Quartiere Adriano: la città e la casa

A Milano vivo vicino a piazzale Loreto; arrivando da lì al quartiere Adriano la prima cosa che colpisce è il silenzio. “Colpire” in realtà non è il verbo corretto, perché porta in sé un’immagine improvvisa, che suggerisce qualcosa di violento, e la violenza e l’imprevisto non hanno molto a che vedere con i posti come questo.

Nel silenzio dell’Adriano piuttosto si entra e, una volta entrati, il silenzio dell’Adriano si attraversa. È un silenzio solo apparente ovviamente, vivo e tutt’altro che assoluto. Ad ascoltarlo nel modo giusto (nel mio caso è stato a piedi, da sola, in un primo pomeriggio di fine ottobre) dentro ci si trovano molte cose: lo sfrigolìo dei fili dell’alta tensione di via Ugo Mulas, il fiorire delle rose cubane nelle aiuole di via Tremelloni, l’odore di pollo arrosto fuori dall’Esselunga, il rombo maleducato di una marmitta che attraversa di fretta via Adriano, Publio Elio Adriano, imperatore raffinato dissoluto ed egoista che dedicò le sue imprese alle zone di frontiera dell’impero e che è stato scelto per dare il nome al quartiere e alla strada che lo attraversa nel mezzo, un viale più lungo che largo dove Milano finisce e Sesto San Giovanni comincia.

Nel silenzio dell’Adriano si sente l’abbaiare di due cani divisi da un marciapiede e uno contro l’altro – uno piccolo e agguerrito, l’altro grosso e pacifico, col pelo troppo lungo e un abbaiare stanco, quasi di servizio; spunta la suoneria del cellulare di una vecchietta a spasso con la badante in via fratelli Bazzaro, si collezionano frasi monche rubate alla gente che prende aria ai giardinetti Franca Rame: una sul Napoli primo in classifica (due uomini, uno col cane, in cima a una collinetta), una sulla salute di una certa Stefania (due mamme vicino agli scivoli del parco giochi), un’altra ancora sicuramente d’amore, ma troppo sussurrata per essere rubata veramente (due ragazzini vestiti troppo pesanti e attorcigliati l’uno all’altra su una panchina).

Franca Rame, proprio lei, e non in quanto lombarda e perciò quasi milanese: insieme a lei all’Adriano ci sono anche Antonio de Curtis, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni a dare i loro nomi alle strade. Una Cinecittà in miniatura, la parte ovest del quartiere, senza cinema e con un’idea di città tutta sua; un casting dai nomi talmente illustri da diventare struggenti, con Tremelloni piazzato lì in mezzo a fare da arbitro o forse da regista, e Mulas fotografo di scena. Una polvere di stelle che evapora una volta che si attraversa via Adriano per lasciare il passo a Saragat e La Malfa, Nenni e Lussu. Dopo di loro, tutto a est, c’è il parco, Adriano anche lui: 120.000 m2 pianeggianti, di un verde timido, di tutti e di nessuno, magari perfetti per ritrovarsi ma non per perdersi, ideali per tenersi in forma ma non per sentirsi altrove.

La toponomastica a volte è una mamma troppo premurosa, che armata delle migliori intenzioni rischia invece di combinare solo pasticci. Svilisce dove vorrebbe celebrare e confina dove vorrebbe far viaggiare. Prova a creare legami e, senza nemmeno saperlo, si ritrova a lavorare per l’anonimato. Proprio come le mamme, la toponomastica non è mai innocente, ma anche quando sbaglia lo fa in buona fede: il suo peccato più grande forse è l’ambizione, quel suo riporre negli altri – nei luoghi e nei nomi – i suoi ingenui desideri di gloria e di affermazione. Via Omero, “grande poeta greco”, recita una targa a Roma dietro villa Borghese, dalle parti della GNAM: quel “grande” sembra uscito da una definizione della settimana enigmistica, tradisce l’uomo dietro alla targa e racconta tutte le intenzioni che il marmo non riesce a scolpire.

Allo stesso modo, anche se per altre ragioni, i Mastroianni e i Gassman dell’Adriano fanno tenerezza. Fra le margherita selvatiche e le rose studiate a tavolino, lungo le distese di niente che separano un palazzo di venti piani da un altro e sotto l’occhio vigile del matitone della Magneti Marelli che su tutto veglia e verso cui tutto prima o poi si rivolge quei nomi spuntano all’improvviso, e quasi vorrebbero prendere la parola. E invece poi se ne stanno in silenzio, e non perché non abbiano nulla da dire: forse semplicemente perché ancora adesso si stanno guardando intorno, e prima di parlare e di decidere una buona volta di sentirsi a casa vorrebbero capire dove sono finiti, e perché.

Come dargli torto, del resto: l’Adriano è un posto che ormai esiste da vent’anni, ma che si sta ancora scoprendo, e che per costruire il suo futuro può contare solo sul suo presente, perché il suo passato forse è anche esistito, ma non sembra aver lasciato traccia. Milano é lì a due passi, dritta sulla linea rossa e a qualche fermata di tram, ma all’Adriano Milano non esiste: il suo traffico e i suoi cortili, le sue nostalgie ottocentesche e le sue ambizioni contemporanee, le sue vecchie pasticcerie e i suoi miraggi di skyline finiscono dove finisce la martesana. L’unico refolo della città come la conosciamo è forse via san Mamete, un sussulto di case a sud est subito prima del parco: un avamposto di palazzine basse e giallastre tenute lì come l’argenteria; un cimelio di famiglia che l’Adriano non usa davvero ma da cui non ha mai voluto separarsi. Per il resto Milano da lì è solo un ricordo, un altro posto.

“A line is a dot that went for a walk”, ha scritto Paul Klee; a guardare dall’alto le linee che lo delimitano su google maps l’Adriano sembra il frutto della passeggiata di un uomo con un buon senso pratico, portato al rigore e dotato di poca fantasia. Riga dritto per la sua strada, tiene dentro un parco, due giardini e qualche cimelio di famiglia, non dimentica il suo centro e neppure i suoi limiti, e si ferma in tempo utile per salutare la tangenziale da lontano e ignorarne così il rumore e il senso di confine.

A guardarlo da dentro, ovviamente, l’Adriano è un posto molto diverso, meno impassibile e più rarefatto, orgoglioso ma a tratti disorientato, come se lui stesso non conoscesse la sua prossima mossa, il prossimo passo di quello che un tempo forse gli era sembrato un piano chiarissimo. È uno di quei quartieri in cui tutto sembra appena nato e al tempo stesso pronto a invecchiare da un momento all’altro in modo irrimediabile, se qualcuno non capirà come abitarlo, come prendersene cura o più semplicemente cosa farsene.

Immagino tutto questo non tanto perché conosco a fondo l’Adriano, ma perché in un quartiere simile sono cresciuta, da un’altra parte, qualche tempo fa. Tutte le periferie infelici sono infelici a modo loro, e senza dubbio la mia a Roma e quella dell’Adriano a Milano non sono nemmeno più infelici di tante altre, ma la sensazione di chi le abita credo che in fondo rimanga la stessa: aldilà del bene o del male di vivere che lì dentro ognuno sperimenta a seconda delle età, degli orizzonti e delle cose della vita, resta intatta per tutti una domanda, quel chiedersi se quel posto si prepara a diventare una città, o resterà sempre solo un luogo in cui tornare alla sera o passeggiare il cane al mattino. Quel chiedersi se, oltre a una casa, quella parte di mondo sarà in grado di offrirci altro, o se tutto il resto, nella vita, lo vedremo svolgersi sempre in un altro luogo, da un’altra parte.

Non lo conoscevo l’Adriano, e di sicuro in tutto è diverso da quella che un tempo chiamavo casa mia. Il suo silenzio è un altro, un’altra è luce, altri sono i palazzi, gli alberi e i nomi sui citofoni. Ma le rotatorie in mezzo al nulla, i fiori che nessuno ha piantato ma spuntano comunque, le telecamere sul vuoto, i lavori sempre in corso, il verde deciso e freddo come il cemento che ha accanto e le pecore che spuntano all’improvviso da chissà dove sono gli stessi, come lo stesso, credo, sia il desiderio della gente che lo abita di capire dove si trova, se fuori o dentro a una città, se ne è parte o confine, fine o inizio.
Louis Khan diceva che la città è “il luogo in cui un bambino passando vede cosa vuol fare da grande”; arrivandoci da fuori oggi l’Adriano sembra un posto in cui Milano, senza nemmeno volerlo, è tornata bambina (o forse lo è sempre rimasta, mentre tutto il resto cambiava, trovava la sua strada).

Nonostante i nomi altisonanti che la mamma ha dato alle sue vie, nonostante i sogni di gloria che il centro coltiva e da qualche anno realizza con le sue torri e le sue fiere e le sue grandi imprese Adriano è tutt’altro, e tutt’altro resterà, sempre e comunque, anche se tutto va come deve andare, anche nel migliore dei mondi possibili. Non è una periferia sconfinata o fuori controllo in cui tutto può accadere, e certo neppure un territorio ibrido a portata o rischio di gentrificazione: è uno spazio di confine isolato e al tempo stesso connesso, un rettangolo dai tratti regolari disegnato da un uomo di buon senso e pochi grilli per la testa, figlio di un’epoca che non c’è più e di una città che è cresciuta, esplosa senza aspettarlo. Chiedersi oggi se un posto come questo sia stato un errore fatale o rappresenti una magnifica opportunità per il domani non lo porterà lontano.

Il rischio non poi è certo quello di abitare un render o chissà quale non-luogo: la natura e l’uomo faranno il suo corso comunque, giorno dopo giorno, come hanno fatto finora. Tra i tralicci e le aree parcheggio la bellezza nascerà dove non era stata programmata, i legami, le tragedie e le sorprese faranno lo stesso, l’abitudine colmerà il resto. Il rischio in posti come questo è piuttosto rassegnarsi a vivere un eterno presente: oggi siamo qui, domani chissà, forse ce ne andremo, forse no. Immaginato così il futuro non esiste, o è solo una parola finché non diventa tale. Se non sarà nostro compito occuparcene – nostro piacere, privilegio o desiderio – resterà sempre da un’altra parte. Oppure spunterà come le spighe e le margherite di via Antonio di Curtis, e non ci sarà nessuno a guardarlo.


Immagine: fotografia di Eleonora Marangoni

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