Il paesaggio rurale è davvero un paesaggio immobile?
C’è un libro, si chiama Conversazione in Sicilia e Vittorini lo pubblicò nel 1938. Nel 1953, ne uscì una riedizione (oggi ristampata da Bompiani e fino a qualche anno praticamente introvabile, se non in biblioteche come quelle della Fondazione Corrente in copie rarissime e autografate da Elio Vittorini per Ernesto Treccani in persona), che rielaborò il testo della prima pubblicazione aggiungendogli un apparato iconografico che fotografava la Sicilia degli Anni Cinquanta. Con grande sorpresa, le parole del 1938 – che descrivevano un paesaggio dell’Anteguerra – si adattavano consapevolmente alle immagini di una terra immortalata dal fotografo Luigi Crocenzi ben quindici anni più tardi – come se le lancette dell’orologio si fossero fermate. Noi non siamo i protagonisti di un romanzo di Vittorini, certo, ma ci sono luoghi d’Italia che, se ricontrati dopo tanto tempo, ritroviamo così come li avevamo lasciati anni prima.
A pensare a come rinnovare il paesaggio storico di luoghi – considerati – “immobili” arriva il progetto Heritage Innovation, un motore che parte dai piedi dell’Etna e viaggia lungo tutto lo Stivale. L’obiettivo è imparare a portare innovazione in località remote, attraverso le discipline artistiche – pilastro della nostra cultura. Salvatore Peluso, architetto, e Germano Centorbi, progettista culturale e fondatore di Kadmonia (Ortigia Sound System, Derive, La Nina) ne firmano il progetto. Così, l’architettura e il suono si stringono in un abbraccio che si realizza in un master universitario presso Abadir – Accademia di Design e Comunicazione Visiva di Catania. La questione è: si può parlare di innovazione, e quindi portare una ventata d’aria culturale in ambienti, luoghi dove la vita pare immobile, ferma o passata? Mentre le città cercano la lentezza e i territori più remoti provano a rivitalizzarsi, specie in questo periodo di emergenza, cosa significa rinnovare un patrimonio di un territorio rurale “fermo”, senza lasciare che smarrisca la sua identità? Lo abbiamo chiesto a due professionisti della progettazione culturale. Ecco cosa ci hanno raccontato.