Ci affacciamo all’orlo dell’ultima notte dell’anno, con l’attesa propria dei bambini e la fatica sulle spalle dei giorni trascorsi. Sarà diverso quest’anno che si appresta ad iniziare? E in che modo potrebbe essere differente? Sarà l’avvento di una nuova pandemia, come l’allarme dalla Cina fa presagire? O ancora, un peggioramento del conflitto russo-ucraino con un’estensione delle aree coinvolte? Al contrario, ci attende forse un anno di ricchezze impreviste, di lavori plurimi, travolti dai fondi a pioggia del Pnrr, che ripareranno le strade, le biblioteche, i laboratori, i tetti e forse anche la tenuta civica? O ancora un anno di piazze piene, di domanda di eguaglianza, di lotta per i diritti di tutte e di tutti? Oggi come un tempo, l’attesa si risolve guardando il cielo, non solo perché è lì che compariranno alla mezzanotte i fuochi d’artificio, botti rumorosi per scacciare gli spiriti maligni, il malocchio, la sfortuna, ma anche le ombre del 2022 che vogliamo relegare nell’anno passato. Il geografo Yi-Fu Tuan parla di veri e propri “landscapes of fear”: paesaggi di paura e di paure, costruiti sulla divisione tra casa e spazi sconosciuti, territori, spazi urbani e spazi rurali, spazi di salute e spazi di malattia, spazi dell’infanzia e dell’età adulta. La linea che li divide è un possibile orizzonte. Orizzonte deriva dal greco: horizon che limita, sottinteso kyklos cerchio. Il cerchio di confine.
Quel tratto invisibile che separa cielo e terra, vallate dalle creste, la linea dei campi dalla linea delle nuvole è il guardare alle possibilità finite, o immaginare soluzioni per superarle, per cambiare partendo da ciò che si è. E ci sono orizzonti doppi, che mai come quest’anno diventano significativi.
Ma il cerchio del confine può farsi stretto e angusto. Lo è stato nei mesi del lockdown, che forse ci hanno lasciato una prospettiva a breve gittata. Lo è ancora, perché le recessioni limitano e riducono gli spazi di agibilità. In questa fine dell’anno, mi vengono in mente due orizzonti speculari.
Il geografo Yi-Fu Tuan parla di veri e propri “landscapes of fear”: paesaggi di paura e di paure, costruiti sulla divisione tra casa e spazi sconosciuti, territori, spazi urbani e spazi rurali, spazi di salute e spazi di malattia, spazi dell’infanzia e dell’età adulta
La siepe guarda la via Calchi Taeggi, una di quelle strade che puoi incontrare solo a Milano Sud, o dove la città si estende verso Ovest; a differenza di Milano Nord e Milano Est, questo lato fatto di parchi e vie ad alta percorrenza dirada verso una campagna inattesa. D’inverno qui si può ritrovare la galaverna, così come la rugiada d’estate, che si sciolgono o evaporano man mano che ci si avvicina alla cerchia dei bastioni. Sono orizzonti lunghi e spesso incoerenti: ci sono capannoni, o capolinea della metropolitana, o stazioni del Flixbus. Ci sono campi, e poi magari un torrente – in questo caso, il Lambro- e poi alberi spogli, parcheggi, magazzini e poi quel diradare della metropoli, ossia una via in cui la città in qualche modo finisce. Eppure, proprio su quel crinale, inizia un nuova progettualità: è sul quel terreno che si stanno piantando oltre 6400 alberi del progetto “sei Milano”. Un progetto che richiama il nome del municipio (6) ma che nei modi echiani, procede alla nominazione per ottenere le trasformazioni conseguenti.
Quelle distese sono Milano ma poco somigliano alla città che sale, e necessitano di essere evocate per la loro appartenenza amministrativa e simbolica. é lì, oltre quella siepe (in questo caso il muro del campo da calcio, che si usa solo nelle grandi occasioni) che da tanta parte ha escluso gli orizzonti, che sono spuntati sette ragazzi il giorno di Natale. Una partita di pallone, una giornata speciale, una fuga dall’Istituto penale minorile oltre quel muro, per piombare in quella rotonda vista gelsi. Quando si osservano gli spazi di detenzione, una delle European Prison Rules prevede che tali spazi dei “passeggi” debbano mostrare all’occhio almeno un elemento naturale, per non de-umanizzare il paesaggio e rendere ancora più dolorosa la reclusione. Ma forse, anche per offrire un orizzonte che si può interiorizzare e non la prospettiva tagliata del cielo attraverso le grate o le mura di cinta.
A qualsiasi latitudine, quando si guarda il mondo esterno da dentro, dal carcere, colpisce l’assenza dell’orizzonte. Chiuso da paratie, ristretto da corridoi bui, limitato da finestre che diventano portaoggetti: stare in carcere significa, tra le altre cose inattese, non avere più un orizzonte lungo a cui guardare. Si è nell’orizzonte dell’esclusione. La pena abita il margine. Se penso ai cortili e agli spazi del Beccaria, da quel campo da calcio, si vede ben poco. Qualche angolo si scorge dal fondo, dal campo da Rugby, o ancora dal piano di sopra, dove si trovano le camere spoglie. Il giorno di Natale da quel muro sono fuggiti sette ragazzi, ora rientrati. Sono saltati dalla parete ripida, distraendo l’agente a cui era stato chiesto un pallone, e saltando a piè pari, nella nuova città. “Sei Milano”.
La libertà come regalo per un Natale indimenticabile, la protesta, e ancora il gesto di rottura, o forse un maldestro tentativo di chiedere attenzioni, di essere parte di quella città e non una sottrazione. Per una strana economia dei flussi, a questa fuga fallita segue un ritorno non voluto negli spazi detentivi. La fine di un orizzonte di libertà. Stanotte (31 dicembre) scadranno le licenze straordinarie concesse alle persone in semilibertà che ne hanno goduto ininterrottamente da maggio del 2020 senza incorrere in infrazioni né penali né disciplinari. Una misura pensata in piena emergenza Covid, che sarebbe potuta essere uno slancio di fiducia su traiettorie di reinserimento riuscite. Salvo chi abbia ottenuto un permesso ordinario per l’ultimo dell’anno, circa settecento persone la notte di San Silvestro, dovranno far rientro in carcere, vanificando le reti e le relazioni ricostruite duramente in questi due anni di semilibertà, e contraddicendo i principi di non regressione e progressività nel trattamento penitenziario, cardini della funzione rieducativa della pena.
A qualsiasi latitudine, quando si guarda il mondo esterno da dentro, dal carcere, colpisce l’assenza dell’orizzonte
Se la fuga dei ragazzi il giorno di Natale offre uno spaccato sulla pena minore, e su come pensiamo, come Stato, di infliggere la sofferenza a minorenni e a quale prezzo, il rientro dalla semilibertà racconta come l’occasione di traiettorie di successo sul re-entry in società possano essere interrotte per sciatteria istituzionale, opportunismo politico o perché il punire risponde a urgenze diverse da quelle dichiarate.
Queste due traiettorie simmetriche e opposte ci offrono solo un piccolo spaccato di un mondo come quello del penitenziario in questa fine dell’anno, ma ci restituiscono molto della logica che lo governa. Perché guardare quell’orizzonte ri-stretto? Perché mai come quest’anno il carcere ha sofferto. 84 persone si sono tolte la vita in un anno in custodia dello Stato. 203 sono morte per malattia o cause naturali in quelle celle. 100 in più dell’anno passato, che aveva visto 149 morti naturali e 58 suicidi (fonte: Ristretti orizzonti). Molti più di quelli avvenuti durante l’anno della pandemia. Ogni suicidio fa storia a sé, è un insieme di sofferenze individuali e gestione collettiva. Ma quando il balzo si fa così significativo, non si può non interrogarsi sulla sofferenza strutturale e istituzionale che la pena, oggi, produce.
Come se il legame stretto tra sofferenza e potere si fosse sbilanciato a favore di quest’ultimo. E il carcere permette di vederlo con più chiarezza, ma non è detto che quel dolore strutturale abiti solo quelle mura. Guardare ai cortili dei passeggi, ai corridoi spogli, alle celle con i muri sbrecciati ci racconta la fatica dell’esigibilità dei diritti, e sulla cura per i diritti che diventa ancora più urgente là dove i cieli si fanno più stretti, e le possibilità di futuro meno prevedibili. Perché quella fatica non riguarda solo quei sette ragazzi in fuga, o i 700 che rientreranno stanotte.
La fuga dei ragazzi il giorno di Natale offre uno spaccato sulla pena minore, e su come pensiamo, come Stato, di infliggere la sofferenza a minorenni e a quale prezzo
Quella fatica, così visibile se vista dal penitenziario è una parte dei nostri orizzonti, e definisce la linea tra potere e diritti. Del diritto ad un lavoro dignitoso. Ad uno stipendio equo. Un diritto alla malattia, ai congedi, alla cittadinanza, alla pace, alla possibilità di cura da parte dello Stato, ad un bene comune e collettivo. Un diritto all’ambiente e al futuro sostenibile. Un diritto al movimento e alla possibilità di spostarsi. Un diritto, una serie di diritti che richiede uno sforzo civico e una cura delle istituzioni. Quando stanotte guarderemo quegli orizzonti illuminati, e quando col rumore proveremo a scacciare gli spiriti e le ombre di questo 2022, auguriamoci di allargare il cerchio del confine, e che in quell’orizzonte che si apre tra fine e inizio, il 2023 possa essere uno spazio senza paure, di tutte e di tutti.
Immagine da Unsplash di Altınay Dinç