Trent’anni di Lettera22

Avevamo due strade per i 30 anni della nostra associazione, Lettera22: festeggiare l’anniversario con rito autocelebrativo, o rilanciare con una novità. Abbiamo scelto quest’ultima strada. Con un azzardo editoriale che è anche una scommessa sul futuro: dare vita a una nuova rivista cartacea che, da quando Angelo Mastrandrea ci ha presentato la prima bozza di idea, ci ritroviamo a chiamare mook. A metà tra un magazine e un book, sarà una rivista di giornalismo narrativo e illustrato. Una rivista di lunghi reportage, scritti e disegnati. Come non se ne trovano altrove, almeno in Italia e per come stiamo amalgamando il numero zero: sappiamo bene cosa ci va dentro, ma per realizzarlo abbiamo lanciato un crowdfunding su Produzioni dal basso.

Il titolo della rivista rimanda, oltre che alla celebre macchina da scrivere della Olivetti, alla “casa-madre”, Lettera22, un’associazione che ha attraversato 30 anni di storia del giornalismo italiano. È stata fondata nel 1993. Mille novecento novanta tre! Tra voi lettori e lettrici di cheFare, qualcuno/a non era ancora nato/a. Un’altra stagione politica e sociale. Nell’editoria, un’altra èra. Se oggi il sistema giornalistico vive grazie ai freelance, ai giornalisti indipendenti capaci di soddisfare la bulimia dell’informazione, di colmare le lacune delle grandi testate, di mettere i piedi dove gli inviati non vengono più mandati per mancanza di soldi e curiosità, in quel periodo ce ne erano molti di meno. O si stava dentro le redazioni, o non si faceva giornalismo. Tranne rare eccezioni. Lettera22 è un’eccezione voluta, costruita pezzo dopo pezzo. Grazie ai pards che ne hanno avuto l’idea.

Qualche anno fa, così ne riepilogava la nascita ustad Emanuele Giordana, tra i fondatori, amico fraterno e collega che ha sempre preferito le strade polverose, specie se asiatiche, alla certezza costrittiva di un posto fisso. Sentiamolo: nel 1993 «un gruppetto di ex redattori dell’Avanti! – storica testata socialista – espulsi prematuramente dal mercato del lavoro editoriale che si avviava a diventare sempre più asfittico, ebbero un’idea. Che allora sembrò balzana. Anziché tentar la sorte in altri giornaloni, pensarono di metter su una sorta di cooperativa di nicchia che vendesse materiali ai giornali. Quella, gli anni Novanta, era l’epoca della nascita dei ‘service’, agenzie specializzate che fornivano materiale grezzo alle redazioni. Foto e testi venduti un tanto al chilo con la propria firma che non aveva diritto di apparire. Noi, che eravam tutti social-libertari, scegliemmo un’altra via. Agenzia sì, ma purché si acquistasse l’articolo firmato e a un prezzo che comprendesse anche la nostra dignità. Fondammo un’associazione – con la forma più semplificata di fiscalità – dedicata alla politica estera, un settore che, forse oggi un po’ meno di allora, era una nicchia assoluta. ‘Siete folli’, disse qualcuno. Ma vincemmo la scommessa».

Il rapporto con i “giornaloni” è ancora conflittuale, tutt’altro che pacificato. Forse oggi più di ieri. Più evidenti, oggi, le lacune del giornalismo dei grandi – e declinanti – numeri, più accentuati i processi di concentrazione proprietaria, più smaccato il servilismo, la prevedibilità e uniformità dello sguardo sull’Italia e sul mondo, la distanza tra realtà e rappresentazione. E più esigenti lettori e lettrici, che chiedono, poco ascoltati, un giornalismo rigoroso e generoso, di scavo profondo e lento ruminare, che sappia ascoltare prima di parlare, interrogare prima di giudicare, per poi «raccordare il frastagliato», per dirla con il compianto Alessandro Leogrande.

Da qui nasce l’idea della rivista Lettera22: lunghi reportage scritti e disegnati, che ci aiutino a interrogare il mondo, entrando di volta in volta, a passi lenti e finendo catapultati, dentro una storia vera, piccola, ma esemplare. Giornalismo lento, altro dall’informazione usa e getta formato tweet. «Il meglio del giornalismo e della letteratura con il meglio del fumetto e delle arti grafico-illustrative». Questa l’aspirazione, sulla lunga distanza. La nostra proposta editoriale è nuova, perlomeno in Italia, ma siamo espressione di una tendenza più ampia. Proprio alla combinazione tra asfissia dell’industria e richiesta d’aria dei lettori va ricondotta la nascita di nuove cooperative di giornalisti, associazioni, collettivi, imprese. Anche qui in Italia, come testimoniano tra le altre le esperienze del Centro di giornalismo permanente, di Fada, Irpi, Valigia Blu, alcune delle quali raccontate in questo articolo.

Nessuno tra i soci fondatori lo direbbe mai ad alta voce, ma bisognerà pur dirlo: è la vecchia guardia di Lettera22 ad aver aperto la strada, di sicuro nell’ambito del “fare esteri” e del fare impresa indipendente. «Lettera22 è nata come una reazione all’espulsione di alcuni di noi dal giornalismo dipendente, è vero, ma sempre di più è diventata un’impresa, un’impresa artigianale e indipendente», spiega Paola Caridi, fondatrice, molti anni trascorsi tra il Cairo e Gerusalemme, sguardo puntato sugli “arabi invisibili” e sull’incrocio tra storia e attualità, oggi presidentessa dell’associazione.

Se in alcuni periodi ha funzionato meglio di altri, è anche per ragioni storiche. Di nuovo Emanuele Giordana: «Ci furono un paio di avvenimenti che cambiarono la storia del mondo e ci dissero bene. L’11 settembre trovò le redazioni scoperte sul lato Islam e in genere sulla politica estera. I giornali, le radio, le tv scoprirono che bisognava pur dir qualcosa e fu allora che buttammo la nostra anima sul piatto. Il segreto di quel piccolo successo stava nel fatto che avevamo coniugato il giornalismo, ossia l’inevitabile superficialità della cronaca quotidiana, all’approfondimento necessario a comprenderla. Eravamo insomma studenti che non avevano mai smesso di studiare. Ognuno con la sua piccola nicchia nella nicchia: Lucia (Sgueglia) parlava russo. Paola (Caridi) il tedesco. Mauro Martini – il grande Mauro – le lingue slave. Io mi arrangiavo con malese e spagnolo. Attilio (Scarpellini) con un ottimo francese, Sergio (Trippodo) con l’hindi e così via. Avevamo una piccola marcia in più».

Quella stagione – la stagione dei conti in regola, della redazione in via dei Banchi Vecchi a Roma, del caffè al bar Perù di via Giulia, dei libri e delle chiacchierate alla libreria Odradek – si è poi chiusa (e d’altronde ha chiuso anche la libreria). Con gli anni Dieci del Duemila, con la contrazione dei compensi, con la transizione dal cartaceo al digitale, con l’introflessione dell’Italia, Lettera22 ha perso terreno, la redazione ha perduto centralità. I percorsi professionali si sono fatti individuali. Molti sono stati inghiottiti per anni da società e culture dall’Afghanistan alla Palestina, da Hong Kong al Sudan, dal Bangladesh alla Cecenia, dal Myanmar alla Cina, dalla Serbia all’Italia, che è rimasto nodo di transito e ancoraggio di un rapporto che non è solo professionale. Perché deve molto alle relazioni, prima che alle funzioni e ai ruoli.

Emanuele Giordana, di nuovo: «Avevamo – abbiamo – una struttura gerarchica orizzontale. Chi fa il direttore (oggi è il turno di Giuliano Battiston) più che gli onori si becca gli oneri. Il denaro era ripartito sulla base del lavoro che uno aveva svolto, mai sull’anzianità o sulla gerarchia. I ‘giovani’ che mano a mano entravano nel gruppo avevano gli stessi diritti delle vecchie carampane del gruppo storico dei fondatori. Ciò ha rinsaldato un rapporto non solo professionale dove nessuno, mai, avrebbe potuto dettare la linea. A parte consigliare di usare quella ferroviaria».

Il riferimento è a una frase di Albert Londres, divenuta il motto di Lettera22: «L’unica linea che un giornalista è tenuto a seguire è quella ferroviaria». Lungo la linea di Londres, ci siamo ritrovati. Dopo molti viaggi, da alcuni anni siamo infatti tornati a ragionare collettivamente. Intorno a iniziative comuni, corsi, scuole brevi, contenuti editoriali, libri, iniziative pubbliche come il MIP, il Mondo in periferia, il primo festival di giornalismo di esteri e di comunità, organizzato insieme all’associazione gli Asini a Roma, con il collega Giacomo Zandonini.

E ormai da due anni intorno all’idea della rivista Lettera22. Discussa a lungo, meditata, lasciata sedimentare, accantonata. Poi precisata anche negli aspetti economici, grazie in particolare a Tiziana Guerrisi e ad amici generosi di tempo e consigli, e ripresa con crescente entusiasmo e dedizione circa 6 mesi fa. Quando abbiamo deciso di lanciare il crowdfunding, partito infine a inizio aprile. Perché «una rivista la si fa facendola», insiste da tempo Miguel Angel Valdivia, disegnatore di talento e direttore artistico della rivista, compagno di avventura e alleato cruciale in questa scommessa, insieme a Giulia Garbin, che ha impostato il lavoro grafico, e a R.C. che lo sta completando.

Era tempo di azzardare. Lo spiega Paola Caridi: «occorre mettersi in gioco, fare ‘impresa’. Siamo in un momento in cui o difendi quel tipo di giornalismo che ancora continua ad andare a vedere, che riflette e restituisce la complessità, oppure la battaglia è persa. È ancora possibile fare giornalismo alla Leogrande, alla Kapuściński, che guarda caso sono anche degli esempi per i più giovani». Vecchi e giovani, anche dentro Lettera22, «accomunati da due grande passioni che fanno la vocazione giornalistica», nota Attilio Scarpellini, anche lui tra i fondatori, protagonista di molte stagioni letterine, ora una sorta di deus absconditus che proviamo a stanare quando c’è da capire che rotta prendere. Le due grandi passioni sono «quella per gli altri e per quella per la scrittura. Venendo da un giornale, questa nostalgia per la carta stampata, per l’impresa collettiva, ce la siamo sempre portata appresso. Oggi è riaffiorata, grazie a chi ancora non c’era in quel periodo. Potrebbe sembrare il momento più sbagliato per fondare una rivista, e invece siamo convinti che si rivelerà il più giusto».

La fondazione di una rivista vera e propria è ancora incerta, riguarda i tempi medi: dipende dall’esito del crowdfunding, dalla comunità di lettori che sapremo creare e rintracciare, da nuove potenziali alleanze. Ma sui tempi brevi sappiamo di sicuro che a giugno sfoglieremo un numero zero di 100 pagine, stampato su carta di qualità, in formato 22 x 27. E potranno sfogliarlo quanti decideranno di sostenerci. Come artigiani, lo stiamo modellando, giorno dopo giorno. La copertina la potete vedere qui sotto. Le immagini sono del disegnatore sudafricano Anton Kannemeyer aka Joe Dog, il fondatore del magazine Bitterkomix.

Nella rivista troverete sei lunghi reportage corredati da un “secondo tempo” e dai consigli LVAM, letto-visto-ascoltato-mangiato. I reportage sono del sottoscritto, di Gabriele Carchella con Paolo Affatato, di Paola Caridi, di Emanuele Giordana, di Angelo Mastrandrea e di Giulia Oglialoro, la cui proposta è arrivata dopo una call molto partecipata, la prima – ci auguriamo – di molte altre future. Ogni testo dialogherà con le illustrazioni originali di Andrea Bruno, Simonetta Capecchi, Mario Damiano, Adriana Marineo, Giacomo Nanni, Miguel Vila. Ma ci sarà anche una graphic novel inedita del fumettista serbo Alexandar Zograf, 10 pagine che prendono lo spunto da un opuscolo pubblicato nel 1947; una storia a fumetti breve di Crimina Lize e 14 rubriche letterine contrassegnate dai simboli realizzati dall’artista spagnolo Sam3.

La lettura sarà un vero e proprio viaggio: ci muoveremo tra l’Afghanistan dei Talebani e un paesino della Campania dove è avvenuto un delitto misterioso in epoca fascista, tra l’orto botanico di Palermo con le sue memorie coloniali e le ferrovie che attraversano le risaie del Laos fino ad arrivare in Cina, tra i sentieri di campagna intorno a Norcia e i villaggi della Serbia, e dentro la Kleines Haus di Brema, alla scoperta di una performance artistica che è anche un atto di rivendicazione politica.

È politica anche la scelta del crowdfunding. Come notiamo sul testo sulla piattaforma, lo abbiamo scelto «perché non vogliamo sponsor privati, non in questa fase. Dal 1993 siamo sempre stati indipendenti. Crediamo nel patto fiduciario tra chi scrive e chi legge, e siamo abituati a sentirci parte di una comunità aperta, critica e solidale».