La Comunità di Olivetti, da idea politica a organo economico
Nell’estate del 1942 cominciarono a circolare in tutta Italia, di fronte allo sfacelo evidente della costruzione corporativa e fascista sotto la pressione della disfatta militare incombente, i programmi che i movimenti politici clandestini preparavano per l’indomani. Preparazione che fu troncata nel periodo più fertile e virile dell’antifascismo italiano: durante il periodo in cui esso creò la resistenza.
Circolavano dunque in quel tempo i primi manifesti, i primi programmi. Da quei manifesti, da quei programmi il nostro paese, il nostro popolo attendeva una ricostruzione e una resurrezione. Ma essi non costituivano niente di nuovo, contenevano ancora delle vaghe affermazioni, delle intenzioni, un omaggio, in verità serio e sincero, alle tradizioni di democrazia, di libertà, di socialismo alle quali anche noi teniamo e crediamo.
Ma la strada per realizzare socialismo e democrazia e libertà rimaneva ancora oscura o densa di pericoli. Se da secoli, da decenni, da anni i popoli di Europa chiedono libertà, sperano nel socialismo, vivono nella democrazia e ancora per tutta la penisola miseria, sofferenza, ingiustizia sono tragicamente visibili, ha da esservi seria e grave ragione. I nostri improvvisati politici non seppero dare al nostro popolo una parola nuova.
Fu appunto allora, in quella fine tormentata del 1942, in quel tempo, in cui l’alterna vicenda della guerra, la sua durezza, tra aumentati sacrifici preparava un periodo ancor più tragico, quello dell’occupazione tedesca, in quella dura vigilia compresi che occorreva fare uno sforzo, bisognava condensare in una unica formula tutte quelle esperienze e conoscenze politiche e non politiche che alternative continue fra il lavoro, la vita e lo studio mi avevano concesso di esplorare. Sapevo che era inutile, vano e pericoloso occuparsi della politica nazionale, se non si fossero compiute delle minori esperienze nella vita del comune e della provincia, se non si avesse visto da vicino come ne funzionassero gli organi, se non si avesse compreso quale era il modo con cui lo Stato esplicava la sua autorità e le sue funzioni nella vita di tutti i giorni per tutti i cittadini.
Mi sembrò quindi che il metodo più adatto a formulare delle soluzioni nuove alla crisi politica e alla crisi sociale potesse partire non già da un vasto e nebuloso programma teorico, ma da un esame circostanziato, da un esame sperimentale, da un vaglio fatto ufficio per ufficio, casa per casa, persona per persona, in tutti quegli strumenti di vita associata che l’esperienza politica aveva consegnato al paese: il comune, la provincia, i sindacati, i partiti; senza peraltro perdere di vista la sorgente della ricchezza moderna: la fabbrica e la sua potenza.
Mi accorsi ben presto che la situazione più confusa derivava dai limiti errati e non omogenei delle circoscrizioni in cui si esplicava l’autorità, il potere: in una parola, la provincia era sempre troppo grande e il comune era, nella maggioranza dei casi, troppo piccolo. Perché non si concentravano questi due poteri, l’autorità del comune e l’autorità del prefetto, in un nuovo strumento politico-amministrativo? Esaurite le necessità dello Stato di polizia che facevano delle prefetture uno strumento di governo, non si avrebbe avuto più ragione di sottrarre al dominio di un corpo liberamente eletto quel necessario organo intermediario fra il comune e lo Stato, costituito dall’attuale provincia.
I pubblici poteri assolvevano delle funzioni utili e necessarie, ma il loro coordinamento era terribilmente difficile e spesso mancava del tutto, talché questi organi che sembravano esser fondati per il bene e il comune interesse tendevano a essere il teatro di interessi particolari e, nella confusione esistente, gli uomini di buona volontà erano, quasi sempre, avulsi, straniati, sopraffatti dai furbi, dai disonesti, dagli incompetenti. Le fabbriche producevano una ricchezza che non serviva che in piccola misura a integrare i bisogni della collettività, e questa ricchezza che era profusa andava dispersa, lontana, atomizzata, incontrollata.
Perché non si unificava? Perché non si poteva creare una nuova unità che assommasse e comprendesse organicamente i poteri di un prefetto, l’influenza di un deputato, il prestigio di un senatore, la forza e l’indirizzo dei partiti, la democratica figura del sindaco e della sua giunta, la volontà di difesa dei sindacati, la potenza economica e finanziaria delle fabbriche? Si avrebbe avuto un’unica circoscrizione, un unico potere, degli uffici bene organizzati, un’amministrazione vigile, umana, vicina agli interessi del popolo, facilmente controllabile, dove tutte quelle entità e quelle forze che agiscono separatamente, provincia, comune, partiti, sindacati, fabbriche, avrebbero trovato una sola espressione, un solo ordinamento, una nuova e organica unità. Nasceva così, empiricamente espressa, la prima idea, l’introduzione all’idea di una Comunità concreta.
Questo concetto così semplice e così elementare che è alla base fondamentale e insopprimibile della nostra ideologia, quello di far coincidere su di un solo territorio l’unità amministrativa, l’unità politica e l’unità economica, fu dapprincipio propriamente una modesta scoperta, ma il suo valore si dimostrò più tardi: poiché essa si dimostrò feconda di sviluppi pratici e teorici. Essa nel pensiero e negli scritti si venne più tardi precisando, affermando e perfezionando, quando si trattò di presentare lo schema di un organo molto complesso, interiormente vitale, un congegno estremamente adatto a risolvere la molteplicità dei problemi della vita moderna. La nostra concezione della Comunità fu dunque da principio una concezione politico-amministrativa.
La Comunità è un organo della Regione e dello Stato: si trasforma poi, essendo fondata su un’entità naturale, in un organo economico e via via in un mezzo di affermazione morale e spirituale. Il disegno non appare immediatamente evidente e potrà essere chiaro soltanto quando si comprenderà che solo partendo da questo dispositivo unitario si possono risolvere i grandi e insoluti problemi politici: una nuova libertà, una nuova democrazia, una nuova struttura sociale. Era d’uopo indicare e definire quello che in quel piccolo e minuscolo Stato, nella Comunità, avrebbe dovuto essere il potere, l’autorità. Come doveva essere costituito? Doveva essa venire dall’alto, come nel regime dei prefetti? Doveva essa essere lasciata al mediocre e alterno dominio del suffragio universale?
La soluzione scaturì da un lungo sforzo inteso a congegnare e costruire un ordine politico in cui si trovassero armonicamente operanti quelle forze e trovassero luogo quelle esigenze che, insieme all’esperienza tradizionale e ai nuovi problemi che sorgono nella vita moderna, reclamano per la libera ascesa di una società ancora incompiuta e che deve muoversi verso un profondo rivolgimento, una sostanziale trasformazione. Su tre principi fondamentali – e sulla loro collaborazione – doveva fondarsi l’ordine politico. Il principio della sovranità popolare, del sindacalismo, dei valori essenziali della cultura e della scienza, una scienza non disgiunta da un fine etico, poiché quando questo mancasse scienza e tecnica sottomettono l’uomo al dominio della macchina e di congegni che egli non è più in grado di controllare, onde potrebbero portare la civiltà verso la propria distruzione. Urgeva definire la democrazia in modo assai più vasto e più consono agli interessi dei più, di quanto la democrazia ordinaria non possa pretendere e non possa garantire.
Non era sufficiente integrarla, l’ordinaria democrazia, con quelle forme autentiche di aristocrazia che sono l’esperienza, la cultura, il valore. Urgeva obbligare la democrazia a essere più vigile interprete dei reali bisogni delle masse e del popolo, il quale è facilmente tratto in inganno dalle incaute promesse di presuntuosi pastori; bastava a questo scopo immettere con il suo formidabile valore – mediante organi diretti e coerenti – nella democrazia il peso della classe lavoratrice.
Nacque pertanto una delle idee fondamentali dell’Ordine politico delle Comunità, l’idea del «nucleo originario del potere»: un’associazione trinitaria; tre persone costituiscono il nucleo centrale dell’autorità di una Comunità: un presidente democratico, eletto cioè a suffragio universale da tutti i cittadini della Comunità; un vicepresidente, eletto soltanto dai lavoratori, rappresenta i sindacati; infine un rappresentante della cultura, di quella cultura politica che è una cultura specializzata e che senza gravissimi inconvenienti non può essere affidata a uomini improvvisati, ma è frutto, come ogni altra scienza o arte, di profondi studi specializzati e di una autentica vocazione.
Da questo nucleo originario il potere si svilupperà, ripetendosi, ampliandosi, arricchendosi fino a costituire l’esecutivo della Comunità che ne costituisce il suo minuscolo governo, dotato di tutti gli organi della Regione e dello Stato. Molto più tardi, questa semplificazione astratta, il nucleo originario del potere, prenderà una forma più complessa, ma concreta. La democrazia si identificherà nei centri comunitari radicati capillarmente nei rioni e nei villaggi, i sindacati prenderanno vita dalle Comunità di fabbrica e della terra, la cultura si ordinerà nei Centri Comunitari Culturali. La strada sarà aperta alla propaganda e alla costruzione.
Immagine di copertina: particolare da manifesto Olivetti Lettera 22