Abitare la prossimità coltivando la cura, intervista a Ezio Manzini

La pandemia sembrerebbe aver ridato centralità ad alcuni temi trascurati in questi decenni di neoliberismo: la cura, la prossimità, la comunità. Nel suo libro Abitare la prossimità – Idee per la città dei 15 minuti Ezio Manzini ha teorizzato una città a misura d’uomo, in grado di superare il modello della “città delle distanze” e offrendo un’alternativa credibile alla società “del tutto a/da casa”, che poggia sull’impegno civico e su un’innovazione tecnica usata per favorire la vicinanza e la collaborazione.

Lo abbiamo intervistato per approfondire queste tematiche legate al concetto di cura.

L’intervista è estratta dall’ultimo numero di A: Ancona rivista a colori e segna anche l’inizio di una collaborazione tra la rivista e cheFare, agenzia per la trasformazione culturale. 

 

Ezio, come si può declinare concretamente la “città della prossimità”, evitando il rischio di alimentare sterili retoriche o operazioni di maquillage progettuale?

«Per evitare che ciò succeda occorre muoversi su tre piani: quello della localizzazione, per cui i sistemi socio-tecnici si distribuiscono sul territorio e i servizi si avvicinano ai cittadini;  quello della socializzazione, per cui i servizi stimolano e supportano la collaborazione dei cittadini e contribuiscono alla costruzione di comunità; quello dell’estensione, per cui quanto detto ai due punti precedenti si allarga a comprendere tutta la città (e non solo alle zone storiche in cui, di fatto, la città è già vicina al modello di prossimità di cui stiamo parlando). 

Un processo di territorializzazione riuscito è dunque quello in cui questi tre piani d’azione sono portati avanti congiuntamente. Il che non significa che bisogna fare tutto in una volta sola. Come tutti i sistemi ad alta complessità, la costruzione della città, e quindi anche i processi di territorializzazione di cui stiamo parlando, non avvengono in base a logiche unitarie e progetti omnicomprensivi, come se la città fosse un artefatto monolitico. Emergono invece da una serie di iniziative diverse, per tema, per motivazioni e per scala, che, nella loro interazione, generano quello che, effettivamente, sarà il risultato. Per questo il modo di procedere, non può che essere per interventi parziali e dotati di una loro autonomia ma, possibilmente, all’interno di visioni condivise. Nel nostro caso, affinché il risultato si avvicini all’idea della città della prossimità, che dovrebbe essere la visione condivisa, occorre che diversi progetti e programmi convergano in questa direzione. Ciò che ne dovrebbe emergere è una città della prossimità intesa come “città che cura”. Cioè come una città che, per come è costruita e vissuta, attiva e sostiene la capacità di cura dei suoi abitanti. Il che significa che essi non sono considerati solo come individui con problemi che usano servizi, ma come cittadini attivi che formano comunità (cura dei bambini, degli anziani, del verde, della cultura locale, … )».

Quali esperienze positive vede in giro per l’Italia che vadano nella direzione della “città che cura” e quali indicazioni è possibile ricavarne?

«Nel libro Abitare la prossimità (Egea  2021) parlo di città che cura per indicare quella che, a mio parere, è l’essenza della città della prossimità. Quest’espressione è stata però introdotta molti anni fa da Francesco Rotelli, ex-direttore del Centro di Salute Mentale e poi Direttore Generale dell’Azienda per i Servizi Sanitari di Trieste, in riferimento alla straordinaria esperienza di cui è stato promotore in quella città.

Per cui, per cercare nella pratica il significato di questa espressione, non si può che partire da Trieste, e dal suo Progetto di Microaree. Si tratta di un insieme di interventi in zone socialmente fragili della città che sono iniziati nel 2005 con un’intesa tra comune, Azienda Sanitaria, Ater (le case popolari di Trieste). 

In questi interventi, i servizi medici, quelli sociali e le politiche abitative collaborano con le reti sociali locali nella realizzazione di servizi localizzati in un’area geografica circoscritta. La microarea, appunto. Ogni microarea si riferisce ad una popolazione di circa 2000 persone, ed ha al suo centro uno spazio (normalmente aperto sulla strada) in cui, come si legge nella presentazione che ne ha fatto il comune, ci sono “attività di sportello per informazioni, segnalazioni e richieste in campo sanitario, assistenziale, abitativo”. Ma non solo. È anche uno spazio aperto alla collettività in cui si organizzano “momenti di aggregazione e attività socio ricreative rivolte ai residenti, con particolare attenzione alle persone fragili, volti a favorire e sviluppare nei quartieri una comunità più coesa e solidale.” 

Si potrebbe obiettare che il caso delle Microaree di Trieste è un caso particolare, molto legato ad un contesto politico e sociale altrettanto particolare. Ed è vero. In effetti non ci sono molti altri esempi in cui la costruzione della città che cura sia stata così evidente. Però, in molte città, grandi e piccole, ci sono state delle significative mosse concrete in questa stessa direzione, ma con diverse combinazioni tra le azioni sui tre piani di cui si è detto.  Personalmente conosco meglio il caso di Milano, dove la diffusa innovazione sociale a livello molecolare che in questi anni ha caratterizzato la città si è incontrata con un’amministrazione capace di riconoscerla e valorizzarla, generando nuove forme di governance collaborativa verso la città della prossimità (si veda il caso del quartiere Nolo, come esempio).  Ma si potrebbe parlare anche di Torino, con la rete delle Case di quartiere. O di Bologna, con le iniziative dell’Ufficio Immaginazione Civica e della Fondazione per l’Innovazione Urbana. Facendo un confronto accurato tra queste diverse esperienze emergerebbero processi di costruzione della città assai variegati: diversi “stili di governance” derivanti dalla storia, dalle caratteristiche e dall’immaginazione civica (per usare le parole di Michele D’Alena – Immaginazione civica, Sossella, 2021) di ciascuna città».

Tra queste esperienze, una sottolineatura particolare merita la vicenda del comune di Riace. Una città che cura è una città capace di accogliere. Che cosa resta oggi di quel modello secondo cui, attraverso l’accoglienza e l’integrazione, si gettavano le basi per generare lavoro in un luogo destinato di contro allo spopolamento? E da dove riprendere il discorso per fare in modo che di questa storia non resti solo un “C’era una volta?”

«Credo che ogni esperienza significativa come questa lasci un segno che ha capacità di far muovere altre cose anche quando l’esperimento iniziale è sotto attacco o finito. Infatti, se pure Riace come prototipo funzionante di un’idea di accoglienza e di rigenerazione territoriale non c’è più, Riace come esempio concreto può ancora insegnare molto, stimolando e orientando altre iniziative. E, in effetti, guardando in giro per l’Italia si trovano casi che sembrano andare nella stessa direzione (per esempio, penso al caso di Monteleone, che viene definito come la Riace della Puglia). Inoltre, considerando anche i problemi che ha avuto, Riace ci dice anche, con drammatica chiarezza, che occorre agire a diversi livelli: capillarmente nei territori, ma anche sul contesto legale e normativo. È fondamentale infatti che iniziative come queste siano concretamente supportate in termini politici e istituzionali. E che la loro esistenza economica venga supportata e i processi amministrativi facilitati. Purtroppo, a livello nazionale, questo non sembra stia succedendo. E, in particolare il Piano Nazionale Borghi del PNRR sembra andare in tutt’altra direzione». 

Nel PNRR con la missione 5 “Inclusione e coesione” si è scelto di investire importanti risorse per colmare le diseguaglianze sociali e con la 6 dedicata alla “Salute” vengono ribaditi obiettivi in termini di reti di prossimità e di attivazione di Case della comunità. A fronte di tale importante investimento infrastrutturale e tecnologico appare sfocato l’elemento umano, a partire dal personale da impiegare in tali strutture oltre che di un ruolo propositivo del Terzo Settore, che pur negli anni ha dato prova di una profonda conoscenza dei bisogni delle comunità e dei territori. Ravvisa in tal senso elementi di criticità?

«Sì, ci sono molte criticità, per diverse ragioni, compresa quella a cui fate riferimento. Detto questo, credo che, in particolare, nella missione 6, Salute, ci sia un aspetto importante che vada messo in luce e amplificato. Prima del Covid-19 le scuole di pensiero e le politiche di welfare dominanti proponevano di riorganizzare i servizi creando grandi poli in cui concentrare le risorse. Il risultato dell’applicazione di questa visione è stato, in alcuni casi, la creazione di centri di eccellenza, ma anche, in tutti i casi, l’abbandono del territorio. Per fortuna, questa linea non è stata seguita dappertutto e, in Italia, ci sono regioni che, pur con difficoltà, hanno mantenuto sistemi territoriali funzionanti.

È successo così che, investiti dalla pandemia, i sistemi orientati ai poli di eccellenza (e alla privatizzazione della salute) come quello lombardo, sono crollati. Mentre quelli in cui il presidio territoriale e pubblico era stato mantenuto (penso, per esempio, all’Emilia Romagna, alla Toscana e al Veneto) hanno retto meglio. Il che ha reso visibile e tangibile per tutti l’importanza della territorialità intesa, in questo caso, come conoscenza del territorio, e come capacità di dare risposte là dove le persone si trovano. L’evidenza di questi risultati è stata tale da costringere a prenderla in considerazione in tutte le discussioni sul welfare che ne sono seguite. Così è successo che, nello stesso PNRR, tra le sei “missioni” che lo compongono, quella in cui si parla esplicitamente di territorialità è proprio quella che riguarda la salute.

Detto questo, va aggiunto che il PNRR, in quanto tale, è stato pensato per finanziare investimenti infrastrutturali. Questa logica può essere condivisa o no, Ma così è. Quindi, se la si accetta, non è strano che l’elemento umano, cioè tutto ciò che riguarda il personale e il ruolo del Terzo Settore, appia sfocato. 

E quindi, che fare? A mio parere, poiché a questo punto la logica di fondo del PNRR non può essere cambiata, occorrerebbe immaginare progetti che possano intercettare anche altri fondi (quelli che possono finanziare ciò che è necessario per il buon funzionamento nel tempo di ciò che si realizzerà) e che possano operare come sistemi abilitanti: infrastrutture e servizi in grado di stimolare e attivare risorse sociali e, così facendo, di creare comunità».

Molte progettualità oggi mettono al centro la realizzazione di servizi di prossimità, ma non sempre riescono ad attivare realmente quelle comunità di luogo necessarie perché la prossimità si traduca in cura. Che cosa si può imparare dagli insuccessi?

«Dagli insuccessi, ma anche dai successi, si è capita meglio la diversa natura dei tre piani d’azione di cui dicevo (localizzazione, socializzazione e diffusione), e la loro reciproca interazione. La sintesi di questo insegnamento può essere questa: la localizzazione, intesa come realizzazione di servizi di prossimità, è del tutto progettabile e realizzabile ma, come è ovvio, servono volontà politica e risorse economiche adeguate. Lo stesso non si può dire per la socializzazione, intesa come la capacità di costruire comunità, che invece, in quanto tale, non si può progettare (anche quando ci fossero volontà politica e risorse economiche per farlo). C’è però qualcosa che un buon progetto (unito anche qui dalla disponibilità di risorse economiche e da una forte volontà politica) può fare. Ed è creare delle opportunità affinché la costruzione di comunità diventi possibile e probabile (considerando che la tendenza dominante fino ad ora è stata di renderla sempre più improbabile se non decisamente impossibile). Il che significa progettare i servizi in modo che operino come sistemi abilitanti nella costruzione di comunità e nella valorizzazione di energie e competenze diffuse nella società». 

Come sono queste infrastrutture e questi servizi che operano come sistemi abilitanti? 

«Prendendo come esempio la salute, occorre innanzitutto portare i servizi (e quindi i medici, infermieri, assistenti sociali che li mettono in atto) vicini alle persone. Chiunque dovrebbe sapere che in qualunque momento in quella struttura di prossimità può trovare delle persone esperte che lo possono aiutare. Ma, come si è già accennato, questo non basta. È anche importante che tra personale professionale e cittadini si instauri una forma di vicinanza che sia anche relazionale. In altre parole, deve stabilirsi tra loro un sistema di relazioni che renda possibile la costruzione di una comunità della cura.Le Case della comunità di cui parla il PNRR, in teoria, potrebbero essere un passo verso quanto sto dicendo. Per quello che dice il nome che si è scelto, esse potrebbero diventare il luogo fisico e sociale intorno a cui la comunità della cura potrebbe formarsi e durare nel tempo. Ma perché ciò avvenga occorre volerlo e lavorarci su. E questo non solo perché, per le ragioni prima indicate, la parte relativa alla socializzazione non è per nulla presente nel piano. Ma principalmente perché occorre che la società civile, il terzo settore e i cittadini più o meno organizzati facciano la loro parte. E questo non avviene nelle istituzioni e nel PNRR, ma nel territorio». 

Nei suoi lavori emerge un certo ottimismo rispetto alla possibilità di immaginare forme di prossimità e di comunità “ibride”, fisiche e digitali, a quali condizioni ciò è davvero possibile?

«Le comunità ibride non sono entità future, ancora tutte da immaginare. Nei contesti come il nostro, sono già da tempo una realtà diffusa: viviamo tutti in un mondo che è già da tempo sia fisico che digitale. Quello che dobbiamo fare è di capire meglio la sua natura e le sue possibili evoluzioni. E, a partire da qui, immaginare come operare per ridurne i rischi ed aumentarne le possibilità. Entrando nel merito, a me pare che il mondo ibrido, fisico e digitale, in cui ci troviamo sia oggi il terreno di scontro tra proposte di vita opposte. La prima si riferisce ad uno scenario che possiamo chiamare il mondo videogame. Un mondo in cui il baricentro delle attività umane si sposta sempre più nel mondo digitale. Un mondo ibrido in cui, se si vuole, tutto si può fare in modo facile, divertente, dematerializzato e restando comodamente a casa. Il problema è che quest’immagine di un mondo divertente, attraente, sicuro e leggero è falsa. Le promesse che fa non possono essere mantenute. Per esistere, esso ha bisogno di un mondo fisico che lo sostenga: un mondo di corpi chiusi e isolati nelle loro case, sostenuti da servizi di supporto. Un mondo in cui molti devono lavorare come schiavi per far sì che chi sta nel mondo videogame possa continuare a giocare (ricevendo a domicilio ciò che serve per la propria sopravvivenza biologica). Un mondo sempre più saccheggiato delle sue risorse (quelle necessarie per sostenere l’energivoro videogioco in cui così tanti passano così tanto tempo). E un mondo di cui nessuno ha cura (perché tutti sono distratti da quello che succede nel mondo digitale). La seconda proposta di vita si riferisce invece ad uno scenario che possiamo chiamare il mondo in prossimità. Un mondo che emerge da diverse innovazioni sociali, culturali e istituzionali che, nei due decenni passati, hanno portato in primo piano il tema della cura e della prossimità relazionale e fisica. E, così facendo, hanno teso ad orientare l’innovazione tecnica verso sistemi capaci di stimolare e supportare l’attenzione, la collaborazione e la vicinanza tra le persone e tra di esse e il loro ambiente.  In breve, sistemi che rendono le persone capaci di cura. Tornando quindi alla domanda, non si tratta di essere ottimisti sulle possibilità delle tecnologie di supportare le nuove comunità di cui prima abbiamo parlato, ma di entrare in questo scontro in atto tra diverse proposte di vita, cercando di supportare quelle che ci sembrano più favorevoli e promettenti».  

 

Immagine di copertina: ph. Will Paterson da Unsplash