Quando si prova a decriptare il senso del termine partecipazione non si può far altro che provare ad immaginarsi una prassi possibile. E non è un caso che dopo partecipazione appaia naturale affiancare il termine immaginazione. E le due parole si legano proprio sulla base di una prassi: questo vuol dire che va subito sgombrato il campo dalla retorica che vede la partecipazione semplicemente come il gesto dei buoni, l’esemplificazione della vacuità degli ingenui. Una retorica che ha asfissiato negli ultimi anni in modo particolare la politica, la società e anche il mondo della cultura che è apparso non solo fragile e incapace di reagire a questa accusa, ma anzi è sembrato farsi sedurre e in parte trovarsi felice di essere accolto ad un tavolo questo sì immaginario perché nulla in verità ha prodotto sotto i termini di efficacia e di produzione. Quindi risulta abbastanza evidente come la retorica che immagina nella migliore delle ipotesi una competizione slegata dalla partecipazione non ha fatto altro che ridurre gli spazi di realtà, affidando a vecchie pratiche (anche clientelari) scelte spesso strategiche.
La partecipazione infatti è strettamente legata a competizione, partecipare è infatti il primo passo fondamentale per rendere possibile qualsiasi competizione, è banale dirlo, ma forse è il caso di ricordarselo, anche perché la conseguenza di questo legame è la generazione di un positivo conflitto da cui poi non possono che derivare contraddizioni e confronti. Quindi una cosa è immaginarsi la partecipazione come forma di annichilamento e normalizzazione, altra cosa è invece pensare che la partecipazione e la collaborazione siano i punti di partenza necessari ed egualitari per un confronto e per un conflitto vitale e produttivo nel senso più ampio e felice del termine.
Punto di riferimento resta da sempre in Italia la figure del sociologo Danilo Dolci che con le sue pratiche maieutiche di coinvolgimento ha letteralmente ribaltato i termini retorici vigenti proponendo forme di liberazione e autodeterminazione che mai prima d’allora il mondo rurale presso cui operava aveva mai visto, e tanto meno pensato possibili.
L’azione di Danilo Dolci viene definita in poche righe efficacissime da Giuseppe Barone in chiusura al bel volumetto pubblicato da Edizioni di Comunità (da giovedì in libreria), L’educazione:
Quello che è davvero rivoluzionario è il suo metodo di lavoro: Dolci non si atteggia a guru, non propina verità preconfezionate, non pretende di insegnare come e cosa pensare, fare. È convinto che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea di progresso non nega – al contrario, valorizza – la cultura e le competenze locali.
L’educazione di Danilo Dolci riprende due testi fondamentali che sono figli di un’esperienza che ad oggi ancora rappresenta un punto di riferimento per chi vuole pensare all’attivismo politico e culturale sul territorio, e di una riflessione sulla propria azione e le sue prospettive.
Nel primo testo, Il centro educativo di Mirto, Dolci racconta l’esperienza che lo vede protagonista in Sicilia nei primi anni Settanta:
Come riuscire a sviluppare la cultura locale pur aprendola al meglio del mondo? Come produrre nuove indicazioni e occasioni? Occorreva trovare altre leve che scendessero più a fondo nelle esigenze basilari di questa zona. I problemi dell’educazione, tradizionalmente elusi, ci imponevano la necessità di nuovi interventi determinanti, come l’avvio di un centro educativo e nuove iniziative artigianali e artistiche.
Dolci intende l’educazione come una forma di trasformazione del futuro: messa in strada di un’idea che diventa subito pratica possibile attraverso il coinvolgimento che necessita di tecniche e modalità d’ascolto di volta in volta dedicate a comprendere le specificità e il senso delle richieste che vengono avanzate.
La partecipazione infatti è strettamente legata a competizione, partecipare è infatti il primo passo fondamentale per rendere possibile qualsiasi competizione.
Vale tutto, non esiste superficialità o incompetenza perché raggiungere il cuore degli intervistati significa cogliere le loro necessità che certamente andranno poi tradotte e definite, ma senza tradimenti ed esclusioni. Anzi le discussioni animate non mancheranno e saranno il sale per costruire una consapevolezza comune che vedrà tutti coinvolti, nessuno escluso.
Che i ragazzi si preparino a una riunione in cui ciascuno racconti nuove barzellette, può risultare molto più utile – e non solo allo sviluppo delle capacità espressive – di una solenne lezione di letteratura. Pur attento a una adeguata comunicazione coi ragazzi, non un insegnante di fotografia, ma il fotografo-artista, se ne va la mattina con il gruppo – ciascuno fotografa – in montagna o al mare o in campagna, o nelle strade dei quartieri, nelle case: ciascuno osserva, ciascuno riprende, ciascuno sviluppa, e insieme poi discutono i risultati. La scelta dei soggetti o dei fenomeni da osservare è decisa insieme (una delle scelte potrà anche essere che ciascuno fotografi cosa vuole); e la scoperta può essere ripresa, approfondita. In fondo a tutto, la tensione dei perché.
La tensione dei perché è la sintesi esatta di quel ciascuno che diventa di volta in volta insieme e viceversa. Quella che propone Dolci è un’educazione di scoperta che parte dalla consapevolezza dei propri sensi fino alla trasmissione al prossimo della propria comune diversità. Tutto questo avviene con la maieutica (termine instabile e messo in discussione più volte dallo stesso Dolci), fino alla destrutturazione del modello classico e impositivo di lezione.
A questo testo come detto ne segue un altro di taglio autobiografico eppure totalmente intrecciato al primo. Ciò che ho imparato, in cui Dolci analizza su di sé il senso del suo lavoro ed è un sé che appartiene a chiunque voglia aderire ad una pratica di ascolto e di partecipazione.
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L’educazione di Danilo Dolci è un testo piccolo, breve eppure fondamentale oggi proprio per tornare a ripristinare un ordine del discorso o potremmo anche dire un discorso tout court mentre assistiamo ad uno spopolamento del linguaggio che sembra sempre più artefatto, invecchiato e logorato da retoriche prive di corpo quanto da pregiudizi privi di sentimento. E verrebbe proprio da pensare a parole ormai deprivate da ogni immagine possibile.
È necessario ritornare a dare libertà e spazio al pensiero sostenendolo all’interno di un dialogo che evita la performance ostile del tutto dire e che provi invece a portare con sé l’ascolto, che eviti la tecnicalità sterile e ottusa della competenza a favore dell’immaginazione che in purezza è sempre valore e comprensione.
Partecipare è in sostanza pretendere di esserci prima che di apparire, ed è quello che con cheFare proveremo a realizzare tra oggi e domani, seguiteci. Anzi partecipate.