In Italia c’è un museo che indaga la diversità di genere: la Fondazione Querini Stampalia a Venezia
Quando si tratta di diritti LGBTQ+ e promozione della partita di genere l’Italia è fra gli ultimi paesi in Europa in quanto garante di tutele e motore per lo sviluppo di politiche per la diversità. Il 2021 ha visto l’affossamento di un disegno di legge volto a promuovere misure di contrasto alla violenza nei confronti di donne, disabili e persone LGBTQ+; un evento accompagnato da scene di esaltazione da parte di alcuni deputati in parlamento. In Italia essere queer, ovvero avere un’identità non conforme alla massa dal punto di vista del genere e della sfera affettiva, può portare a vivere ai margini della società, privi di tutele e servizi. Non si tratta unicamente di una lacuna normativa, anche perché raramente le leggi sono il punto di partenza per le rivoluzioni sociali ma piuttosto il contrario. Quello italiano è un vero e proprio ritardo culturale che si manifesta nell’impreparazione diffusa da parte delle istituzioni, come scuole, enti sociali e talvolta anche strutture sanitarie, nell’offrire strumenti di conoscenza e gestione della diversità. Pratiche che avrebbero il semplice ma nobile obiettivo di favorire una società coesa e sana nelle sue molteplici sfaccettature. Lo testimoniano i dati preoccupanti che emergono da una recente rilevazione Istat-Unar 2020-2021: una persona non eterosessuale su cinque, rispetto a un campione di oltre 20 mila intervistatə, dichiara di aver subito un’aggressione o discriminazione sul luogo del lavoro.
A enfatizzare questo scenario non vi sono unicamente i fatti di cronaca, come il recente suicidio da parte di una docente Trans poiché allontanata dal lavoro e insultata pubblicamente dalla politica. Episodi come questo – la violenza inflitta a Cloe Bianco non è un caso isolato – sono la punta visibile e dolorosa di un ice-berg che ha radici ben più profonde. Bisogna avere il coraggio di ammettere che in questo paese i modelli di genere trovano ancora conforto in una visione patriarcale in cui il maschio è la figura forte e dominante, la donna quella fragile e debole, la famiglia è quella biologica e tutto il resto è invisibile o da eliminare. Tali costrutti, per quanto messi in discussione dalle rivolte femministe e evolutisi nel tempo, erano il portato culturale di una società machista portata all’estremo dalla propaganda fascista. In quegli anni il mito dell’uomo forte e la famiglia numerosa servivano per rimediare ai danni psicologici ed economici della Prima guerra mondiale. Stando a quanto riportato da alcuni gruppi sociali e politici, oggi la famiglia cosiddetta ‘naturale’ (ovvero definita su base biologica e rigorosamente cis-eterosessuale) serve a mantenere saldi i valori di una tradizione che a ben guardare si è consolidata durante il fascismo, oppure della morale cattolica. Tutto ciò in un paese democratico e teoricamente laico.
Ecco perché è importante alimentare il dibattito su questi temi e scardinare gli stereotipi di genere. Musei, biblioteche e archivi non possono sottrarsi a questa missione educativa e civica poiché sono voci riconosciute come affidabili nell’opinione pubblica.
Giugno è il mese del Pride e nonostante il rischio di rainbow washing sia sempre dietro l’angolo, numerose organizzazioni portano avanti azioni di qualità in favore dei diritti LGBTQ+. Sui social, quantomeno nella mia nicchia, c’è chi si chiede se le istituzioni culturali stiano dormendo. In molti casi, credo di sì. In questi anni di ricerca di istituzioni culturali attive su temi queer ne ho osservate molte anche se poche in Italia. Fanno eccezione i musei di Porta Venezia nel comune di Milano, il Mambo, la Gamec e il Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna.
In questo articolo vorrei parlare della Fondazione Querini Stampalia, un’istituzione veneziana che proprio durante il mese del Pride ha inaugurato nella sua casa museo un allestimento permanente che tratta la diversità di genere. Guardo alla Querini con un bias: in questo progetto sono stata coinvolta come consulente per accompagnare la spinta istituzionale verso l’inclusione con riflessioni di metodo che derivano dall’osservazione del contesto internazionale e la museologia. In Querini ci siamo lasciati ispirare dal British Museum, che da vari anni offre ai visitatori l’opportunità di compiere un itinerario LGBTQ+ fra le sale per apprendere come la diversità di genere e l’amore fra persone dello stesso sesso si siano espresse diversamente in varie culture del mondo. Abbiamo poi guardato con attenzione alla progettualità del National Trust, essendo la Querini una dimora storica con tipologie di collezioni in alcuni casi simili, imparando molto dalla sensibilità e dal coraggio con cui alcune istituzioni hanno trattato il non conformismo di genere e sessuale di epoche passate in relazione alle sfide del presente.
Il non binarismo di genere e la fluidità vengono spesso etichettate come manifestazioni della cultura occidentale contemporanea. La forza di un’esperienza museale sta nella possibilità di allargare la cornice di senso rafforzando o mettendo in discussione alcune credenze. Sono stati infatti i risultati delle indagini svolte sui visitatori di alcune istituzioni inglesi, portate avanti dall’Università di Leicester (Research Centre for Museums and Galleries), a farci comprendere che questo tipo di lavoro non poteva più essere rimandato.
Oggi il museo della Fondazione Querini Stampalia presenta ai visitatori un apparato interpretativo nuovo che fa perno sull’accessibilità come proposta di metodo. La narrazione valorizza gli aspetti storici e sociali della cultura materiale che conserva creando diverse connessioni con il presente. La sala denominata ‘della mitologia’ mette ora in evidenza come sodomia e travestitismo trovassero spazio nella cultura veneziana di Sei e Settecento. La storia di Venezia come città libertina fa capire che i valori della giustizia, astutamente governati dalla politica per mantenere ordine e controllo nella società, cambiano nel tempo ma che ciononostante espressioni di diversità nella sfera amorosa e sessuale siano parte integrante della storia occidentale.
Cosa ci può insegnare questa esperienza? Innanzitutto, che la cosiddetta ideologia del gender è uno spauracchio inesistente creato da chi ritiene che il proprio modello di famiglia o di sessualità siano l’unica forma possibile e che quindi parlare di diversità sia sbagliato. Nei paesi in cui l’educazione affettiva e sessuale viene affrontata a scuola e in un quadro di sex positivity si registrano diminuzioni considerevoli nel numero di gravidanze in età adolescenziale e per contro un innalzamento dell’età per quanto riguarda la media dei giovani sessualmente attivi. L’equazione da risolvere è semplice: maggiore educazione uguale più consapevolezza di se stessi e rispetto reciproco.
Credo che anche in Italia i musei possano intervenire su questi temi mitigando il rischio delle possibili controversie politiche grazie ad alleanze strategiche con il mondo della ricerca e la valorizzazione della componente sociale della cultura materiale. In Querini abbiamo parlato dei possibili rischi sin dalle prime riunioni, ma i riferimenti ai costumi di genere e la sodomia erano talmente evidenti che il team di lavoro – costituito da storiche sociali e dell’arte, esperte di educazione, accessibilità e figure di leadership – si è trovato unanime del ritenere che questi temi non potevano più essere invisibilizzati. Le didascalie della sala mitologica anziché interpretare i dipinti dal punto di vista storico artistico, come è consuetudine fare, raccontano come i dipinti di Luca Giordano raffigurino variazioni di genere prendendo riferimento dai miti classici, come le Sibille e Cefalo e Procri. Il tutto all’interno di una narrazione su più livelli che restituisce spaccati storico-sociali di vita pubblica e privata.
Il lessico impiegato è in linea con la cultura del tempo: le didascalie parlano di amore fra persone dello stesso sesso, sodomia e travestitismo anziché di identità LGBTQ+ poiché all’epoca queste espressioni erano considerate dei comportamenti. Chiaramente sta poi ai visitatori la facoltà di collegare i punti fra passato e presente riconsiderando gli stereotipi e le sfide sociali attuali in un quadro più ampio.
Credo che il processo di cambiamento affrontato dalla Fondazione Querini Stampalia per reinterpretare il proprio patrimonio, sostenuto negli anni dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, possa dare fiducia rispetto al fatto che anche le abitudini più consolidate possano cambiare. Gli ingredienti di questo percorso sono stati la ricerca interdisciplinare sulle collezioni, il lavoro di squadra trasversale interno alla struttura, le relazioni con il mondo della ricerca universitaria e le imprese creative del territorio, messe in sinergia alla volontà istituzionale di diventare una fondazione sempre più accessibile e sostenibile. Venezia, ma non solo, ha bisogno di istituzioni come questa. Non dimentichiamoci che sino a poco tempo fa un classico per la letteratura per l’infanzia, ‘Piccolo blu e piccolo giallo’, venne vietato dalle biblioteche del territorio in quanto ritenuto deviante. Per eliminare i riferimenti alla diversità di genere e al non conformismo sessuale in una città come Venezia bisognerebbe chiudere interi palazzi, fra cui il Grimani e rinunciare a manifestazioni come il carnevale. Come raccontano Manuel Meneghel, fondatore di Venezia Libertina e Tommaso Scaramella, storico e autore di Un doge infame, l’idea di Venezia nel ‘700 era associata alla libertà sessuale.
A ben guardare la trasformazione sociale su questi temi galoppa anche nel nostro paese. Basta prendersi il tempo per dialogare con gli studenti di una qualsiasi classe di scuole medie o superiori in una qualunque parte del paese. Genere, sessualità e affettività, benché regolamentate dalla politica, sono tematiche sempre più rilevanti nella vita dei singoli e collegati a ideali di libertà e benessere.
È difficile negare l’evidenza. C’è bisogno di agire in maniera strutturale e capillare per favorire la creazione di nuovi servizi, anche educativi, a tutela delle libertà individuali. Nel mentre, credo che le istituzioni culturali come i musei, le biblioteche e gli archivi possano comunque avere un ruolo importante. Se la scuola è un terreno politicamente e strutturalmente difficilissimo da innovare, le organizzazioni culturali, per quanto anch’esse macchine burocratiche, si trovano sicuramente in posizioni più agili e libere da vincoli. Cosa stiamo aspettando?
L’estate scorsa, mentre parte della politica e della società italiana si scagliava contro la possibilità di autodeterminazione del genere prevista dal Ddl Zan, non comprendendo che sesso e genere non sono sinonimi ed erroneamente individuando in questo nodo cruciale del decreto una minaccia alle battaglie femministe, diverse persone influenti nel mondo dello spettacolo, nonché varie imprese, presero posizione in difesa dei diritti di tuttə. Davanti a una battaglia culturale e sociale, istituzioni come musei, biblioteche, archivi, ma anche università, scelsero sostanzialmente la strada del silenzio. Cosa accadrebbe se anche solo un terzo di queste organizzazioni includesse l’educazione al genere e alla sessualità nella propria progettualità? Probabilmente ciò non cambierebbe gli esiti degli iter legislativi ma potrebbe fare la differenza nella vita di moltə e sarebbe già moltissimo.