista a giustificare l’arresto di quel processo di liberazione? In che modo tuttavia i modelli linguistici, letterari, e cinematografici hanno inciso sulle trasformazioni e sulle polarizzazioni? Quanto invece quelle produzioni, ghettizzazioni e forme di disciplinamento sono state ancillari a processi di liberazione rimasti sempre parziali?

Vorremmo ragionare di immaginari, perché gli istituti, le istituzioni, fotografano questi processi ma non li spiegano nella loro potenza recessiva.

Se si ripercorre la storia giuridica, le strutture di diritto e di politica e le loro modificazioni, assistiamo ad una evoluzione degli spazi e dei diritti che sembrava inarrestabile ed inattaccabile. Abbiamo assistito ad un rafforzamento della cultura dei diritti di genere e de-generi in grado di creare spazi di libertà (presunti) stabili, che (suppostamente) non sarebbero mai stati erosi.

Si pensi solo al fatto che in meno di un decennio l’Italia anti secolare con la Democrazia Cristiana al potere aveva introdotto il divorzio (rafforzandolo con il referendum abrogativo del 1974), emanato una riforma del diritto di famiglia nel 1975 che rappresentava una vera e propria rivoluzione copernicana, trasformando il matrimonio da status a contratto, e infine, post referendum, approvatoo la legge sulla depenalizzazione dell’aborto, la  Legge 22 maggio 1978, n. 194.

Un lavoro di libertà e di liberazione ritenuto come assodato, dato per certo per noi, la generazione delle figlie e dei figli. Sono nata nel 1982. Faccio parte di quella progenie di un cambiamento culturale incredibile, che aveva portato ad un decennio di stravolgimenti nel nostro paese e cambiato la famiglia, le case, il lavoro e l’amore.

Un cambiamento così centrale da rendere possibile anche l’idea politica e potente di poter iniziare a rivendicare non più solo diritti connessi con il mio corpo, con le istanze di donna, ma anche diritti per altri, necessari perché naturali. Diritti che erano stati costruiti e declinati in pratiche subculturali e  ad un prezzo, repressivo, altissimo, e che iniziavano a trovare luce, spazio, legittimazione nel conservatorissimo stivale. Inizia così un ventennio di battaglie che aggiunge consonanti e allarga le questioni, un ventennio che dai primi pride osteggatissimi ha portato a “love wins” e alle deboli ma potentissime conquiste della legge Cirinnà.

Un cambiamento impensabile, veloce e potente, che tuttora esclude (in parte) quelle identità in transito, o molteplici, che solo con la disfatta del genere potrebbero trovare una collocazione, in quello spazio di universalità che nel “queer” ha trovato una filosofia e un’accoglienza.

Un processo tuttavia incompleto, e forse per questo fallibile.

La violenza è rimasta fuori da queste traiettorie, dalle battaglie d’amore e di libertà, così fuori che anche il diritto fatica a istituzionalizzarla:  per introdurre una legge sulla violenza sessuale (come reato contro la persona e non contro la morale) si deve attendere il 1996.

Quella violenza strutturale che si produce e si riproduce dai simboli ai corpi.

Quella violenza che aumenta anche se gli omicidi diminuiscono. Quella violenza economica, psicologica, fisica, che non è mai stata affrontata, e che rimane ancora oggi un sostrato dei discorsi prima ancora che delle relazioni fisiche. Quella violenza che è ritornata, in modo trasversale, omofoba, di genere, contro ogni forma di indisciplina. Una violenza che, nelle molte definizioni, trova nell’aggettivo patriarcale la sua collocazione. Una violenza che si somma (o si compone) di altre violenze, ad altre violazioni (di diritti civili, di diritti di migrazione) e costruisce il suo senso, il suo dominio. Che ha un nemico dichiarato: “l’ideologia gender”. Che riporta nel materno, nel domestico, nel matrimonio, nella dimensione di “natura” gli immaginari. Dall’Argentina a Verona, dal Brasile a Novara.


Stasera proveremo a discutere di questo. Delle urgenze, degli immaginari, dei modelli, degli antidoti. Vi aspettiamo alle 19 da Verso, con Carlotta Cossutta, Elisa Cuter, Sebastiano Mauri, Veronica Raimo.

Immagine di copertina: ph. Pablo Heimplatz da Unsplash