Come fare cultura nella ‘Zona Rossa’, tra esperienze individuali e risposte collettive

Questo articolo è tratto da Blueprint, pratiche culturali trasformative e urgenti: una collezione di modelli, esperimenti e prospettive del meglio in circolazione per trasformare la cultura e renderla aperta, potente e sorprendente. Un compendio su tutto ciò che è cambiato per la cultura durante la quarantena per la pandemia di Coronavirus, a cura di cheFare, Polo del ‘900 e Simone Arcagni. Leggi tutto il volume.

Il Coronavirus sta impattando in modo radicale nella vita di tutte e tutti. Per il settore culturale, questo è vero su almeno cinque livelli, distinti e complementari: i produttori di cultura (artisti, scrittori, musicisti, ricercatori, tecnici, etc.); le istituzioni, grandi e piccole (musei, biblioteche, archivi, accademie, etc.); le imprese culturali (compagnie teatrali, agenzie di booking, librerie, etc); i policy maker e gli erogatori (decisori nazionali, amministrazioni locali, fondazioni bancarie, d’impresa e di famiglia, etc); i fruitori delle opere, come gruppi e come singoli (lettori, spettatori, ascoltatori, pubblici, scene, communities, etc).

Certo, si tratta di mondi e modi vicinissimi eppure lontani. Intanto perché tagliati longitudinalmente in una miriade di settori dotati di una ineludibile specificità, dal cinema d’animazione al teatro sociale passando per l’archeologia e la musica elettronica.

Poi perché le conseguenze del Coronavirus sono state – e sono tuttora – vissute in modi radicalmente diversi in contesti diversi, mutati costantemente nel tempo: regioni del Nord, del Centro e del Sud; zone con maggiore o minore presenza di focolai; periferie e centri; città, paesi, aree rurali e montane. Contesti nei quali i mondi della cultura hanno reagito alle restrizioni del distanziamento in una molteplicità di modi, condizionati da diverse strutture socio-demografiche, diversi consumi culturali, diverse politiche culturali territoriali e soprattutto diverse geometrie delle disuguaglianze.

Le disuguaglianze sono una delle condizioni più invocate e meno comprese nei mesi successivi al lockdown.

E sono proprio le disuguaglianze una delle condizioni più invocate e meno comprese nei mesi successivi al lockdown: età, genere, classe, ceto, abilità, appartenenza territoriale, condizioni della cittadinanza hanno influito e influiranno in modo drammatico sul senso individuale e sociale di questo gigantesco trauma collettivo. Che ancora adesso sta venendo raccontato posizionandosi in un continuum che va da “il lockdown è stato una pausa di riflessione” a “ho perso il lavoro a marzo 2020 e non so più come andare avanti”. O, se vogliamo, da “il lavoro a distanza mi permette di dedicare più tempo a me stesso e ai miei cari” a “sto impazzendo perché lavoro dieci ore al giorno davanti al computer in una casa microscopica e non so come far stare tranquilli i miei figli”.

Al di là di tutte queste differenze, e di molte altre ancora, c’è qualcosa che accomuna tutte e tutti. Sono le domande e le incertezze. I nostri modi di percepirci e pensarci nello spazio e nel tempo non sono solo cambiati: sotto molti aspetti sono sospesi. Mai, in tempi recenti, abbiamo vissuto come società un tale livello di indeterminatezza, nel tempo e nello spazio.

Nel tempo, perché quello che ci sta di fronte ha contorni talmente sfumati da risultare illeggibile. Quando torneremo “alla vita di prima”? Fra sei mesi? Fra un anno? Fra due? E cosa rimarrà della vita di prima, per poterla ancora chiamare tale? Il tempo è molte cose, tra le quali un orizzonte di proiezione delle narrazioni e delle scelte. Tutti – persone, gruppi, organizzazioni – stanno posticipando le proprie scelte in un futuro incerto. Scelte piccole e grandi. Di spostamenti, di investimenti, di sentimenti.

E nello spazio. Perché mai come adesso non sappiamo interpretare la natura della nostra esperienza individuale. Cosa rischia il mio corpo? Cosa rischiano i corpi altrui? Quando e come metto a rischio me stesso e gli altri? Cosa posso conservare delle mie abitudini di interazione con il prossimo, fino a che punto posso osare e dove invece è necessario cambiare? Viviamo un’incertezza fatta di distanze, di metri lineari e metri cubi, di gesti da reinventare e intimità da riconquistare. E mai come adesso, allo stesso tempo, non sappiamo come costruire l’esperienza con gli spazi e i luoghi che abitiamo e attraversiamo. Quante persone possono stare in una sala da teatro e quante ad un concerto? Quanti studenti in un’aula e quanti tavolini di caffè su un marciapiede?

Nella gestione dell’emergenza, giustamente, abbiamo fatto di tutto per cercare indicazioni nella scienza e produrre linee guida, normative e modi d’attuazione. Ma il vero punto sta nelle forme della nostra esperienza e in come negoziano con lo spazio e con gli altri corpi. E in come produciamo simboli che attribuiscono senso a questa esperienza, in quanto individui e in quanto collettività.

E allora la cultura – come campo di esperienze e come spazio del simbolico – è la finestra della quale abbiamo bisogno per disinnescare la rimozione del trauma collettivo che è stato, è e sarà il Coronavirus. Non solo “la cultura per qualcos’altro”. Non solo la cultura come impresa e sistema economico. Non solo la cultura come strumento di rigenerazione urbana. Non solo la cultura come abilitante di coesione sociale. Non solo la cultura come enzima per la salute e il benessere. Non solo la cultura come riscoperta e dialogo con i pubblici. Non solo la cultura come conservazione e valorizzazione del patrimonio del passato.

Ma anche e soprattutto la cultura come sguardo critico, come lettura individuale e collettiva del mondo, come confliggere cacofonico di armonie e ritmi diversi che abitano gli stessi tempi e gli stessi luoghi. Come esperienza che si apre alle domande – nuove e senza tempo – che quest’epoca ci impone.

Questo volume raccoglie esperienze basate su pratiche, linguaggi e concezioni della cultura diversissime. Guardandole tutte assieme, però, possiamo iniziare a formulare le domande da portare con noi nell’incertezza. Un primo gruppo di domande riguarda, inevitabilmente, il rapporto tra cultura e digitale. La quantità di tempo che passiamo di fronte agli schermi è aumentata esponenzialmente; la didattica, il lavoro, le esperienze culturali, le relazioni sociali sono state trasposte giocoforza dal mondo materiale a quello online senza che nessuno fosse, realmente, preparato. Per digitalizzare un oggetto o un processo culturale, basta trasferirli su una piattaforma di streaming? Cosa perdiamo e cosa guadagniamo facendolo? Quali esperienze, quali forme di attenzione, quali potenzialità attiviamo? Quali forme di intimità perdiamo? In quali casi questa crisi è un’opportunità di alfabetizzazione digitale? Per chi, e a quali condizioni?

In quali casi invece è la causa della moltiplicazione delle disuguaglianze esistenti, o l’occasione per vederne nascere di nuove? Il sovraccarico informativo al quale siamo stati sottoposti, con continue richieste di partecipazione, coinvolgimento ed engagement da parte di organizzazioni note o meno, ha realmente segnato – come sostengono alcuni – la fine dell’audience engagement? La corsa quantitativa alla conquista dell’attenzione del pubblico, vidimata da metriche e indicatori, ha ancora senso?

Quali sono i rischi concreti per la privacy e i dati sensibili? Per rispondere, è indispensabile che tutti i soggetti coinvolti nella governance culturale elaborino strumenti per la formazione di nuove competenze e l’adeguamento di quelle esistenti, attingendo non solo dalle discipline più ovvie come informatica, design o scienze della comunicazione ma anche (e forse soprattutto) dalla filosofia, dalla sociologia e dalla semiotica. Quelle digital humanities, insomma, delle quali si è molto parlato e poco praticato negli ultimi anni.

Non solo la cultura come impresa e sistema economico, ma anche la cultura come lettura individuale e collettiva del mondo.

Data la grande disomogeneità nel capitale culturale specifico di organizzazioni diverse, è importante favorire la costruzione e lo scambio orizzontale e verticale di competenze individuali e collettive attraverso pratiche collaborative. In un momento come questo è importante favorire la costituzione di centri di competenza (comitati di indirizzo, comitati etici, ma anche reti tra pari) su forme specifiche di passaggio al digitale, vincolandoli per quanto possibile alla produzione di materiali divulgativi, linee guida, toolkit, testi critici, workshop, seminari, camp che possano essere utili a chi si troverà ad affrontare questioni simili.

Perché poi guardare solo alla “digitalizzazione”, alla mera trasposizione di pratiche concepite per il mondo materiale e portate poi nel digitale? Internet è con noi da quasi trent’anni, un periodo lunghissimo. E nonostante i mondi della cultura tradizionale italiana abbiano fatto di tutto per saperne il meno possibile, qui come nel resto del mondo sono proliferate pratiche artistiche e curatoriali native dei mondi digitali. O, più precisamente, pratiche nate e cresciute negli ambigui spazi di mezzo tra il digitale e il materiale che tutti – con i nostri smartphone, GPS, account social, conti online – abitiamo da tempo e che il Coronavirus ha reso improvvisamente visibili.

Altre domande sono connesse alla straordinaria esperienza di isolamento spaziale – e in parte sociale – che stiamo vivendo. La nebbia del rischio, l’impossibilità di determinare con certezza cosa fa bene e male a noi e agli altri aprono una lunga serie di interrogativi sulla relazione tra pratiche culturali, spazi e corpi. Quali modi individuali e collettivi di abitare gli spazi stiamo perdendo? E quali opportunità di sperimentazione si aprono, invece? E’ chiaro che stiamo attraversando un momento di messa in discussione del rapporto tra spazi pubblici e privati, ma in quali direzioni? Chi può o deve prendersi la responsabilità di quello che avviene nei diversi contesti? Come cambieranno i luoghi della cultura che già conosciamo? Quali nuovi luoghi nasceranno?

Sicuramente non sappiamo abbastanza su come i luoghi si stanno riconfigurando. Indagini, ricerche e mappature su quello che avviene all’interno e all’esterno, negli spazi ufficiali e in quelli informali sono necessarie e non rimandabili. È indispensabile, inoltre, costruire delle piattaforme locali di matching tra le necessità di spazi per le pratiche culturali e i moltissimi luoghi abbandonati o con attività temporaneamente sospese. In quest’ottica, è fondamentale agevolare usi temporanei, agevolazioni, affitti calmierati, coworking non convenzionali che possano anche solo in piccola parte arginare lo stillicidio della chiusura delle attività culturali.

In questi mesi si ricorrono proposte che hanno a che fare con quella che possiamo chiamare, generalizzando, città di prossimità: una rapida riorganizzazione in chiave pandemica delle funzioni sociali della città che renda servizi di vari genere raggiungibili senza l’utilizzo dei mezzi pubblici e del traffico motorizzato provato, e senza creare assembramenti.

È fondamentale prendere di petto la questione della città di prossimità anche dal punto di vista culturale, considerando due aspetti opposti e complementari. Da un lato, è necessario pensare a come disseminare il più possibile pratiche culturali di prossimità in ogni territorio, nelle metropoli come nelle aree interne (cosa, questa, che dovrà dare un gradissimo peso alla costruzione e manutenzione di reti, alle forme di collaborazione e allo sviluppo di nuovi equilibri tra produzione e circuitazione). Dall’altro, sarà indispensabile progettare la produzione e la fruizione culturale in un’ottica di democrazia culturale spaziale radicale, che non assegni la cultura di serie B alle zone marginali ma che, al contrario, diffonda cultura di qualità proprio in quelle aree che sono più a rischio nella permutazione delle disuguaglianze.

Ed alle disuguaglianze bisogna guardare per comprendere verso quale mondo stiamo andando. Generici appelli alla solidarietà non bastano più, e la crisi economica e sociale che si sta sovrapponendo a quella sanitaria rischia di lasciare ferite che non sapranno più rimarginarsi. Quali sono i fattori consolidati di disuguaglianza nell’accesso alla cultura che incidono e incideranno in modo particolare? Quali invece quelli nuovi ed emergenti da questo contesto particolare? Cosa possono fare pratiche e processi di accesso, interazione, partecipazione e collaborazione per contrastare queste tendenze?  C’è bisogno di stabilire in modo chiaro la natura della cultura come bene comune, lavorando sulla consapevolezza della necessità dell’accesso e della democrazia culturale come diritti umani di base, non subordinabili – al pari della salute, dell’abitazione e dell’istruzione – a sole logiche di mercato.

Questo riguarda sia i fruitori di cultura che chi opera nel settore, storicamente uno di quelli nei quali il lavoro precario è più invisibilizzato tramite il ricorso a collaborazioni parasubordinate e a collaborazioni permanenti con committenti unici. Da questo punto di vista, è importante incentivare la scrittura, la sottoscrizione ed il rispetto di carte etiche sul trattamento dei lavoratori.  Ed è necessario chiedere alle istituzioni della cultura della formazione, pubbliche e private,  un’immediata responsabilizzazione verso i lavoratori precari.

Allo stesso modo, è necessario incentivare progetti e organizzazioni che abbiano specifiche politiche di integrazione di categorie svantaggiate (a partire da donne e giovani, ma senza limitarsi a queste) anche e soprattutto in ruoli di potere e di responsabilità, per contrastare la senescenza, il maschilismo e il paternalismo.

Sono solo alcune linee possibili di indagine, ma è questo circolo che dobbiamo provare a rendere virtuoso. Partire dalla cultura per costruire domande. Aprire prospettive inedite, fuori dai terreni battuti. Cercare collettivamente le risposte. E collettivamente costruire le soluzioni.