È necessario radicalizzare il cambiamento: un nuovo ruolo per l’innovazione sociale

L’innovazione sociale negli ultimi dieci anni ha avuto nell’ancoraggio alla dimensione di luogo un grande alleato: un riferimento capace di esplicitare ed esemplificare soluzioni orientate a cambiamenti sociali ed inclusivi. Processi che, tanto nei mezzi quanto nei fini,  hanno dimostrato che “si può fare” e che ciò che nasce dal basso non ha solo una valenza segnaletica, ma una rilevanza politica ed economica. Innovazione e luoghi sono un binomio solido, un’endiadi. Lo abbiamo osservato nelle tante esperienze che hanno rilanciato la necessità di un fattore d’innesco che ricomponesse l’urbs con la civitas. Benchè la parola “luogo” non compaia in nessuna definizione d’innovazione sociale, è impensabile far a meno di questa “soggettualità” nei processi d’innovazione a matrice comunitaria.  Tanto le politiche di sviluppo quanto quelle di welfare, nelle loro sperimentazioni, hanno certificato la necessità del “Dove” per realizzare efficaci azioni di coinvolgimento di comunità e dei suoi portatori d’interessi. La presenza o meno di un luogo segna spesso il destino di un progetto perché in grado di aumentare le probabilità di sostenibilità e di incoraggiare tanto la partecipazione quanto la trasformazione del contesto.

Insomma i luoghi hanno fatto, fanno e faranno sempre più la differenza.

È accaduto quando le azioni di riqualificazione hanno trovato nel valore di legame con la comunità, la scintilla e le risorse per rigenerare territori vulnerabili; quando la ricerca di una “casa” per dar potere all’espressività della comunità, ha rigenerato asset abbandonati dallo sguardo dello Stato e dall’interesse del mercato. È sotto gli occhi di tutti come le politiche pubbliche stiano lentamente maturando una diversa “coscienza di luogo” (G. Beccatini). Se ne sono accorte quando nelle politiche di sviluppo e rigenerazione delle aree interne e delle periferie è emersa l’impossibilità ad agire cambiamenti sostenibili, senza la presenza di un “assett dormiente” che ri-attivasse la comunità e catalizzasse nuove risorse; quando nel progettare servizi sociali ed educativi han compreso che le comunità educanti ed i patti educativi, dovevano essere immaginati e abitati in uno spazio fisico da tutti riconosciuto. Tanto la cultura ed il terzo settore, quanto le istituzioni pubbliche e le imprese nei processi d’innovazione e rigenerazione, in questi anni si son misurate con la dimensione dello spazio, con la sua “necessaria trasformazione in luogo”, comprendendo che questo valore (spesso inatteso) non era solo una innovazione di processo, ma una vera e propria innovazione di prodotto.

Un’innovazione che non si può più tacere, ma che oggi rischia di diventare ostaggio di una crescente platea di soggetti e strumenti capaci di piegare “il valore dei luoghi” ad un uso sempre più strumentale. L’elenco delle pratiche estrattive non è solo dominio del mercato (dove le politiche di riqualificazione e gli investimenti immobiliari  tendono ad aumentare in maniera esponenziale “l’area di esclusione” di molti a vantaggio di pochi) ma di molte politiche pubbliche orientate alla rigenerazione e all’infrastrutturazione sociale  e di molte imprese sociali che per rispondere alle sollecitazioni “prestazionali” delle gare d’appalto, finiscono per svuotare di senso lo spazio e il territorio che abitano. La pandemia anche su questo fronte si presenta come uno spartiacque che da un lato rilancia il valore della dimensione di luogo, dall’altra chiede una sua profonda ri-significazione per non vederne svuotato il senso e l’impatto.

Siamo in una fase nuova dove occorre un nuovo orizzonte di senso e nuove categorie di valutazione capaci di ri-motivare dimensione pubblica e privata, profit e not for profit verso un nuovo investimento nella creazione di luoghi misurati dalla felicità pubblica e non solo dalla loro performance e attitudine ad alimentare transazioni monetarie.  E’ inaccettabile vedere crescere la marea delle disuguaglianze generate da economie estrattive e da politiche che pensano ancora in due tempi: prima la crescita, poi la redistribuzione.  Se è vero che i luoghi sono spazi che generano valore è arrivato il momento di capire dove va questo valore, come viene redistribuito, chi partecipa e che futuro costruisce.  L’innovazione sociale non può più essere la ciliegina sulla torta ma una prospettiva antagonista, per ri-sostanziare il valore dei luoghi e per non vedere estratto il “surplus” generato dalle interdipendenze che in esso agiscono.  A tal fine è necessario rifondare il valore di luogo su tre direttrici.

1 Luoghi come fonte di democrazia deliberativa. Una democrazia intesa non come mera procedura, ma come dinamica argomentativa capace di rendere lo spazio pubblico il luogo dove la diversità si confronta generando proposte e consenso. La moltitudine di esperienze (in particolare quelle matrice culturale) distribuite sul territorio nazionale, costituiscono un antidoto alla plutocrazia nella misura in cui saranno capaci di nutrire le proprie attività con metodi intenzionalmente deliberativi, alimentando quelle che V. Havel chiamava “polis parallele” o che A. Pizzorno indentificava come “spazi dell’operare di uno Stato alternativo” (è nello spazio pubblico, infatti, che si manifesta la vera espressività della società)  Luoghi come fonte di nuova democrazia: una democrazia che sia base dell’innovazione e dello sviluppo e non viceversa.

2 Luoghi come fonte di istituzioni inclusive. Il valore dei luoghi è connesso alla creazione di nuove istituzioni. La natura e la prospettiva di queste istituzioni non è un fattore secondario. E’ necessario infatti che al di là della forma giuridica, i luoghi si caratterizzino come fonte per istituzioni inclusive. Il cambiamento a cui siamo chiamati, infatti, deve combattere la proliferazione di “istituzioni estrattive” come ci ricordano in maniera mirabile Acemoglu e Robinson nel libro “Perché le nazioni falliscono” (Il Saggiatore 2012) . La (buona) vita delle persone e delle economie, al pari di quella delle nazioni, è inscindibilmente legata alla qualità delle sue istituzioni, alla capacità che queste hanno di alimentare una struttura di incentivi che stimoli la cooperazione e l’innovazione, alla capacità che queste hanno di promuovere processi di co-creazione e inclusione intenzionali, alla capacità che queste hanno di progettare missioni trasformative misurabili in termini di valore pubblico. La governance dei luoghi, quindi, non è neutra.

3 Luoghi come fonte di economia sociale. Dopo aver dimostrato che lo spazio è il fattore sorgivo della partecipazione e della collaborazione, è necessario fare un salto (culturale) in avanti e rilanciare i luoghi come strumento per generare lavoro giusto e decente (ILO) e per rilanciare nuove economie sociali capaci di reinterpretare e rilanciare il mutualismo (Venturi-Zandonai). Sottrarre lo spazio pubblico alla speculazione e restituirlo non solo alla partecipazione ma anche ad economie di luogo, non puà essere solo un effetto della spinta che viene “dal basso”, ma una missione delle Pubbliche Amministrazioni (come suggerito dall’Action Plan Europeo sull’Economia Sociale)

Tre prospettive da coltivare non solo per alimentare credibili valutazioni d’impatto sociale (sempre più spesso ridotte a procedure che orchestrano metriche dentro un marketplace di fornitori) ma per contrastare la crescente strumentalità che invade la dimensione fisica dello spazio pubblico, il suo valore d’uso e di legame.  La battaglia contro la rendita e la desertificazione sociale richiede un approccio che radicalizza il valore dei luoghi, lo ri-sostanzia legandolo al valore dell’umano ed alla sua fioritura (S. Zamagni).

 

Immagine di copertina di Ramon Kagie da Unsplash