Sulla mia pelle: cinema e rivoluzione. Intervista ad Alessio Cremonini

É di pochi giorni fa la notizia che il ministro Bonisoli vuole regolamentare con decreto la distribuzione dei film, che dovranno uscire prima in sala e poi sulle piattaforme. Tuttavia, la tecnologia impatta sui linguaggi e li rivoluziona, compreso quello cinematografico. Di questa rivoluzione parleremo lunedì 19 al Cinemino assieme agli ospiti di Rosetta, il ciclo d’incontri di Casa della Cultura e cheFare.

Intanto, abbiamo anticipato molti dei temi che affronteremo in una conversazione con Alessio Cremonini, classe 1973, già assistente di Ettore Scola, che ha diretto “Sulla mia pelle”: il film tratto dalle vicende di Stefano Cucchi, presentato a Venezia e distribuito, contemporaneamente, nelle sale e sulla piattaforma Netflix.

Come nasce “sulla mia pelle” e perché scegli di fare quel film?

Ti dico la verità, in questo caso con più sincerità del solito. Avevo appena finito la sceneggiatura di un altro progetto, nel dicembre 2015. Poi, all’inizio di gennaio 2016 sento un’intervista a Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, alla trasmissione mattutina di Oscar Giannino. E ho pensato, mentre li ascoltavo, che avessero fatto il film. Ho proprio pensato, “ecco, hanno fatto il film” e sono andato a cercare il film su Cucchi, e ho pensato che sarei andato a noleggiarlo per vederlo quanto prima. Convintissimo che un film dovesse esistere, l’ho cercato per 10 minuti e ho trovato solamente un documentario. Mi sembrava una storia così importante, che aveva davvero degli elementi, tra molte virgolette, di raccontabilità. Anche se ne sapevo poco, per quello che ne sapevo, era evidentemente adatta per un medium come il cinema.

Per diventare lo spettatore del film che avrei voluto noleggiare a duecento metri da casa c’ho messo due anni.

Ho provato a ragionare da spettatore e ho cercato di fare il film che avrei voluto vedere. Un film che non sia morboso e che non sia pornografico. Perché quando c’è la morte di mezzo, diventa difficile non essere pornografici. Così, quando c’è la sofferenza umana, è difficile non cadere nel sentimentalismo facile. Ed era anche molto difficile non essere, e non fare un film ultras. Io non volevo essere contro, non volevo che lo spettatore fosse solo arrabbiato nei confronti di un’istituzione. Non era questo che mi interessava. Mi interessava molto di più che uno spettatore capisse cosa era successo a un suo concittadino. E seguire la sofferenza di quel suo concittadino era un canale possibile. Perché quella sofferenza era stata causata da uno Stato, di cui quel cittadino spettatore suo malgrado fa parte ed è, in qualche modo, corresponsabile.

In termini operativi, come ti sei mosso?

Ho cercato subito Fabio Anselmo per mettermi in contatto con la famiglia, anche perché la famiglia fa una battaglia anche mediatica, utilizza i media in una forma consapevole e molto avveduta per sostenere il proprio punto di vista.

Mi sembrava inevitabile e doverosissimo non dico avere il loro consenso, ma dialogare con la famiglia. Fabio Anselmo mi ha dato il numero di Ilaria e da lì è iniziato un rapporto di franca collaborazione. Due mesi dopo ero pronto con un soggetto e l’ho mandato alla produzione.

Ho inviato il soggetto, in primis, a Olivia Musini, che l’ha fatto leggere al socio, il padre Luigi Musini, che mi ha invitato alla Cinema 11, dicendomi: “io questo film lo voglio fare”, affermazione non così facile in Italia. Senza di loro non sarebbe stato possibile e, ancora, non sarebbe stato possibile se la Cinema 11 non avesse coinvolto un altro compagno di viaggio coraggioso che è stato Andrea Occhipinti e la Lucky Red. Senza queste tre persone, questo film non sarebbe stato possibile e non avrei avuto la forza di portarlo avanti.

E poi, piano piano, con Lisa Nur Sultan che è co-sceneggiatrice (mentre il soggetto è mio), abbiamo iniziato a scrivere. Il metodo di scrittura è stato quello di sentire la famiglia, gli unici testimoni con cui abbiamo deciso di parlare perché c’erano 10.000 pagine di verbali -tra cui quelli, utilissimi, che hanno assolto i 3 poliziotti penitenziari per quanto accaduto a piazzale Clodio. Queste persone erano totalmente innocenti, ma in quei verbali venivano raccontate un sacco di cose, molti passaggi riguardanti anche la parte dei ricoveri medici e gli atti del nuovo processo che è in corso.
Il metodo (perché anche nella creatività è necessario un metodo, sebbene il più bislacco) è stato quello di sentire solo la famiglia come testimonianza “altra”, perché avevamo bisogno di ricostruire la vita di Stefano che stava fuori dalla vicenda processuale: se aveva una ragazza, come trascorreva il suo tempo. Che tipo di vita era la sua, che tipo di persona era. Questo chiaramente nei verbali non c’era.
Tutto quello che è successo e che ha un valore processuale, l’abbiamo ricostruito facendo affidamento solo sui verbali, perché era assurdo che andassimo a chiedere cose ai medici, alla polizia penitenziaria, o ai carabinieri dopo che loro avevano parlato sotto giuramento con chi ha il potere di chiedere la verità, ossia il pubblico ministero.

Mi volevo affidare solamente a ciò che sapevamo dal punto di vista delle indagini. Per me quello è stato “il verbo”.

Però, tra i verbali che fino a qualche settimana fa erano in mano alla magistratura non c’era tutto. Ilaria Cucchi qualche settimana fa ha parlato di un velo che si è squarciato…

Be’, in quei verbali c’era molto. Tant’è vero che il film, non a caso, fa entrare Stefano Cucchi nella stanza del fotosegnalamento in cui Tedesco, il carabiniere che ha confessato ciò che è accaduto là dentro, era l’unico in divisa. Gli altri due no. Il fatto che ci sia stata una testimonianza/confessione da parte di una delle tre persone accusate di omicidio preterintenzionale vuol dire che chi leggeva i verbali aveva contezza di ciò che era accaduto, delle motivazioni per cui era accaduto. Non aveva magari la possibilità di comprovarlo legalmente: sono cose molto differenti, ma leggendo i verbali era chiarissimo. Come è chiarissimo nel film.
Un uomo entra sano in una stanza con le tre persone (due in borghese e una in divisa che, parrebbe, non ha partecipato al pestaggio) che sono state accusate – e nella modalità in cui sono state accusate  – ed esce pesto. Il film non fa vedere cosa accade dentro.
Perché non era legalmente sostenibile, né cinematograficamente utile.
Perché pensavo che censurare la violenza fosse più forte, più importante che mostrarla. In termini hitchcockiani e secondo i canoni per cui a volte è più importante non vedere, non mostrare. Le cose rimangono impresse più in profondità. Il film non parla di quel tipo di violenza.
Non volevo che si parlasse di tre minuti di pestaggio, non è solo quella la violenza che ha subito Cucchi. È la più atroce, la più carica, ma non è la sola. C’era il silenzio di tutti gli altri, una violenza meno evidente ma più terribile. Perché non è morto subito Stefano Cucchi, si poteva salvare.
Il film non è un film di detection.

Sarebbe stato molto più facile fare un film su Ilaria Cucchi. Molti, credo, al posto mio, l’avrebbero scelta come soggettiva. Poi il film è di tante persone, il cinema è meravigliosamente collettivo. Ma la scelta è meramente registica, e abbiamo fatto la scelta fortissima di concentrarci solo sulla vittima. Non entro nel merito ad esempio della responsabilità dei medici, rimango su Stefano.

Abbiamo raccontato la vittima perché mi sembrava che l’unica persona che non potesse più parlare fosse la vittima stessa, Stefano Cucchi. Raccontare la battaglia di Ilaria, della famiglia, di Fabio Anselmo, era per me meno interessante perché loro possono continuare a parlare e portare avanti la loro doverosa battaglia. Quello che mi interessava era far parlare un cittadino che non può parlare più, e vederlo. Vedere è molto più efficace che leggere. Molti hanno raccontato, ma vedere rimane più forte. Vedere la sua vita, le luci, le molte ombre che c’erano, era fondamentale. Vedere per noi umani ha una forza spaventosa. Stefano andava visto.
E, in questo caso, ciò che si vede è un calvario.

In un’intervista hai dichiarato che non si tratta di un film politico. In che genere lo collocheresti?

Non è un film politico. Magari se avessimo fatto un film riassumendo gli ultimi giorni di Stefano Cucchi, e poi raccontando la battaglia di Ilaria, quello sarebbe stato un film politico. Ma “Sulla mia pelle” non è un film politico.

È un film civico, di impegno civile, e sociale, però non è un film politico. È un film “di genere”, non è puro intrattenimento.

Però non ha una visione politica. Forse ha una visione più religiosa che politica. Anche perché, francamente, a me e ad Alessandro (Borghi, ndr.) – che tra tutti è quello che ha svolto un ruolo quasi da co-autore – interessava molto il fatto che questa storia avesse più letture. Capisco che sia più difficile, però ci sono e per fortuna molti altri le notano. Raccontare questa storia significa anche raccontare che cos’è la malattia, sebbene si tratti di una malattia indotta. Ci ha colpito molto quello che ci ha detto il direttore di villa Maraini, un’istituzione che dà sostegno, che fa volontariato e che c’era quel giorno, al tribunale di Roma: “La malattia è un’enorme perdita di potere”. Ecco, Cucchi dipendeva dagli altri, così tanto che forse in qualche modo andava capito un po’ meglio. Ad esempio, quando si copriva, con quel gesto da bambini, mi ricorda quello che fa mia figlia quando non mi vuole parlare. Ecco, mi interessava anche quest’altra lettura, della perdita di potere quando stiamo male. E poi, moltissimo, richiamare anche una certa iconografia classica della nostra pittura, credo che si capisca.
L’ultima inquadratura è una passione, e i Mokadelic, nella colonna sonora, scivolano dall’elettronica verso Bach. L’ultima inquadratura è una deposizione laica, e fermata da quel vetro, perché Ilaria Cucchi non ha potuto toccare il fratello. A questo ci ispiravamo. Perché sono credente mio malgrado, e questa vicenda mi ricordava molto la passione, una passione laica, un calvario, che finisce con quella deposizione.

Con Cucchi, con Aldrovandi, torna l’immagine della morte, dei morti, che diventano corpi politici.

Si somma ad un dato millenario di esposizione dei cadaveri, pensa solo ai santi. In questo caso il dato viene utilizzato in modo nuovo per una battaglia civile. E i media nuovi l’hanno liberalizzato.
In un altro momento, senza questa diffusione, non sarebbe diventata una sindone moderna.
Non mi stupisce che in un momento di grave difficoltà, in cui è accaduto qualcosa di terribile al loro congiunto, una famiglia trovi l’unico modo atroce -perché non ne sono stati offerti altri dallo Stato – di esporre un cadavere di un proprio congiunto, di esporne l’immagine.

Continuo a pensare che, sebbene proporzionata ai 60 milioni che siamo, anche io ho una parte (microscopica) di colpa rispetto a Stefano Cucchi, anche io dovevo stare più attento.

A tal proposito, se non nasce come film politico nelle intenzioni, possiamo dire che forse è un film che ha avuto effetti politici?

Certo, questo è un altro discorso. Ettore Scola diceva che il film è dello spettatore. Tu rielabori e prendi i pezzi del film, ti può piacere o non piacere, e se per un gruppo d’autori è un film di impegno civile, per un gruppo di spettatori può essere politico e quel gruppo di persone hanno la legittimità di farlo, di scegliere l’uso. Si deve accettare che il proprio film segua altre traiettorie e possa essere rielaborato.

Da questo punto di vista, se ci spostiamo su produzione e distribuzione, chi ha scelto di distribuirlo in contemporanea nelle sale e anche su Netflix, e perché?

Questo non era un film prodotto da Netflix. Era prodotto, con tutti i rischi del caso, da Cinema 11 e da Lucky Red. Poi io stavo finendo di montare il film e nel bel mezzo di quel lavoro Andrea Occhipinti ha avuto questa luminosa idea di farlo vedere a Netflix, che evidentemente stava cercando quel genere di prodotti. Netflix in questo momento sta producendo stelle assolute del cinema mondiale (si pensi solo a Cuaròn). Ecco, senza immaginarsi a quei livelli, Netflix anche in Italia stava cercando di produrre qualcosa, Andrea si è mosso e il film è piaciuto, quindi sono entrati anche loro nella produzione/distribuzione. La contemporaneità immagino che sia stata una richiesta, noi non volevamo perdere il cinema. Il film era fatto e pensato per andare in sala, anche se per me il cinema non è solo sala. Il grande cinema l’ho visto in televisione. “L’appartamento”, “Intolerance”: li ho visti in vhs o in televisione. Non potrei mai dire che il cinema è solo la sala. Pensa a “2001, Odissea nello spazio”: l’ho visto in sala per caso. Quindi, rispetto alla contemporaneità tra Netflix e la sala, perché no? Mi sembra una cosa giusta. Da spettatore molte volte vado a vedere film che in un mese e mezzo sono poi trasmessi in tv, senza sapere che quelli saranno i tempi, senza poter scegliere tra le possibilità. Mentre così è molto chiaro. La gente è andata al cinema, altri lo hanno visto su Netflix, altri hanno scelto le proiezioni collettive. Il film non ha avuto problemi per questo tipo di distribuzione. Secondo me Netflix è un altro modo di vedere il cinema.

Perché Cuaron, ad esempio, non viene distribuito con la stessa contemporaneità?

Degli altri casi non posso dare contezza, ma nel nostro caso era un’ottima cosa, ed è stata un’ottima cosa, anche se non ho formule. Ha funzionato ed era giusto farlo. Anche pensando agli italiani all’estero che non avrebbero potuto vederlo. Questo film ha una presa soprattutto per gli italiani, perché parla di un caso che ha diviso l’opinione pubblica e queste rivelazioni, tramutate in pellicola, sono molto meno divisive, soprattutto per chi non ha letto i verbali. Perché che Cucchi non fosse caduto dalle scale lo sapevano anche i nascituri, però questo ha comprovato ancora di più, nell’animo di chi era in dubbio, certe dinamiche. E ne ho la prova, perché mi scrivono moltissimo. Gli italiani, che stanno in mezzo mondo, l’hanno visto. Senza Netflix non avrebbero potuto, perché la distribuzione sarebbe stata di pochissime copie, forse, in qualche capitale. Forse per il prossimo film non sarà la formula giusta, ogni caso è a sé. Però dire che è male, come hanno fatto invece moltissime delle organizzazioni degli esercenti italiani, l’ho trovato un po’ miope, a parte che trovo che in una società evoluta il film abbia, de facto, moltissime censure dalle catene degli esercenti. Solo un cinema, in Piemonte, ha il coraggio di proiettarlo. Un solo cinema a Napoli. E non perché il film non faccia gola, ma per una chiara politica delle organizzazioni degli esercenti secondo la quale questo film non andava preso, nonostante facesse ottimi numeri. Non era un film che non avesse chances. È difficile però così, se si obbligano gli spettatori a spostarsi per raggiungere le sale che si oppongono alla politica degli esercenti. Ed è curioso che un film su una questione così importante – e non lo dico perché è un nostro film, ma perché è un film su Cucchi – abbia questo destino nelle sale.

Rimane un film scomodo, non solo per gli esercenti, se pensi alla richiesta delle liste di presenti delle forze dell’ordine in sala.

Io su questo non entro, non entro perché non ho contezza. So solo che se fosse successo qualcosa di grave avrebbero fatto la denuncia, invece non è così.

Come mai quindi rispetto agli atti processuali, alla fine fa più paura un film?

Perché questa è la forza del mezzo che tanto ci piace. Perché gli atti processuali sono 10.000 pagine, da riassumere in 100 pagine di sceneggiatura. Dare la possibilità di vedere tutte insieme quelle 10.000 pagine fa capire molto. C’erano state trasmissioni, c’era il documentario che è passato nella tv generalista. Bianconi assieme a Ilaria Cucchi ha scritto il libro, Bonini un altro, ma il tema è la forza del cinema. Il cinema ha la forza di mostrare una vicenda umana. E questo può spaventare, se qualcuno ha paura di questa cosa. E, forse, aver scelto come soggetto la vittima è una cosa che spaventa ancora di più. Perché concentrarsi su una deposizione credo abbia colpito molto, più che chiudere in un modo più catartico, magari con la battaglia di Ilaria. È una scelta forte, raccontare quella famiglia è forte. I verbali sono troppi per essere letti e compresi, mentre un film lo vedi, sta lì, in una sala buia come dietro al monitor, e lo vedi tutto insieme. Il cinema è meraviglioso per questo.