Non c’è più il bar per come l’abbiamo conosciuto. La lezione dei bar gay
Di recente un amico mi ha raccontato che il suo bar, da poco inaugurato in centro città, non solo sta andando a gonfie vele ma «è diventato davvero un bar gay». Incuriosito, sono andato un venerdì sera e ho trovato una folla di ventenni e molti altri che i vent’anni li hanno già salutati da tempo pur continuando ad ammiccare a Le petit jardinier di Pierre & Gilles. A differenza della famosa foto, non solo erano vestiti ma quello che tenevano in mano era una cornice cui era legata una Rainbow flag e, con la frenesia degli influencer, invitavano tutti a farsi scattare una foto per poi postarla su Instagram.
Mi sono chiesto cosa fosse questo luogo che ambiva a definirsi così nettamente («gay»), quando tutte le identità si sono sbriciolate, compresa quella per cui abbiamo vissuto (spesso dolorosi) coming-out e aver fatto del proprio corpo (almeno alcuni di noi) un campo di battaglia. Forse ho solo assistito a qualcosa che precipitava dal secolo scorso in una città piuttosto provinciale. O forse, al contrario, era qualcosa di molto contemporaneo per il modo con cui trattava la seconda delle due parole, «bar». Voglio dire che il bar fingeva di stare dentro il bicchiere di vino, versatomi al bancone dal design cool nella quantità di un piccolo assaggio costoso, mentre l’esperienza della prossimità dei corpi evaporava tutta dentro un account Instagram. E se fosse proprio «il bar», per come l’abbiamo conosciuto, luogo di socialità, arena dei corpi, a non esistere più, pur moltiplicandosi in ogni angolo dei centri urbani?
È di Jeremy Atherton Lin il libro Gay Bar. Perché uscivamo la notte, uscito da poco per le edizioni Minimum fax. Nel memoir dalla scrittura bella, viaggio sentimentale nei locali tra Los Angeles, Londra e San Francisco, si innestano riflessioni e testi di storia dell’architettura e dei movimenti sociali, sociologia urbana e attivismo culturale e civico. Un lavoro complesso che gli è valso il National Book Critics Circle Award.
Si dice che il bar sia il «terzo luogo» della modernità. L’autore ricorda come sia stato «l’ex-CEO di Sturbucks, Howard Schultz, ad aver diffuso l’espressione coniata dal sociologo Ray Oldenburg, “terzo luogo”, uno spazio sociale tra casa e lavoro. In termini di libero mercato – annota Jeremy Atherton Lin – non c’era ragione di distinguere un caffè da una sauna gay, di indagare quale tipo di vapore voleva la gente».
Ma questo avveniva dopo il tempo della repressione, che ha lasciato lividi, carcere e marchio sociale e pure certe scene grottesche che sempre i regimi repressivi riescono a traspirare, come nella San Francisco degli anni ’50, quando «poliziotti avvenenti in pantaloni attillati giravano per incastrare i clienti» o nella Los Angeles degli anni ’60 dove il jukebox lanciava God save the queen per dare «il segnale che c’erano poliziotti in borghese nel locale». È venuto dopo, il tempo dell’assimilazione: i locali toglievano pannelli e tendaggi dalle finestre fino ad allora oscurate e via via il mercato si ingolosiva di una fetta di consumatori come una prateria vergine e quel “terzo luogo” se lo ingoiavano i brand. Alla fine, «il capitalismo è stato il contesto in cui i diritti civili sono stati difesi e le transazioni finanziarie il meccanismo con cui veniva la gestita la questione». Non è questo il nocciolo dell’intera partita?
Comunque sia, tra i due capitoli, repressione e assimilazione, e a volte anche negli intermezzi sovrapposti, c’è stato anche il tempo della rivolta. Jeremy Atherton Lin ricorda come proprio nei bar il popolo arcobaleno abbia cacciato la polizia a bottigliate e barricate, non solo nel famoso Stonewall Ill, al Greenwich Village di New York quella notte di giugno del 1969, ma già due anni e mezzo prima per cinque giorni le “sorelle” avevano dato battaglia al Black Cat di Los Angeles. È rimasto qualcosa di quei bar come fucine politiche?
Via via che passano gli anni, lo sguardo di Jeremy Atherton Lin si fa malinconico, forse perché così succede quando si diventa adulti o forse perché anche lui assiste alla mutazione gassosa di una «comunità» che gli è sempre stata stretta, lo stravolgimento delle città, l’abbruttimento delle dinamiche sociali foriere di nuove esclusioni, e intanto si fanno sempre più marcate le faglie di classe e razziali che crepano la sfera pubblica.
Insomma, osservare l’umanità dallo sgabello di un bar è sempre una chiave per dare un senso al paesaggio urbano e sociale. Se poi parliamo di un’umanità così a lungo braccata, il bar è stato anche l’incubatore di identità, di miti, di appartenenze, di comunità inventate e quindi da difendere con ancora più slancio sentimentale.
Ma nel momento in cui diventa il luogo di una socialità fantasmatica, esiste ancora il bar? O non resta che una protesi urbana e commerciale, dentro una città-fabbrica di consumi veloci da postare in rete? «Forse dovremmo distinguere tra centro storico e periferie, un discrimine fisico, geografico ed economico-sociale che tutt’ora persiste, nonostante i tanti tentativi per disarticolare quel paradigma», riflette Marco Castrignanò, docente di sociologia urbana all’Università di Bologna. Nei centri storici, dice, i locali si sono moltiplicati e allo stesso tempo sono diventati sempre più standardizzati e sterili: «La turistificazione ha stravolto il bar per come lo conoscevamo, via via che diradava il tessuto residenziale, di vita e di lavoro, spingendo insieme fuori dal centro anche situazioni di povertà e di residenti migranti. Lo vediamo in tutte le città, a Bologna come a Madrid. Ma fuori, dove invece si fa denso il corpo residenziale, resistono i piccoli bar e le piccole osterie, che riescono a calamitare l’umanità del quartiere e a difenderne il valore aggregativo».
Che la periferia resista nella sua matericità e finisca per plasmare tutto, ce lo ricordano anche le mappe dei redditi pubblicate di recente da il Corriere della Sera su Milano, tracciate attorno ai dati del MEF sui redditi da lavoro dichiarati incrociandoli coi CAP. Tra i 17.986 euro di media a Quarto Oggiaro e i 94.553 euro attorno a Moscova e Castello Sforzesco si modella un’intera città. Se a quella mappa dei redditi si sovrapponesse la mappa dei bar, avremmo un’idea più complicata di cosa intendiamo per bar.
Il “bar dei cinesi» è una delle estremità nella tassonomia dei locali. Alessandro Coppola, docente di politiche urbane al Politecnico di Milano, lo ha usato proprio in questo senso in opposizione ai nuovi locali cool, vestiti di un certo design e di una certa aria cosmopolita.
Nella rivista inglese Lo Squaderno, ha messo sotto la lente una zona di Milano, facendo un’osservazione partecipata in sei locali, tre aperti di recenti e altrettanti storici. «I “bar dei cinesi” non hanno account di social network né pagine web, e anche se li avessero ci sarebbe poco da comunicare, mentre solo una parte del loro pubblico potrebbe accedere a queste informazioni. Invece, tutti i nuovi esercizi hanno regolarmente aggiornato le pagine dei social network che presentano per lo più eventi variamente confezionati in strategie di narrazione che spesso ruotano attorno alla rappresentazione dell’atmosfera intima e affettuosa che legherebbe proprietari, gestori e pubblico».
La socialità pulviscolare, che quei locali producono in modi e densità diverse, amplia lo sguardo sul ruolo specifico dei bar come zona di incontro, casuale o quotidiano, leggero o sofisticato, di relazioni abituali o distanze abissali. È forse in questa forma di resistenza di una diversità di luoghi, nel poterli frequentare, transitando da uno all’altro, che la dimensione urbana prende significato, trova una messa a terra, disarticola comunità ingessate e lascia riconoscere l’umanità nell’altro.
Proprio mentre le identità si fluidificano nella queerness – per seguire il filo di Jeremy Atherton Lin – e non cercano comunità ma luoghi situazioni, ci potremmo chiedere se persino «il bar dei cinesi», coi suoi avventori attempati, eccentrici, di margine per età o per classe sociale, possa essere un rifugio più accogliente e più autentico di un sofisticato cocktail bar.
Italgrob, la Federazione Italiana Distributori Horeca, ci spiega nel suo ultimo rapporto, che alla vigilia della pandemia in Italia erano attivi oltre 336.000 punti di consumo tra bar, ristoranti, pizzerie, gelaterie, take away, discoteche. «Si tratta quindi di un settore molto frammentato, caratterizzato da una bassa produttività per punto di consumo (il fatturato medio annuale è di circa 220.000 euro), spesso ancora a gestione familiare e già caratterizzato da un elevato tasso di turnover (circa il 12%)».
Secondo il rapporto 2023 della FIPE, la federazione dei pubblici esercizi, i soli bar sarebbero 136 mila, concentrati per tre quarti in nove regioni. Si dice «bar» ma ci si dovrebbe chiedere cosa siano questi bar.
Un giorno a Venezia ho conosciuto un docente dell’Accademia di Belle Arti che, stanco di sorbirsi un cattivo caffè e un pessimo croissant, per mesi ha passato a setaccio decine di locali nel centro storico, pubblicando in un suo blog schede dettagliate di ognuno su sapore, prodotti e servizio: il risultato era desolante. Eppure questa è la città che vanta il più antico “caffè” al mondo, il Florian in Piazza San Marco, la matrice di tutti i bar del mondo. Lo stesso esperimento lo si potrebbe fare con il vino o con il cibo e i risultati non sarebbero dissimili (o forse peggio).
È facile pensare che succeda in tutte le città storiche, dove il turismo ha agito, in una paradossale retorica, da diserbante. Sempre a Venezia, l’amministrazione comunale ha di recente rivelato che tra il 2015 e il 2019 si sono registrate aperture di locali al ritmo di 100 l’anno e nel “sestiere” di San Marco si contavano 173 locali e 3590 residenti. A Genova nel 2022 la Camera di Commercio registrava quasi 7 bar ogni mille abitanti, strappando un record a livello nazionale dove la media era a 5,63.
Mi chiedo se in luoghi come questi la priorità sia ancora quella di vendere un buon caffè, un buon vino o del buon cibo, o non invece tenere occupato un immobile purché resti merceologicamente, burocraticamente un esercizio pubblico. Forse la vera risorsa è una duplice rendita, quella dei valori immobiliari e quella del turismo di massa.
Il covid sarebbe potuto essere uno spartiacque. Perché, come tutte le pandemie, ha riscritto molte regole dello spazio economico urbano. Tra queste, anche molte chiusure. A farne le spese è stato soprattutto chi, nel frattempo, si era sobbarcato un affitto d’azienda. I “proprietari dei muri” è difficile che ci rimettano. Oggi il settore a fatica sta recuperando i dati pre-pandemia e alla fine del 2022, sempre secondo FIPE, a fronte di 3890 nuovi bar aperti, hanno abbassato le serrande in 8847.
Nella lunga stagione del virus, la stessa identità di alcune città sembrava crollata d’improvviso, una sorta di vertiginosa perdita di senso: è il caso di Milano e il panico del suo brand di cocktail-city, lunga scia dell’archeologica “città da bere”; o Bologna, che aveva scommesso tutto sul suo essere una CityFood; per non parlare di Venezia, la cui nudità è stato l’emblema dello spaesamento e forse della salvezza dal delirio vissuto fino al 2019.
Nel frattempo, a chi resisteva, forte anche di una gran quantità di sussidi, veniva riconosciuto un utilizzo privato così elastico dello spazio pubblico, i famosi plateatici, da far suscitare non poche tensioni, soprattutto quando hanno continuato a persistere anche alla scomparsa del virus e alla ripresa della vita normale.
Ma come la pandemia abbia cambiato le relazioni dentro questi spazi è ancora tutto da riscrivere.
Ad un’altra pandemia, quella dell’HIV, è impossibile non ritornare. E così ancora una volta la lente gay ci permette di leggere il mondo più grande degli umani. «Negli anni Novanta un nuovo tipo di gay bar (spazioso, raffinato, continentale) fece la sua apparizione nella Soho londinese – racconta il nostro autore – Lo stile comunicava un messaggio chiaro: qui dentro una malattia non te la prendi. I nuovi locali non erano luoghi nascosti, né indugiavano nel dichiarare il loro orientamento. Questi gay bar erano nati per essere tali, concepiti specificamente per spillare soldi ai gay». Salvifico o cinico, un cambio c’è stato.
Ma oggi, all’indomani dalla febbre da Covid, bar e locali hanno riflettuto su sé stessi? Hanno cambiato qualcosa della loro fisiologia, dell’uso degli spazi, delle modalità di utilizzo e delle condizioni di lavoro?
Giampaolo Nuvolati insegna sociologia urbana all’Università Milano Bicocca e ci ha scritto un libro, Un caffè tra amici, un whiskey con lo sconosciuto. La funzione dei bar nella metropoli contemporanea (Moretti&Vitali, 2016): «Nei bar non ci si siede quasi più. Si consuma rapidi e si va via. Succede lo stesso nelle strade della movida – racconta – Si continua a dire “movida”, quella nata nell’aria di libertà del post-franchismo in Spagna: allora aveva un senso, ci si riprendeva lo spazio pubblico. Ma oggi? Oggi resta “movida” nel senso di transitare, affollare temporaneamente la porta del bar, quasi senza entrarci e muoversi da un locale all’altro, senza stabilire alcun legame».
È come se quel luogo che continuiamo a chiamare bar avesse perso la sua ragione sociale. E se un bar perde pure la sua capacità di produrre micro-comunità, quella sua energia architettonica attorno alla “barra”, così capace di far interagire conosciuti e sconosciuti, cosa diventa se non un’attività ferocemente estrattiva attraversata da una folla anonima di passanti?
Forse non è un caso che si assista in modo così forte proprio alla smaterializzazione del bar dove i corpi non sono spinti a sfiorarsi e ad abbracciarsi, non è importante che siano distribuiti né dentro né fuori dalle porte del locale, ma al di là, dritti nella sfera virtuale, a fotografarsi da lontano con la testa dentro una cornice vuota. Forse un bar non ha più interesse né ai prodotti della sua barra né a produrre socialità e l’unica possibilità che ha è di riprodurre e amplificare un’idea virtuale di sé stesso, vendendo solo quella narrazione. «A questo punto ci dovremmo chiedere: se non c’è più il bar per come l’abbiamo conosciuto, da cosa è sostituito? – riflette Nuvolati – Non dallo spazio domestico, naturalmente. Forse solo dallo spazio virtuale?».
Forse quello che ci manca non è un bar, ma la tensione, l’allerta dei sensi, il senso dei gesti e delle parole, la complicità dei corpi e il suo farsi politica, cioè spazio comune e vibrante. In questo sta tutto il valore della lezione gay dei bar raccontata da Jeremy Atherton Lin nel suo libro: «Forse un gay bar è una galassia: ci tiene avvinti impedendoci allo stesso tempo di scontrarci tramite un sottile equilibrio fra slancio e gravità. A me manca, più che una comunità, quell’orbitare».
Immagine di copertina di Elena Mozhvilo da Unsplash