Apprezzo la visione libertaria di molti dei leader degli spazi di pagamento alternativi, convinti come sono che le nuove tecnologie di pagamento via Web possano liberare le persone dalla tirannide della moneta e dal controllo dello Stato. […]
Con tutto il rispetto per i promettenti progressi della sicurezza favoriti dalla tecnologia del registro pubblico e dai brillanti algoritmi incorporati in alcune delle nuove «valute», l’idea che il Bitcoin – o qualsiasi altra criptovaluta – rimpiazzerà il dollaro è terribilmente ingenua. Come gli innovatori della moneta hanno imparato nel corso dei millenni, è difficile stare sempre al passo con il governo, quando quest’ultimo può modi care le regole del gioco a piacimento e tutte le volte che vuole, finché non vince. […]
Una volta normalizzate sul piano della regolamentazione, le valute digitali teoricamente potrebbero ancora intercettare molti altri bersagli nell’ecosistema dei pagamenti.
Le tariffe altissime rendono le carte di credito, i servizi di trasferimento di denaro e molte altre tecnologie di pagamento elettronico oggi esistenti estremamente vulnerabili all’innovazione dirompente.
Già oggi le valute digitali permettono di effettuare pagamenti su scala internazionale a costi molto inferiori rispetto ai servizi di trasferimento di denaro, che comportano spese che possono raggiungono anche il 10-15 per cento dell’importo.
Alcune applicazioni della tecnologia a registro distribuito promettono di estromettere gli intermediari, per esempio nelle transazioni tra due banche, riducendo notevolmente i costi, soprattutto a livello internazionale. Lo stesso approccio può aiutare anche a ridurre i costi legali dei contratti.
Alcuni dei concorrenti di Bitcoin, come la più recente piattaforma Ethereum, puntano a offrire la possibilità di creare scambi sicuri per transazioni di qualsiasi tipo, o quasi.
Se ci si chiede se una criptovaluta come il Bitcoin possa diventare una moneta (supponendo che il governo lo permetta), la risposta è, senza dubbio, sì: il Bitcoin (o forse uno dei suoi concorrenti di oggi o di domani) è in grado di svolgere, con o senza l’avallo del governo, molte delle funzioni basilari del denaro, comprese quelle di unità di conto e di mezzo di scambio.
Anzi, rispetto alla cartamoneta tradizionale le valute digitali sono capaci, per molti versi, di supportare tipi di transazioni e di contratti molto più complessi, proprio grazie alle numerose informazioni che incorporano, tra cui la storia delle transazioni.
Già oggi stanno prendendo forma mercati volti a sfruttare questa capacità, per esempio nelle applicazioni costruite su Ethereum.
Tuttavia, il fatto che teoricamente la tecnologia a registro distribuito possa prima o poi dar vita a una valuta migliore non significa affatto che quel mondo esista già in concreto. Uno dei problemi è che il valore del Bitcoin 1.0 è soggetto a forti oscillazioni (Gra co 14.1), e non assolve quindi alla funzione di riserva stabile di valore: acquisirebbe più stabilità, almeno in linea di principio, se diventasse una moneta più diffusamente accettata.
Un’altra preoccupazione importante, in un regime monetario basato sul Bitcoin (o qualsiasi valuta digitale), è l’inflazione.
È vero che l’offerta di Bitcoin non può superare il tetto di 21 milioni di monete, che si prevede sarà raggiunto nel XXII secolo.
C’è chi teme che questo limite, se la crescita mondiale proseguirà ma l’offerta di Bitcoin rimarrà fissa, finirà per portare con sé una deflazione. In realtà, bisognerebbe preoccuparsi molto più dell’inflazione che della deflazione. Come mai? Il fatto che Bitcoin non abbia il monopolio della tecnologia sottostante consentirà la nascita di imitazioni, che anzi ci sono già.
Nel corso del tempo, il vantaggio competitivo che deriva a Bitcoin dall’essere stato il primo arrivato potrebbe dissolversi, specialmente se Bitcoin 2.0 o 3.0 dovesse introdurre un meccanismo più sofisticato (per esempio, un abbattimento dei costi di manutenzione o l’anonimato pressoché assoluto). In tal caso, il problema sarebbe l’inflazione, non la deflazione.
Lo Stato può davvero copiare le nuove tecnologie alfine di creare un meccanismo di compensazione più sofisticato per la propria moneta elettronica? David Andolfatto, vicepresidente e direttore della ricerca presso la Federal Reserve di St. Louis, ha osservato che le analogie tra l’attuale sistema monetario della Federal Reserve e Bitcoin sono in realtà molte di più di quanto di solito si riconosca: a cominciare dal fatto che entrambi sono fondamentalmente dei programmi informatici.
Andolfatto ha aggiunto che è possibile che, prima o poi, la Federal Reserve introduca nella propria contabilità lo stesso tipo di tecnologia di registro pubblico basata sulla blockchain.
Per il momento ci sono ancora troppe incertezze, ma in un arco di tempo sufficientemente ampio non è difficile immaginare che questo tipo di idea, o magari un approccio più avanzato alle valute digitali, consenta a una valuta digitale pubblica di affermarsi.
Se mai esisterà una valuta digitale a supervisione statale, chiamiamola «Bencoin», essa avrebbe potenzialmente un impatto drammatico sul sistema finanziario, incidendo in modo significativo sulla capacità delle banche private di effettuare la trasformazione della liquidità.
Gli individui di fatto sarebbero in grado di aprire conti ed eseguire transazioni senza più dipendere da un intermediario privato. Sarebbe, in un certo senso, come se le persone potessero ignorare le banche e aprire conti direttamente alla Federal Reserve.
Al limite, il Bencoin avrebbe, per l’attività di prestito delle banche, un effetto quantitativamente paragonabile a quello del «piano di Chicago», imponendo di fatto a tutti i surrogati privati del denaro di possedere una garanzia di titoli pubblici pari al 100 per cento del proprio valore.
Molto dipenderà però dalla regolamentazione, anche riguardo alle alternative che agli istituti finanziari privati sarà consentito offrire.
Pubblichiamo un estratto dal saggio di Kenneth S. Rogoff, La fine dei soldi (Il Saggiatore)