Lo spettatore è un visionario: riflessioni sul suo ruolo rispetto all’opera d’arte

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    Che cosa deve fare il pubblico? Qual è il ruolo dello spettatore rispetto all’opera d’arte? La domanda può sembrare oziosa, puramente teorica, ma lo è solo in parte. La concezione classica attribuisce al fruitore dell’opera – libro, mostra, spettacolo, film – un ruolo passivo rispetto a quello attivo del creatore: un ruolo di mera stazione ricevente.

    Il pubblico legge/guarda/ascolta, e gode dell’arte, o non ne gode, a seconda delle conoscenze oggettive e delle preferenze soggettive: può anche sollevare dubbi e critiche, ma nel suo foro interiore, e comunque ex post, dopo la fruizione. Il suo spazio d’azione, la sua libertà d’iniziativa, è esplicabile tutt’al più nel futuro, quando può scegliere di andare a vedere o non andare a vedere un altro spettacolo dello stesso autore.

    Eppure, anche accettando la posizione dello spettatore come semplice punto di arrivo, non si può negare che il pubblico sia una componente essenziale nell’opera d’arte, un elemento costitutivo, come direbbero i giuristi. Ci si chiede infatti che senso abbia un libro i cui caratteri non vengono decodificati da nessuno che li assembla in parole e frasi di senso compiuto; che senso abbia una pièce che viene recitata in un teatro vuoto. Ci si potrebbe chiedere, estremizzando ma non troppo, se l’opera in questione esista, proprio come ci si chiede se esiste il rumore prodotto da un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno.

    La concezione classica è stata quindi messa in crisi in epoca moderna, sotto la spinta di motivazioni sia teoriche sia politiche, per così dire, nel senso di essere sorte in opposizione a uno status subordinato e inferiore del pubblico. Saggi come Opera aperta di Umberto Eco (1962) e La morte dell’autore di Roland Barthes (1968) suggerirono che gli aspetti volutamente incompleti o necessariamente indeterminati di un’opera stimolano la necessaria interpretazione attiva del fruitore, che assurge al rango di co-creatore. Per Barthes la morte dell’autore è propedeutica alla nascita del lettore, “luogo in cui si produce l’unità del testo”.

    Oggi la carica eversiva di queste teorie è da un lato stemperata, dall’altro assimilata: non abbiamo nessun problema ad accogliere letture di opere che vanno al di là delle intenzioni dell’autore, per esempio.

    D’altra parte, quella che fin qui abbiamo chiamato concezione classica, è essa stessa un prodotto storico e recente, se si allarga la visuale: è il risultato della specializzazione, e della separazione netta tra autore/performer da un lato, e spettatore dall’altro. Ma per centinaia di migliaia di anni, le cose sono andate in tutt’altro modo. L’ipotesi considerata più probabile dagli studiosi (si vedano per esempio i bellissimi Il canto degli antenati di Steven Mithen e Fatti di musica di Daniel Levitin, entrambi tradotti da Codice) è che le performance di musica/danza/teatro siano nate all’interno di feste e celebrazioni rituali, nella quali tutte le persone partecipavano con un ruolo attivo.

    Quindi ricapitolando, abbiamo due poli: da un lato un villaggio in cui tutti ballano attorno al fuoco, dall’altro un palcoscenico che assomiglia a un piedistallo dall’alto del quale i divi dispensano piacere e sapienza. Possibile che non ci sia nulla in mezzo?

    Che una via di mezzo esista, e che sia necessario percorrerla, lo credono con forza Lucia Franchi e Luca Ricci, fondatori della compagnia teatrale CapoTrave e del Festival Kilowatt, dal 2003 a Sansepolcro. Ma soprattutto inventori di un metodo, quello dei Visionari, che è diventato un vero e proprio case history, come si dice, nonché un modello esportabile (ed esportato). Lo spiegano, intrecciando riflessione e racconto, teoria e prassi, nel libro Lo spettatore è un visionario (Editoria & Spettacolo).

    Il punto di partenza è il cosiddetto audience development, formula magica degli ultimi anni. Detta semplice: la gente non va più a teatro (ma vale anche “non legge più libri”, e tra poco “non va più al cinema”): perché? Bisogna trovare il modo di coinvolgerla, di creare, o ricreare, un pubblico che non c’è più: come si fa? La risposta classica propone una spiegazione elitaria e una soluzione top-down: la gente, laggente, è ignorante, bisogna educarla, infondere un po’ di cultura in quelle zucche vuote. Semplice, no? Ma, guarda un po’, non funziona.

    Il festival Kilowatt ha provato, dal 2007, a rovesciare i termini, coinvolgendo nella programmazione un gruppo di non addetti ai lavori, che si chiamano Visionari: un felice calembour tra la pratica di visionare e la visionarietà dell’idea. Ecco come funziona:

    “Il bando annuale dedicato agli artisti prevede l’invio di opere di teatro, danza e circo, realizzate nel corso degli ultimi dodici mesi. ogni spettacolo candidato viene caricato su una piattaforma online nel sito www.ilsonar.it. Esso è presentato tramite cinque elementi: un video integrale dello spettacolo realizzato, una scheda artistica che descrive obiettivi, senso e contesto culturale dell’opera, una breve presentazione della compagnia, una scheda tecnica e una richiesta economica, qualora venisse selezionato.

    Divisi in gruppi di tre o quattro persone, i Visionari esaminano tutti i materiali di ciascuna delle opere giunte alla selezione. Lo studio dell’intera documentazione, e special- mente la visione dei video, avviene sia privatamente, sia collettivamente, a seconda degli accordi interni tra i partecipanti.

    In un paio di mesi, ogni gruppo visiona circa trenta video e giunge alla riunione plenaria con tre o quattro lavori selezionati, quelli valutati come i migliori all’interno dell’intervallo assegnato. In una serie di incontri collettivi, vengono motivate le ragioni delle preferenze espresse, e gli spettacoli scelti vanno a comporre una rosa di finalisti”.

    Nel corso degli anni si è creato così un gruppo, sempre più ampio anche se soggetto a ricambi, di persone che da un lato sviluppano una competenza sempre maggiore e quindi arricchiscono sé stesse, ma dall’altro forniscono un apporto originale e inedito, un punto di vista differente rispetto a quello del critico o del manager teatrale, che arricchisce la programmazione e il mondo del teatro stesso.

    Da Sansepolcro il metodo, a partire dal 2016, è stato esportato da Como a Messina, creando una rete denominata “L’Italia dei Visionari”. Franchi e Ricci si sono poi messi a cercare esperienze e modelli analoghi in Europa e nel mondo, creando un progetto europeo che ha coinvolto compagnie e festival da Dublino a Praga, “Be SpectACTive!”.

    Nel libro, Franchi e Ricci dichiarano le ascendenze e le ispirazioni, dall’Arte come esperienza di John Dewey (1934) all’allestimento di Aspettando Godot di Samuel Beckett nel carcere californiano di San Quentin, realizzato dagli stessi detenuti; dai percorsi che a un certo punto sono usciti dai soliti binari di venerati maestri come Eugenio Barba e Peter Brook, ai suddetti cambi di paradigma di Eco e Barthes. “Si lavora per creare quella che il filosofo francese, di origine algerina, Jacques Rancière chiama «emancipazione intellettuale» (il suo Le spectateur émancipé è del 2008; traduzione italiana, 2018). Per lui, questa emancipazione è una possibilità data a tutti, perché ognuno possiede «la capacità di critica»”. Il discorso culturale si fa politico, com’è ovvio.

    Che cosa sono dunque i visionari? Sono laggente che abbatte la torre d’avorio degli intellettuali, e la dichiara finita con tutto sto culturame? O viceversa sono (ex) quivis de populo che finalmente si so’ fatti una cultura, e ora sono esperti tra gli esperti?

    Entrambe le proposizioni sono false, ma soprattutto sono inutili: populista la prima, elitaria la seconda – che presuppone un procedimento basato sulla cooptazione. La via è quella di mezzo, ma è un sentiero stretto e scivoloso: gli stessi Franchi e Ricci raccontano di vari episodi – qui l’aneddotica si fa teoria – in cui per diversi motivi si sono verificati eccessi verso la professionalizzazione, e non è mai stato un movimento proficuo. “Noi preferiamo parlare di audience engagement, piuttosto che di audience development, proprio nella convinzione che la partecipazione cresca quando si crea un ambiente accogliente. Se come prima cosa si sottolinea l’esigenza di colmare l’ignoranza delle persone, non si offre un viatico efficace alla partecipazione.”

    In una recente intervista Francesco De Biase ha detto che “la cultura nella sua accezione più ampia e complessa potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo centrale per “ri-mediare”, intendendo con ciò sia il trovare soluzioni, risposte e rimedi, sia il rinegoziare, riformulare e riprogettare i diversi ambiti della nostra vita. Per far ciò è necessario che la cultura assuma un ruolo più rilevante e centrale in tutte le politiche e in tutti i diversi ambiti e comparti sociali ed economici”.

    Abbiamo due esigenze: da un lato, la cultura – arte, spettacolo, letteratura – ha bisogno di raggiungere un pubblico maggiore; dall’altro, ha la possibilità e il dovere di contare di più, di incidere sui processi sociali e politici. Neanche a dirlo, a queste due esigenze si risponde andando nella stessa direzione. Facile a dirsi, certo, meno a farsi. Ma esperienze come quella dei Visionari indicano che le strade esistono, e si possono percorrere.

    Note