Cosa succede quando la Terra ospita il biologico – intervista a Maria Desiante, agricoltrice

Pubblichiamo oggi il quarto (primo, secondo, terzo) intervento di una serie – Le parole del biologico – pensata e realizzata insieme alla collaborazione e al contributo di Alce Nero.

La visione della Terra come di un’astronave lanciata a tutta velocità nello spazio profondo, freddo buio e inospitale, e di cui noi siamo i passeggeri e in un certo senso i piloti, può sembrare un delirio fantascientifico o una metafora per mediocri divulgatori scientifici. Invece è letterale: siamo su un minuscolo grumo di terra, che in un sottilissimo strato tra il fuoco del suo interno e il vuoto dell’esterno, ha permesso l’insorgere di un evento improbabile, la vita.

E proprio come un’astronave chiusa e solitaria, può trovare solo in sé i suoi mezzi di sostentamento e le sue ragioni di esistenza.

Perciò conoscere e capire la Terra, vuol dire conoscere e capire la terra: il suolo che ci nutre è la casa che abitiamo; l’ambiente, la natura, il paesaggio, sono insieme il nostro posto e il nostro cibo. C’è una categoria di persone che questa cosa la capisce meglio di tutti gli altri, perché la vive con il corpo prima che con la mente, nella propria fatica quotidiana da decine di migliaia di anni: sono gli agricoltori.

È a uno di loro quindi che ci siamo rivolti per afferrare il filo che lega biologico, abitare e paesaggio, anzi a una di loro. Maria Desiante, una giovane donna che rappresenta perfettamente il connubio tra antico e moderno, fra la tradizione – masseria di famiglia – e il futuro. Coltiva soprattutto cereali, tra questi il grano duro e il farro concorrono alla produzione di pasta biologica Alce Nero: “Il biologico ha avuto un notevole impatto sulla mia persona e sulle scelte aziendali”, dice lei. Ma lasciamo che si presenti meglio da sé.

“Rappresento la quarta generazione di una famiglia di agricoltori e oggi lavoro a Gravina di Puglia, nella masseria di famiglia.

Negli ultimi anni mio marito oltre ad amare me si è innamorato della terra e guarda al nostro cammino con i colori delle stagioni. Abbiamo due figli, non sappiamo che cosa faranno da grandi, se seguiranno o no le nostre orme. So che lasceremo loro la responsabilità delle loro scelte come i miei genitori hanno fatto con me, e gli auguro di fare meglio di quanto abbia fatto io.

Se mi fermo a guardare i miei ettari di terra coltivati a grano, orzo, avena e legumi, mi è difficile pensare che ci sia stato per me un tempo diverso da quello dettato dai ritmi delle stagioni. Eppure è così. Avevo altri progetti, altre aspirazioni. Poi è successo qualcosa di imprevedibile che ha cambiato la strada dei miei sogni. Ho passato un periodo difficile, a causa della dura prova che la vita ha riservato alla mia famiglia.

Un grave lutto, la perdita di un fratello, che ha innescato una rivoluzione.

Ero tormentata da tante domande e tanti perché, ma abbastanza grande da rendermi conto che quella terra era una fiamma viva e non poteva affievolirsi. Fu così che capii: ciò per cui avevano lottato i miei nonni e i miei genitori nel passato andava conservato nel futuro e non poteva essere buttato via. Dedicarmi anima e corpo all’azienda agricola di famiglia era la cosa più giusta che potessi fare. Nel 2005 grazie ai consigli di amici, esperti agronomi, abbiamo deciso di convertire l’azienda tutta al biologico. È così che è cominciata la mia avventura. È stata ed è tutt’ora una scommessa importante e che comporta notevoli difficoltà.

Le sue coltivazioni sono tutte in bio? Ho visto poi che si dedica a vecchie varietà come il Senatore Cappelli, un grano duro profumatissimo: coltivate anche grani moderni?

L’azienda è tutta in biologico, seguiamo il regolamento Ce 834/2007, non utilizziamo prodotti chimici o di sintesi e rispettiamo le rotazioni colturali. In base alle rotazioni e alle caratteristiche specifiche del nostro terreno, prettamente argilloso, utilizziamo sementi non conciate chimicamente, apportiamo sostanza organica non bruciando le stoppie e utilizzando bacillus thuringiensis. Si prediligono sementi di grano duro che provengono da varietà antiche e le affiancano.

Cosa significa questa scelta a livello pratico? Minore resa vs maggiore qualità: il cambio è sempre conveniente?

Ovviamente è una scelta che ci porta ad aver minor produzione, a livello di quantità. In termini di qualità, la risposta non è facile perché tutto è influenzato dagli eventi atmosferici. In termini di salubrità, un chicco di grano prodotto secondo i criteri giusti e alle giuste temperature non sarà mai pieno di micotossine.

Il biologico ha rappresentato per me una grande sfida. Coltivare in biologico significa dover sottostare all’imponderabile, piegarsi alla volontà della natura e adeguarsi ai suoi bisogni. Non c’è mai un’annata uguale a un’altra, non si può prevedere con assoluta certezza come andrà un raccolto, dai venti alle piogge dall’umidità alla siccità. Troppe sono le variabili in gioco, proprio come nella vita… ma bisogna combattere e accettare i rischi, altrimenti, semplicemente, non ne vale la pena.

Quando ho cominciato questo mestiere ho fatto un salto nel buio, ma ho accettato la sfida della vita. Ho iniziato chiedendomi in continuazione “chissà cosa succederà domani?”. Ma sono convinta che la determinazione porta sempre buoni risultati. Oggi sono contenta di fare quello che faccio, ma non pienamente soddisfatta.

E a livello interiore, di benessere psicologico (per l’agricoltore intendo), cosa cambia fare una scelta radicale come la sua? Coltivare vecchie varietà con metodi tradizionali comporta un cambiamento di atteggiamento nei confronti del pianeta Terra, oltre che della terra?

Terra, per me, è intesa come coltre per la vita, e non solo come pianeta Terra. Siamo ospiti di questo mondo che prima di tutto è fatto di natura, luce dei nostri occhi e cura del nostro animo. Non puoi apprezzare la vita se non tuteli colori, luci, odori, suoni, consistenze e percezioni: ecco dove entra in gioco il Paesaggio. La nostra è stata una scelta di vita, una scelta etica. La terra, se non la ami alla follia, non puoi apprezzarne il valore.

Come dico sempre, bisogna essere malati di terra, altrimenti non si riesce ad andare avanti. E io, la mia “malattia”, me la “coltivo” così, guardando il tempo che passa sui miei campi, godendo di ogni istante, dal periodo della semina carico di interrogativi alla primavera durante la quale le piante continuano a crescere donando al campo un verde intenso, fino all’estate, il momento della mietitura, il mio preferito, quando finalmente posso stringere tra le mani il frutto del nostro lavoro. Il momento della raccolta si aspetta proprio come si aspetta un bambino.

Ed è ai bambini che guardo, è a loro che vanno i miei pensieri e i miei progetti, perché tutti noi che facciamo questo mestiere abbiamo il dovere di nutrire al meglio le nuove generazioni e di insegnare loro il rispetto per la terra.

Il biologico ha molti sostenitori ma anche detrattori che “non credono”, come se fosse una fede. Cosa si può rispondere a questi argomenti?

La verità è che ci sono troppi furbi in giro, che non aiutano il biologico serio a venire ancor più a galla. È per questo che ad Alce Nero non mi lega solo il rapporto di agricoltore/conferitore: tramite Alce Nero sono stata inserita in un libro della Giunti editore dal titolo Cibo vero – storie di passione per la terra, sono entrata in contatto e ho collaborato con Libera di Don Ciotti, con la cooperativa Le Terre di Don Peppe Diana, con Slow Food. Nel 2013 mi è stato conferito il premio nazionale Bandiera Verde Agricoltura in quanto titolare di azienda che si è distinta per capacità produttive e per la difesa del territorio e dell’ambiente.

Come si può fare a rendere il biologico sostenibile e democratico non solo per il produttore ma anche per il consumatore? I prezzi più alti, il buono pulito giusto di Slow food, non rischiano di allontanare i meno abbienti?

Per me democratico significa onesto, finché non ci sarà onestà la democrazia non vincerà. Viviamo in una società che è fintamente libera e democratica, siamo purtroppo schiavi.

Il biologico è anche bello oltre che buono? Intendo: le coltivazioni tradizionali hanno un impatto positivo dal punto di vista nutrizionale e ambientale, certo, ma anche paesaggistico ed estetico, rispetto a quelle convenzionali?

Il biologico è bello perché dietro ha la vita e le persone; è buono, sicuramente, perché la pianta per sopravvivere deve combattere contro tutti i segni del tempo. Il biologico è tradizione perché proviene dal passato ed è proiettato nel futuro attraverso una rivisitazione dei mezzi tecnici. Il biologico rende la terra e i suoi abitanti più vivi e crea un equilibrio sano tra agricoltura e la natura… abbiamo visto arrivare api, lombrichi pullulano come le lucciole durante l’estate. È equilibrio nell’ecosistema.

Entro qualche anno i 2/3 delle persone del mondo vivranno in città, e produrranno i 2/3 delle ricchezze. Ma tutti per sopravvivere avranno bisogno di mangiare, tutti noi in un modo o nell’altro facciamo affidamento sull’agricoltura e sulla terra. Qual è il punto di vista di chi invece quella terra la coltiva e la abita? Della minoranza chiamata a nutrire la maggioranza?

Abbiamo vissuto, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, un periodo in cui i prodotti agricoli non avevano il giusto valore economico e il sistema bancario nella sua funzione di concedere prestiti si rivolgeva ad altri settori. Ieri come oggi ci ritroviamo ad essere definiti folli. Anni fa continuavo a ripetere a mio padre: «Ma come fanno a non capire che tu produci qualcosa che serve a nutrire le persone?». Oggi mi ripeto quella stessa domanda, pensando alla tecnologia che avanza vorticosamente e al fatto che nessuno si ferma a pensare che l’agricoltura è il fondamento della vita.

Chi vive in città non può comprendere appieno cosa la terra può donare, la ricchezza prodotta in città dovrebbe remunerare meglio quella minoranza che fatica tutti i giorni per sfamare la popolazione. La ricchezza si produce, ma non si mangia.