Forma e sembianze dei community hub

Forse il termine community hub rischia di invecchiare precocemente come altre parole chiave che provano a catturare gli elementi di valore che scaturiscono dal vasto e fluido campo dell’innovazione sociale. Ma prima di imboccare il viale del tramonto – solitamente lastricato di buone ragioni che ne spiegano il fallimento – crediamo ci sia spazio per un’euristica che faccia da “stress test” rispetto alla capacità di catalizzare processi di innovazione che sono alla ricerca di una infrastruttura. Sì, perché di questo stiamo parlando.

Di un’installazione sui generis rilevabile, con una certa frequenza, nell’ambito di progettualità che rigenerano spazi ad “uso collettivo” agendo su elementi di valore e di senso. Secondo Claudio Calvaresi “si tratta di spazi che sono abbandonati o sottoutilizzati in cui si svolgono funzioni ibride che hanno un esito di natura collettiva nell’ambito della cultura, del lavoro, del welfare, dell’inclusione sociale e che hanno una forte relazione con la comunità locale di riferimento”.

Altre denominazioni condividono molti elementi con la precedente come il fab lab dei servizi delineato da Daniela Selloni “per l’infrastrutturazione di attività informali in servizi di interesse pubblico, descrivendo un processo potenzialmente replicabile in altri contesti, che parte dalla creazione di comunità, passando per le fasi di co-progettazione, co-produzione e co-gestione”. Ad altre latitudini ed in contesti parzialmente diversi queste forme di organizzazione degli spazi per ridisegnare servizi – e, a scalare, politiche – di interesse pubblico sono parte integrante di progettualità di sistema. Ad esempio per Locality, una piattaforma operativa nel Regno Unito che accompagna processi di rigenerazione comunitaria di beni immobili, i community hub condividono le seguenti caratteristiche.

Community hubs are multi purpose, providing or hosting a range of activities and services used by lots of different people. The range of services reflect local need, and may be delivered by local people, other organisations, or public agencies.

Community hubs provide services for the community, but also by the community. Local people are involved both in making decisions about how services are run. Typically, community hubs are run and managed by a dedicated community organisation.

Community hubs utilise local buildings and land to provide a base for activities and services.

Community hubs need an income to be sustainable, and ensure they will be there in years to come. A range of income sources is usually required to cover all of the costs for looking after the building, and running the activities, e.g. grants, donations, hiring out space, delivering contracts, etc.

Più che definizioni sono linee guida dalle quali emergono elementi ricorrenti in senso descrittivo come l’accentuata polifunzionalità degli spazi e delle attività; l’attenzione specifica alle competenze di accompagnamento per favorire una partecipazione estesa ed efficace; un assetto di governance che vede coinvolti diversi attori e incentrato su bisogni e aspirazioni di coloro che, a vario titolo, abitano il community hub; una modalità, prima che una vera e propria forma giuridica, di natura imprenditiva nella gestione dello spazio, facendo leva su una pluralità di risorse.

Spostando invece l’attenzione sul piano funzionale, i community hub riconoscono come riferimento principale del proprio operato una comunità che viene ingaggiata non semplicemente come fattore di legittimazione o soggetto di governance “di ultima istanza” (su decisioni di sopravvivenza e/o dal forte valore simbolico), ma come modalità di azione collettiva che svela “in corso d’opera” l’autentica natura di interesse generale dell’iniziativa, non attribuita quindi per sola via normativa e top down. Inoltre, nei community hub è possibile rilevare una presenza significativa di spillover legati a economie che, in molti casi, non sono “proprie” – ovvero frutto di processi produttivi internalizzati in modelli di servizio a gestione diretta – ma piuttosto derivano dall’abilitazione intenzionale di altre economie esterne ed interne che non sono pianificabili, ma non sono nemmeno il risultato di esternalità casuali. Infine nelle pratiche di community hub si nota un’enfasi sul tema della scalabilità del modello, intesa non tanto come replicabilità, ma come adattabilità al contesto pur partendo da una struttura relativamente definita che combina dimensioni spaziali, modelli di codesign dei servizi e ruoli di community building. Un percorso di crescita che, in sintesi, procede, più che per processi di replicabilità (scaling wide), secondo modalità di radicamento (scaling deep).

Proseguendo nell’analisi e guardando ai community hub in chiave più spiccatamente progettuale – cioè alla destinazione d’uso degli spazi – possono essere individuati almeno quattro moduli chiave.

Coproduzione: in queste strutture esiste uno spazio, più o meno rilevante, dedicato a organizzare processi produttivi nei quali intervengono diversi attori secondo modalità che tendono a superare i classici comparti stagni rappresentati dai ruoli di produttore e consumatore, ma anche di finanziatore e spesso persino di policy maker. Come all’interno dei laboratori di produzione biologica della cooperativa Gruppo 78 in Trentino, dove operatori sociali, volontari, persone con disagio psichico, cittadini attivi contribuiscono ad alimentare una supply chain da forte valore sociale e ambientale.

Marketplace: nei community hub non è infrequente rilevare spazi di natura commerciale destinati alla vendita di beni e servizi, come nel caso del negozio di grafica e cartografia che introduce al fab lab e coworking di Lino’s & Co a Verona. Anche in questo caso la dimensione di mercato è fortemente caratterizzata da una dimensione sociale e ambientale esplicita che contribuisce a ridefinire profondamente la catena di produzione e di redistribuzione del valore.

Produzione culturale: nei community hub esiste spesso un calendario fitto di eventi e iniziative di natura politico-culturale che svolge un’importante azione di sense-making rispetto al ruolo, alle funzioni e alle attività esercitate non solo negli spazi comunitari in senso stretto, ma anche nel più ampio contesto socio-economico che, nell’ottica del community hub, rappresenta non un ambiente di riferimento ma piuttosto un prolungamento che espande il raggio di azione dell’organizzazione comunitaria. Una conferma in tal senso è la fitta produzione ricreativo-culturale delle case del quartiere di Torino, finalizzata a diversificare e inspessire i legami con il territorio.

Informalità: la struttura del community hub prevede la presenza di spazi e tempi non codificati da setting e “ordine del giorno”. Sono ambiti nei quali è possibile coltivare quegli elementi di natura conversazionale che Elinor Ostrom definiva cheap talk, che fanno da humus per la costruzione di legami fiduciari e predispongono all’agire in senso cooperativo. Come nel complesso di strutture CavaRei rigenerate nel parco Cava a Forlì dalle cooperative sociali Il Cammino e Tangram per farne centro di servizi e luogo di aggregazione.

I moduli progettuali dei community hub introducono un ulteriore livello di analisi perché lasciano intravedere più di un legame con la teoria dei beni comuni. Secondo Sacconi e Ottone, infatti, i commons rappresentano non una particolare categoria di beni, ma piuttosto una infrastruttura caratterizzata dai seguenti tratti distintivi: i) modalità di accesso aperta e non discriminatoria, non limitando la capacità di fruizione e al tempo stesso “evitando fenomeni di congestione, sovrasfruttamento e utilizzo opportunistico dell’infrastruttura”; ii) determinazione del valore dell’infrastruttura, guardando non alle sue qualità intrinseche, ma “alle attività e ai processi produttivi di beni ulteriori che essa rende possibile a valle del suo utilizzo”; iii) capacità dell’infrastruttura di essere adattata per molteplici impieghi e per la produzione di diverse categorie di beni (pubblici, sociali, meritori ma anche privati), consapevoli del fatto che “tali beni non possono essere previsti in anticipo e hanno inevitabili effetti esterni positivi sul altri utenti”.

Se è vero che l’abbandono e il sottoutilizzo di risorse, immobiliari ma non solo, rappresenta una delle principali “sfide paese” allora risultano particolarmente significativi tutti quei processi di rigenerazione finalizzati alla produzione di asset comunitari, intesi come luoghi destinati a iniziative che incidono positivamente sui livelli di coesione sociale e che possono assumere la forma di community hub. Come emerge dal rapporto sui luoghi dell’innovazione curato da Fabrizio Montanari e Lorenzo Mizzau per fondazione Brodolini esistono esperienze giunte a un buon livello di maturazione per le quali è importante “provare a definire un modello organizzativo efficace che trasformi le potenzialità sulla carta in flussi di attività e progetti efficaci”.

Un primo contributo riguarda i dispositivi strategici e di policy – dai regolamenti sui beni comuni urbani, alla riforma del terzo settore; dal federalismo demaniale alle strategie di responsabilità sociale di importanti attori economici come Ferrovie dello Stato – che, pure in un quadro disorganico, possono sbloccare un potenziale su larga scala. Mentre un secondo importante passaggio riguarda l’affermarsi di nuovi modelli di imprenditoria comunitaria in grado di mantenere in equilibrio istanze di partecipazione con il dialogo istituzionale attraverso la produzione di beni e servizi.

Una rigenerazione diffusa, accessibile e sostenibile in grado di generare un impatto positivo e rendicontabile a vari livelli: benessere e qualità della vita delle comunità locali, investimento di risorse economiche per un nuovo sviluppo locale, creazione d’impresa a finalità sociale, occupazione attraverso nuovi lavori, produzione di conoscenze trasversali e attivabili. Quel che forse ancora manca all’ecosistema della rigenerazione sociale sono le risorse da destinare per l’accompagnamento alla nascita e alla diffusione dei suoi hub. Prima che non siano più di moda.