Dove sono gli artisti? Vedo solo populisti

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    Quello che segue è un dialogo, tra un pianificatore e progettista di politiche urbane che vive a Milano e un docente di Urbanistica e social planner di una associazione che lavora ai Quartieri Spagnoli di Napoli, attorno alla relazione tra innovazione sociale, rigenerazione urbana e esercizio del “noi”.

    Giovanni

    Credo che possiamo condividere una lettura dello sfondo, da approfondire in futuro: «Non sappiamo che cosa ci sta accadendo ed è precisamente quello che ci sta accadendo» (la frase è di Ortega y Gasset, riportata nel libro di Edgar Morin, Svegliamoci, 2022). Nella grande trasformazione che viviamo, sono evidenti la crisi delle forme della democrazia e la sempre difficile efficacia delle politiche pubbliche, costrette fra sintesi e velocità (e quindi verticalizzazione) e intelligenza, contaminazione, apertura, pluralità (e quindi tempo lento dei processi decisionali). La nota crisi dei corpi intermedi è un’altra invariante di questa condizione. Tutti siamo agiti da pulsioni di tipo individualistico, spinta all’intraprendenza, ricerca di visibilità e di esiti a breve dei nostri impegni.

    Anche per la crisi delle élite c’è quindi una straordinaria attivazione di singoli e piccoli gruppi. Un attivismo che esprime tante buone ragioni: voglia di protagonismo civico e politico, messa in campo di intelligenza collettiva in pratiche “dal basso”, (o meglio dal di fuori delle istituzioni, ma quasi sempre avviate da ceti medi e/o creativi, non di rado ben garantiti), anche per vivere più sensatamente i luoghi; tensione a vivere qui ed ora cantieri efficaci di modi (nuovi) che sembrano più convincenti per dire “noi”. Magari anche recuperando preziose quote di patrimonio culturale: spazi sottoutilizzati,  il pane come si faceva una volta”, “il cibo nelle filiere corte”, le ciclopedonalità, sino al “burraco di ballatoio”.

    Claudio

    Riflettendo sulla citazione di Morin, mi sono chiesto se c’è mai stato un momento in cui abbiamo saputo ciò che ci stava accadendo attorno. Ortega y Gasset registrò, in maniera icastica, il pensiero della crisi, che è del Moderno. Lungo tutto il Novecento, la consapevolezza di essere stati gettati in una condizione di smarrimento non ci ha mai abbandonato. Oggi, consapevoli che «non siamo mai stati moderni», sappiamo molto bene ciò che ci sta accadendo ed è esattamente ciò che ci angoscia. Non siamo più nella crisi, perché le crisi – ambientali, sociali, finanziarie – si sono intrecciate, dispiegando i loro effetti e presentandoci il conto. Sappiamo ciò che occorre fare: robuste politiche pubbliche per la transizione giusta e riorientamento dei comportamenti personali.

    Mi sollecita dunque l’idea di interpretare la mobilitazione di singoli come prova e anticipazione di quelle che dovrebbero essere decisioni collettive. Singoli, gruppi informali, associazioni, che riattivano un immobile dismesso incrociando pratiche culturali e servizi di welfare, che coniugano lavoro e inclusione, che riabitano le terre alte, offrono una opportunità alla transizione. Più che iscriverle nel dominio dell’accelerazione, le vedo vocate – seguendo Hartmut Rosa – a un principio che definirei di risonanza, proprio nel tentativo di sciogliere il nodo che tu denunci (il quale continua a sembrarci inestricabile), tra modernità, accelerazione continua, volontà di controllo e alienazione.

    Giovanni

    Apprezzo molto la tua postura possibilista, ho il però dubbio che di fatto sottovaluti alcune dimensioni per me critiche. Ho in mente un tarlo: osservando diverse di queste buone storie di attivismo propositivo, troviamo un interessante contaminazione fra la forte spinta insorgente verso un rinnovo della democrazia, del protagonismo dei cittadini e un rinnovato modus vivendi del fare impresa, aggressivo, scaltro, veloce, privatistico, competitivo. Un modo di fare però che, in realtà, non incarna alcune sostantive dimensioni dell’innovazione quando questa vuole essere intesa come innovazione sociale, cioè capace di produrre maggior inclusione di soggetti fragili, defavoriti.

    Claudio

    Il mio punto è: intraprendenza e cura delle reti sociali non sono disgiunte. Nelle pratiche che mi capita di osservare, la prima è condizione per esercitare la seconda. Attraverso la forma dell’impresa sociale (uso il termine per indicare un principio d’azione, più che il veicolo organizzativo), si organizzano sperimentazioni intraprendenti per questioni di grande impatto, sulle quali le politiche pubbliche (nel senso di istituzionali) arrancano, forniscono risposte standardizzate, o lasciano non trattate: abitare, migranti e rifugiati, dispersione scolastica, lavoro, ecc.

    Aggiungo che chi si occupa di disegnare politiche dovremmo farci incuriosire dall’approccio e dal metodo che guidano queste pratiche: il loro carattere aperto, creativo, esito di negoziazioni e aggiustamenti successivi, prove ed errori, progettazioni svolte come indagini, fallimenti e ripartenze, apprendimento e riflessione nel corso dell’azione (cioè produzione di innovazione).

    Giovanni

    Ho l’età per ricordare bene quando da giovani ci si poteva orientare, un po’ per caso, secondo la scuola e il quartiere ove vivevi, un po’ scegliendo, oltre la prima cerchia di coloro con cui suonavi o facevi sport, ambienti fra l’oratorio salesiano o dei gesuiti, il circolo Arci, il gruppo musicale o quello teatrale di cantina, la società sportiva. Si aderiva a un “noi” più grande della somma delle individualità. Dal particolare ripensamento intorno alla politicità della vita privata si è passati ad una inevitabile riconsiderazione delle dimensioni degli interessi personali e privati nella politica.

    Claudio

    Rischiamo di associare queste pratiche ad una antropologia individualistica, perché l’investimento (cognitivo, emotivo, a volte anche finanziario) che mobilitano è totalizzante. Ma non è una mobilitazione individualistica: nel suo manifesto, l’Associazione Lo Stato dei Luoghi – il soggetto che ne rappresenta una porzione significativa – scrive: «Siamo intraprendenza e cura, making e misericordia, artigiani di alleanze».

    Privi di solide culture politiche di appoggio o escatologie rassicuranti, sanno che non c’è nessun sol dell’avvenire ad aspettarli. Hanno capito che devono sfangarla (muddling through, direbbe Lindblom), perché gli aiuti sono pochi, i sostegni sporadici, i contributi erogati una volta che la spesa è stata rendicontata. Più che misurare i limiti del loro agire (che sono certo numerosi), io metterei sotto scrutinio le misure che dovrebbero abilitarli, spesso inabilitanti. Un recente pamphlet su Milano li considera pesci pilota della pervasiva gentrificazione, una nozione trasformata in clava.

    Giovanni

    Devo pensarci. Mi suggerisci che forse ho occhiali che non mi fanno vedere fino in fondo la rottura con il recente passato. Come sai non mi hanno mai convinto le letture dei radicali. Credo che, pur proponendo brandelli di analisi ben argomentate, esprimono una forma di retrotopia (à la Bauman), cercano una narrazione di sistema-mondo che in qualche modo ci rassicuri. Ma qui torna una questione: la straordinaria mobilitazione dei mille cantieri dell’insorgenza civica non finisce per essere, oltre che una distrazione di massa, la costruzione sociale della legittimazione della riduzione della spesa pubblica per il welfare? Non avverti che in molti casi questi gruppi sociali e i loro leader policy activist di fatto sono molto più presi da questioni di (sacrosanti) diritti civili, serissime questioni ambientali, stili di consumo con un progressivo distanziamento dalle spinose questioni dell’equità sociale, del diritto allo studio, alla casa, al lavoro decentemente retribuito? Ho visto ancora poco in giro ma ho l’impressione che il più delle volte in queste storie i sovrannumerari, i dispensabili, quelli che fanno molta fatica sono altrove.

    In Italia c’è il gravissimo problema della diffusione dell’evasione fiscale e dell’informale. In altre parole, la sintonizzazione su questioni cruciali giocate in microcantieri locali non costituisce di fatto una delega ad altri ad occuparsi di quella cosa oggi invivibile che è la politica intesa come costruzione di consenso per essere nelle istituzioni e condizionare il governo del Paese?

    Claudio

    Ma sono proprio le sperimentazioni sociali a occuparsi delle questioni strutturali. Il lavoro decentemente retribuito è l’“oggetto sociale” di So.De-Social Delivery, che fa delivery etico e nasce in collaborazione con uno spazio riattivato a Milano. Il diritto allo studio mi sembra attivamente perseguito da un progetto come Traiettorie Urbane a Palermo, più che essere garantito dall’istituzione preposta – il Ministero dell’Istruzione e del Merito che infatti lo nega attivamente perfino con il nuovo nome che si è scelto.

    La politica nazionale nel nostro Paese non si occupa di policy. O meglio, se ne occupa trattandole come politiche simboliche, o riducendole ad un livello che definirei primitivo. Prendi l’oggetto di cui ci occupiamo, la città: le politiche urbane di livello centrale sono espresse dai bandi per i Comuni. Invece che distribuire risorse attraverso meccanismi di gara, si dovrebbero scegliere territori-pilota, co-progettare con le amministrazioni locali, disegnare processi, stipulare accordi per l’attuazione. Un modello del genere lo seguì la Strategia Nazionale Aree Interne, infatti l’hanno chiusa.

    Dunque, che si fa? Ci dobbiamo dire che una politica nazionale per le città non la avremo mai, come “la lotta all’evasione fiscale”? Spererei di no, ma temo di si. Se saremo abbastanza intelligenti, potremmo sostenere le tante sperimentazioni che ci sono e tentare di consolidarle.

    Giovanni

    Non riesco a condividere con Te la definitiva disillusione su corrette politiche redistributive. La questione spaziale ha alcune peculiarità evidenti. la presenza in tante città, di migliaia di edifici: ex-qualcosa, sottoutilizzati o abbandonati. Bisogna immaginare e mettere alla prova nuove funzioni tenendo conto che è cambiata la base economica della città, i modi di convivere, lavorare, produrre e distribuire ricchezza, ma anche di studiare, far circolare informazioni, merci, persone. Per “funzionare” dovranno comunque poter essere delle pompe, magneti, di vari tipi di risorse.

    Claudio

    Le sperimentazioni sociali di cui stiamo parlando hanno avuto il merito di introdurre, nel dibattito sul riuso del patrimonio dismesso (la discussione pubblica preferisce porre l’attenzione sul contenitore), l’attenzione alle pratiche d’uso che attendevano quegli spazi, caratterizzandoli come spazi ibridi (spostando così l’attenzione sul contenuto).

    La prospettiva – secondo me – è consolidare le innovazioni sociali più interessanti, nei quartieri in cui risultano più dense, aiutandole a fare rete e dando loro una opportunità di sviluppo verso una strutturazione del tipo “regie sociali di quartiere”.

    Giovanni

    Certo le Case di quartiere ormai attivate in molte città, i poli civici a Roma riferiti agli Idea Store londinesi, e decine di altri modelli, tenendo dentro anche le regie sociali di quartiere sono esempi di grande interesse. Si tratta di grandi cantieri di fertilità della cittadinanza, di coesione sociale, come pure di ragionevolizzazione di politiche e buon uso di risorse. Fonti di opportunità per tante persone che hanno tanti diritti negati. Uno straordinario cluster di cantieri della buona convivenza, in contesti ove, a mio avviso, in molti cerchiamo setting di buona convivenza fra estranei, cercando modalità di gestione possibile dei conflitti. Conflitti di cui si discute molto poco anche per il fuorviante rumore di fondo fatto dai media. Ma dobbiamo approfondire: credo sia molto utile. Ti ho già accennato che in questo grande variegato movimento collettivo c’è anche una faccia – migliore di altre – del populismo che il nostro Paese sta vivendo.

    *Il titolo è tratto da un versetto dalla canzone Carmen di Francesca Michielin.

    Immagine di copertina di Jason Leung da Unsplash

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