Contro i confini. Perché il controllo dei flussi migratori è razzista

I libri che servono sono quelli che danno fastidio.  Il saggio “Contro i Confini”, di Gracie Bradley e Luke de Noronha, è uno di questi. La loro proposta è semplice, quanto estrema: abolire le frontiere degli Stati, e tutto ciò che limita e stratifica il diritto alla mobilità degli individui sul pianeta.

In un mondo che erige muri, lascia morire in mare o in campi di concentramento persino donne e bambini solo perché migranti, una prospettiva del genere potrebbe risultare massimalista. E infatti lo è. Il target dei due autori è il “buon senso” che sembra ispirare parte delle politiche riformiste sull’immigrazione, quelle che l’uomo medio di centro sinistra si sentirebbe di approvare.

La base dell’abolizionismo di Bradley e de Noronha è che qualsiasi forma di controllo dei flussi migratori è razzista. A differenza di quanto accaduto nel passato, la discriminazione all’accesso in molti Paesi oggi non è, ufficialmente, giustificata da caratteristiche biologiche e culturali dei migranti, ma dalla loro nazionalità e dalla loro ricchezza. Tuttavia, spesso si tratta della stessa cosa: a migrare sono per la maggior parte persone che provengono dai paesi poveri, resi tali da secoli di colonizzazione. Il razzismo cambia forme espressive e target, ma al fondo resta un’ideologia che giustifica la classificazione di gruppi di individui con il fine di segregare, escludere e sottomettere.

Non sono solo i porti chiusi e le frontiere militarizzate a segnare politiche razziste. E’ anche, in sé, l’istituto della cittadinanza, che costituisce un confine immateriale dentro un territorio, ed è usata per escludere da diritti fondamentali, tra cui quello di lavorare, votare, essere curati e muoversi, milioni di persone.

Un altro argomento anti-riformista del libro riguarda i corridoi normativi che consentono solo a una porzione ridotta di migranti, spesso donne, di avere diritto di asilo o cittadinanza. Il riferimento è alle norme sui matrimoni misti, sui ricongiungimenti familiari, sull’assunzione a distanza di lavoratori domestici, sulle vittime di tratta. Queste politiche, secondo gli autori, sarebbero espressione di un liberalismo compassionevole, che includerebbe i migranti a condizione che siano deboli e vulnerabili. Una donna che sposa un nativo o si ricongiunge al proprio marito già insediato in un territorio ha diritto al permesso di soggiorno o alla cittadinanza (in base ai casi) solo in quanto moglie, e perde quel diritto qualora scelga di vivere in autonomia. Citando Ava Caradonna, gli autori mettono in risalto il paradosso delle sex workers clandestine: se vengono sorprese a lavorare, la loro migliore strategia per non essere incarcerate e rimpatriate è sostenere che non stavano lavorando, ma erano costrette.

Il lavoro sessuale non va criminalizzato, ma neanche altre attività sulla cui criminalizzazione un riformista non metterebbe mai bocca, e cioè il fare parte di una gang, spacciare, rubare, uccidere. Secondo gli autori, che all’abolizionismo dei confini aggiungono quello carcerario, chi viene condannato per questi crimini non può essere discriminato rispetto a un nativo: nessun aggravante, nessuna doppia pena come il rimpatrio.

Ancora, l’abolizionismo rifiuta l’argomento riformista per cui l’immigrazione va controllata ma in parte favorita perché genera esternalità economiche positive. Questo, essenzialmente, perché la tesi non tende a tutelare il diritto del migrante a muoversi, ma del capitale a sfruttarlo per i propri interessi. Su questo punto, Bradley e De Noronha non fanno sconti a nessuno. Da un lato, denunciano l’ipocrisia padronale che apre e chiude i “rubinetti” dei permessi di soggiorno per favorire l’ingresso di manodopera a basso costo, flessibile e subordinabile, e tramite essa, per disciplinare la forza lavoro “residente”. Da un altro, criticano il conservatorismo di alcuni sindacati, per esempio quelli inglesi o scandinavi, che pur denunciando questo abuso, pensano di correggerlo rendendo più restrittivo l’accesso ai territori. Il sindacato, secondo gli autori, dovrebbe invece universalizzare le sue tutele e battersi perché anche chi arriva abbia parità di trattamento sul posto di lavoro e sul piano del welfare.

I confini contro cui il libro si scaglia non sono solo quelli che si traducono i muri, fili spinati, centri di detenzione. Le frontiere sono sempre più flessibili, virtuali, esternalizzate. La sorveglianza dei migranti avviene sempre più tramite droni che studiano i loro movimenti anche in mare o nei deserti, e sono diversi i progetti di ricerca che puntano a sviluppare Intelligenze Artificiali in grado di scannerizzare la condizione del migrante, e decidere di volta in volta se sia davvero minorenne, se venga davvero da un paese in cui ha diritto di asilo, o se in generale “dica la verità” e possa essere accolto o respinto.

Ricco di esempi, sebbene per lo più riferiti al Regno Unito paese di residenza dei due autori, e scritto in maniera avvincente e accessibile, “Contro i confini” è una lettura utile e necessaria. Conclusa l’ultima pagina, si può restare in parte delusi per la pressoché totale assenza di proposte a breve o medio termine. Si tratta, in effetti, dell’ultima remora riformista di fronte a lavori del genere: e tu, allora che proponi? Il senso del libro non è quello di entrare nel merito dei processi politici e normativi che regolano il prisma delle norme sull’immigrazione, peraltro completamente diverse da paese a paese, ma è quello di definire una sensibilità e un modo di pensare. Questo libro ci ricorda che la capacità di aspirare si nutre di utopie, e senza di esse, diviene governamentale qualsiasi politica. L’immigrazione è un wicked problem, un rompicapo la cui soluzione è complessa e divaricata tra dilemmi, alternative, interessi contrapposti: serve una bussola per non dimenticare chi siamo e dove vogliamo arrivare. Del resto, Bradley e de Noronha, non sono certamente i primi a sostenere che la stella polare è l’abolizione delle frontiere e con essa dello Stato-nazione.

 

Immagine di copertina da Unsplash di Greg Bulla