Ripartire dai Legami Invisibili: Resilienze Festival alla quarta edizione
Chi si occupa di cambiamenti climatici e di sostenibilità parla da anni di tipping point, termine che sta ad indicare il sottile confine da una preesistente condizione di equilibrio ad una grande discontinuità di scala. Si tratta del punto di oscillazione di un sistema da un regime di equilibrio a un altro, il momento in cui non è più possibile impedire a dei cambiamenti quantitativi accumulati di provocare un cambiamento qualitativo. A causa della complessità delle interazioni tra i vari componenti del sistema climatico è difficile prevedere con esattezza a che distanza siamo da un tipping point catastrofico, ma tanti sono gli indizi di un pericoloso avvicinamento.
cheFare è media partner di Resilienze Festival
Questo straordinario 2020, con una pandemia mondiale, un isolamento sociale e uno stop quasi totale del mercato, può essere inteso come uno di questi punti di discontinuità: non si può più tornare indietro e il nuovo equilibrio è tutto da creare. O almeno così è come lo abbiamo voluto guardare noi, dall’osservatorio di Resilienze Festival, l’iniziativa che da 4 anni a Bologna usa il linguaggio dell’arte per parlare di grandi trasformazioni planetarie mostrando le interazioni, i legami e le connessioni tra ambiente, società, economia e cultura. Lavoriamo con artisti e creativi per trasformare temporaneamente lo spazio de Le Serre dei Giardini, con l’obiettivo di appassionare e attivare i cittadini sui temi ambientali, e di contribuire a generare un immaginario positivo legato al futuro. Un immaginario che spinga all’azione e che punti sul desiderio invece che sulla paura, come fanno molte iniziative ambientaliste o radicali che al contrario propongono futuri distopici (verosimili eh se continuiamo con lo scenario business as usual, non vuole quindi essere un giudizio di merito il mio, ma solo un diverso approccio al problema).
All’inizio del 2020, quando la pandemia ci ha travolti, a Kilowatt eravamo già molto avanti nella produzione del Festival – artisti coinvolti, sponsor ingaggiati, relatori invitati – ma quello che stava succedendo non poteva non influenzare il nostro lavoro, diventando così il centro della riflessione di questa edizione. Ne abbiamo sentito l’esigenza per 3 motivi, fortemente connessi tra di loro.
Il primo è stato un senso di urgenza: l’isolamento, infatti, ci ha trovati uniti in una voglia di cambiamento radicale del sistema che ha contribuito a generare la pandemia e in una marea di buoni propositi (ne hanno scritto tutti, noi nel nostro piccolo l’abbiamo mappato e raccontato con un esperimento di etnografia domestica che potete approfondire qui), ma il rischio che la ripartenza porti ad un rimbalzo delle attività inquinanti tale da colmare la flessione generata dal lockdown è reale, e le crisi precedenti ne sono un esempio. Se guardiamo al periodo che ha seguito la recessione 2008-2009 infatti, le emissioni di gas serra hanno subito un’impennata record del 6% in un solo anno, a causa degli investimenti fatti per stimolare la ripresa del mercato, che, non essendoci strategie o visioni alternative, sono finiti nei settori tradizionali ancora estremamente carbon-intensive. Con questa consapevolezza abbiamo voluto dare il nostro contributo, seppur piccolo, attraverso il Festival, per scongiurare questo scenario.
Ne parleremo con Fabrizio Barca ed Elly Schlein nel panel di apertura del Festival, giovedì 10 settembre e torneremo ad affrontarlo insieme ad Adam Arvidsson e Tiziano Bonini domenica nella presentazione di Changemaker? Il futuro industrioso dell’economia digitale. Se cambiare il mondo è diventata la parola d’ordine di una nuova generazione, saranno loro a traghettarci verso un nuovo modello di sviluppo, meno estrattivo e iniquo?
Il secondo motivo ha a che fare con una consapevolezza: da anni riflettiamo, scriviamo e discutiamo della necessità di abitare la complessità, come unica soluzione per trovare risposte adatte alle grandi crisi della modernità, prima tra tutte quella climatica. Per combattere il riduzionismo che domina la lettura dei fenomeni, le nostre azioni, le politiche e la formazione, abbiamo bisogno di un pensiero sistemico e laterale, e l’arte ci tende una mano. Come dice Piero Dominici “l’Arte […] è anche il linguaggio, il codice più complesso e articolato in grado di rappresentare le connessioni della complessità, rendendole evidenti, percepibili e tangibili”. Da tempo, infatti, non sappiamo più osservare l’insieme e il sistema di relazioni che lo caratterizzano, e non sappiamo coglierne i nessi di causalità. Dividiamo la complessità in compartimenti stagni, settorializziamo, proceduralizziamo, creiamo percorsi standard per governare un sistema che non conosciamo veramente. Resilienze Festival nasce per suggerire questo cambiamento di prospettiva, che la pandemia rende ancor più urgente. La Biennale di Venezia del 2019 aveva sollevato questo dibattito scegliendo il titolo, quasi profetico, “May you live in interesting times” ed il 2020 ha effettivamente continuato il trend di singolarità a cui ci stiamo abituando. Continueremo queste riflessioni guidati da Marco Mancuso che dialogherà con gli artisti del festival nel panel Vedere e immaginare: Ambiente e cambiamento nello sguardo dell’arte venerdì 11 settembre.
Una riflessione critica sul concetto di modernità in relazione al nostro stare al mondo
Il terzo motivo è una richiesta di umiltà. La diffusione di Covid19 ha infatti mostrato al mondo intero quanto la nostra società sia vulnerabile. Sì perché, nonostante abbiamo voluto chiamare questa epoca antropocene, quelli che rischiano di estinguersi siamo noi, mentre la natura, e l’abbiamo visto durante il lockdown, continuerà a sopravvivere sulla Terra anche dopo di noi. Questa quarta edizione vuole essere quindi un invito a ritrovare il nostro posto e a ridefinire di conseguenza le nostre attività e le nostre vite, considerando i legami e le relazioni che tengono in equilibrio il sistema – appunto! – terrestre.
Una riflessione critica sul concetto di modernità in relazione al nostro stare al mondo sarà al centro dell’incontro coordinato da Franco Farinelli per la presentazione del libro di Latour La sfida di Gaia. Occorre sovvertire le gerarchie, sfuggire dalle tradizionali categorie e ripensare complessivamente gli strumenti di lettura del mondo (qui alcune riflessioni ulteriori che stiamo facendo su questo fronte), partendo da una ricomposizione tra sapere umanistico e cultura tecnico-scientifica. L’arte ce ne offre l’opportunità.
Queste 3 spinte motivazionali hanno trasformato la quarta edizione del Festival che esplorerà quest’anno i Legami Invisibili e che abbiamo deciso di dilatare e dividere in tre atti – semina, cura del terreno, raccolta – coprendo il periodo da settembre 2020 a maggio 2021. Ci affidiamo quindi alla figura del contadino, perché nei momenti di crisi sentiamo la necessità di seminare, guardare lontano e avere pazienza per avviare un nuovo ciclo vitale.
Per conoscere il resto del programma della quarta edizione di Resilienze Festival e gli artisti coinvolti: https://www.resilienzefestival.it/