Festival Storie Parallele: i luoghi sono desideri
All’aeroporto di Bari ci viene a prendere Francesco: “Sono quello con la macchina grigia e la maglietta verde, aspettatemi davanti alla scritta Arrivi”. Appena riavvia il motore comincia a raccontarci di lui, della Basilicata, di Salandra.
Gli chiedo: “Lo fai per lavoro?”
“Cosa?”
“Voglio dire: lavori nel turismo?”.
No, Francesco non lavora nel turismo, ma fa il volontario per il festival Storie Parallele di Salandra, la sua città. Dopo diversi impieghi ha trovato stabilità in una delle tante aziende della Basilicata impegnate nell’indotto dell’industria estrattiva. “Un settore complesso, che dovrebbe essere guidato soprattutto dall’etica. Basta poco per cancellare interi luoghi e tradizioni”. L’invito ci è arriavato da Nicola Ragone, regista e direttore artistico del festival, per il talk “Riabitare l’Italia: la dialettica tra città e paesi” a partire dal libro “L’ultima Milano. Cronache dai margini di una città”.
A ogni curva e scollinamento Francesco, classe 1989, ci indica qualcosa: il primo calanco, il colore del terreno, i corsi d’acqua, i paesi che si susseguono. Così facendo scopre che non abbiamo mai visto Matera. Non possiamo non fermarci. “Solo il tempo di un caffè. Passare di fianco alla Città e non affacciarsi sui sassi? Non è concepibile”. Mentre percorriamo il corso del centro storico ci racconta di quando “faceva filone” da Salandra. In paese è difficile tenere nascoste le cose, meglio andare in città.
Nel mentre noi rimaniamo senza fiato: il passaggio dalla periferia ovest di Matera all’affaccio est sui calanchi è stordente. È un sipario che si apre all’improvviso, su una scenografia quasi struggente. Francesco ci tiene alla promessa del caffè, ci fermiamo ad un baretto con uno stretto balcone sulla città vecchia. Senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel panorama, raccontiamo a Francesco del nostro lavoro e, intuita la nostra passione per i luoghi in cambiamento, ci porta a vedere una villa dallo stile eclettico arabesque abbandonata nel cuore del centro storico. È incuriosito da quell’edificio, l’unico incurante rispetto alla trasformazione che Matera sta vivendo in meta del turismo internazionale. È come se chiedesse a noi una spiegazione di questo mistero, a noi che veniamo da fuori.
Abbiamo poco tempo però, Antonella ci aspetta a Salandra con le chiavi del nostro appartamento. Risaliamo in macchina e corriamo verso il paese. Salendo verso la collina su cui è abbarbicata la cittadina incontriamo una macchina. “Quello è Lorenzo! Sono felice che sia tornato quest’anno per il festival. Ha una bambina piccola, sarà arrivato adesso, è bello rivederlo qui.” Squilla il telefono. È proprio Lorenzo, anche lui ha riconosciuto la macchina di Francesco. Si scambiano qualche battuta fraterna e si danno appuntamento per il giorno seguente al festival.
Arrivati davanti al bar della piazza centrale del paese incontriamo finalmente Antonella. È una donna solare, comunica familiarità anche nel suo elegante vestito nero. Ci porta all’appartamento preparato per noi. Un piccolo locale, tutto archi, con solo un affaccio su strada. Il retro, un po’ interrato, sembra quasi scavato nella roccia. “È un gioiellino, i proprietari lo hanno appena ristrutturato. Hanno messo a vista i mattoni degli archi e le pietre. Sapete, li avevano coperti di intonaco perché ‘stavano male’. Solo adesso se ne riscopre il valore”. Ci torna in mente la Vergogna d’Italia, come Togliatti aveva ribattezzato Matera e i suoi Sassi. Una vergogna che è rimasta attaccata a lungo al mondo del sud rurale italiano.
Fatta la veloce conoscenza del nostro appartamento, Antonella ci porta subito nel cuore del festival, in piazza Marconi, al centro del paese alto di Salandra. Mentre saliamo le chiediamo se abita qui: “Siamo di Salandra da generazioni. Abito qui con i miei due figli. Sono ancora giovani per andare. Faccio questo soprattutto per loro…” La frase si perde nei pensieri di Antonella, nel destino quasi obbligato dei figli lontano da casa. Poi riprende: “Stasera il concerto è giù ai calanchi, una quinta scenica incredibile. L’anno scorso, quando per la prima volta hanno fatto un concerto lì, le luci e le loro ombre sembravano animare la collina.” Siamo nel mezzo di un percorso di riscoperta di un luogo. Lo si capisce dalle tante persone del paese con la maglietta del festival, ma anche dallo stupore che traspare dai racconti di chi questo luogo lo ha sempre abitato. Con gli occhi degli altri, oggi miei e di Alice, sembra davvero possibile scoprire qualcosa che chi abita Salandra da sempre non conosceva – un aspetto celato, una risorsa nascosta, un fatto poco considerato. Come se l’occhio ingenuo e stupito dello straniero aiutasse a rinnovare la conoscenza e la comprensione del luogo da sempre conosciuto.
Arrivati in piazza Antonella ci presenta allo stand dell’organizzazione, riceviamo l’immancabile pass da tenere al collo e ci raccontano cosa accadrà nei giorni di festival. Quella sera, dopo la visione dei docu-film, partiranno le navette per i calanchi dove si terranno due performance musicali. Una delle persone a esibirisi è Emma Nolde, cantautrice premiata ad appena vent’anni al Premio Tenco. Ma adesso silenzio, cominciano le proiezioni. A sorpresa vediamo le prime immagini di Futura, il bellissimo documentario di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher. Dopo una veloce cena nei chiostri del Municipio andiamo alle navette per scendere ai calanchi. Lì troviamo l’intero paese che aspetta con noi. Ci godiamo gli scherni in dialetto lanciati dagli anzianiai più piccoli, in attesa febbricitante di scendere per lo spettacolo.
Non siamo soliti attraversare i luoghi durante i festival. Città, parchi naturali, paesi si trasformano, a volte vivendo uno svuotamento da chi li abita e una sostituzione, effimera e momentanea, di persone. Il luogo diventa paesaggio, una quinta scenica, ad uso e consumo delle produzioni culturali che come astronavi vi atterrano. A Salandra stiamo vivendo un’esperienza diversa. C’è il paese, ci sono i suoi giovani, le madri e i padri, le nonne e i nonni in prima fila. Ne abbiamo conferma quando le signore a pochi passi da noi intonano il coro: “Orario, orario! Orario, orario!” per lamentarsi del ritardo con cui i concerti, come spesso accade, cominciano.
Ma la certezza ce l’abbiamo domenica sera, quando comincia il talk. Quando cominciamo ad analizzare i costi abitativi a Milano vediamo le teste muoversi in segno di approvazione. Sono figli, figlie e genitori che sentono di star pagando con le loro economie la rendita delle grandi città: le rimesse “al contrario” a favore di chi o per diritto di nascita o per possibilità di investimento partecipa al grande boom immobiliare di Milano, Roma e Bologna. In poco tempo i quasi 1.000 km di distanza tra Salandra e il capoluogo lombardo si azzerano.
Ci troviamo a parlare di fenomeni che si intrecciano, a trovare il riflesso della città nel paese e del paese nella città. Raccontiamo della città casa, della città scuola e della città porto, di come si declinano a Salandra e di come gli effetti della finanziarizzazione del territorio e delle politiche che la sorreggono stiano attraversando anche i borghi. Filippo Tantillo, che è stato coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne, ci racconta di come le politiche spesso banalizzino il ruolo sociale ed economico di questi paesi, di come il turismo sia oggi visto come l’unica strategia economica possibile – una mono cultura che vede la convergenza tra investimenti pubblici e nuovi settori finanziari, in diversi casi destinata ad essere soltanto partite economiche per grandi soggetti con poco impatto occupazionale e abitativo locale. Interviene il sindaco di Salandra. Ci parla della lotta per fermare l’espansione edilizia, della scelta di riacquistare patrimonio storico per farne edilizia pubblica, della necessità di ripensare una scuola di prossimità per evitare che fin dai primi anni di vita si pensi che il paese sia uno spazio senza possibilità.
Insieme ci diciamo che i luoghi non sono solo bisogni, ma anche desideri. I servizi e gli standard sono necessari, ma non bastano per riabitare l’Italia. Serve anche poter desiderare traiettorie personali e collettive di cambiamento, immaginare e sognare. Il desiderio, lo abbiamo scoperto nelle storie di chi a Milano arriva, è un potente meccanismo di trasformazione del territorio. Questo significa sperimentare tempi e modi nuovi di abitare un borgo – più radicati, ma al contempo flessibili; significa riscoprire la relazione con il luogo per rilanciarne le economie, ma al contempo fare leva su nuovi saperi e tecnologie per sperimentare; signifca ripensare all’accessibilità dei servizi in una prospettiva diffusa e comunitaria, ma al contempo pubblica; significa riaprire un dialogo con la città sviluppando il ruolo di connessione che la cultura può avere.
Quel cerchio di persone intente a discutere a Salandra ci sono sembrate proprio questo: la possibilità di sognare futuri diversi attraverso l’incontro alla pari tra persone che il territorio lo abitano e sguardi che quel territorio lo possono nutrire, senza la pretesa di esserne esperti.
Immagini di Jacopo Lareno Faccini