Comunità e reti di pratiche della mobilità urbana

La mobilità è un tema centrale per la qualità e lo sviluppo delle città. Che si tratti di spostamenti frequenti alla scala locale o sulla lunga distanza, la mobilità è un fenomeno che domina sempre più le società contemporanee, caratterizzato da performance economiche rapide e spostamenti flessibili (Elliott e Urry, 2013).

Se un tempo gli spostamenti prevalenti erano quelli dei pendolari (negli orari di punta e ai tragitti casa/lavoro), oggi il pendolarismo quotidiano è solo una piccola parte all’interno di pratiche più complesse.

Ci si muove per lavorare, per accedere a servizi, per gestire il proprio tempo libero. La mobilità è fondamentale per partecipare alla vita sociale, tenendo insieme attività differenziate, in luoghi spesso distanti tra loro, su un arco temporale esteso ben oltre le ore di punta (Cass et al., 2005). Allo stesso tempo, la mobilità non è solo movimento nello spazio, grazie ai servizi che garantiscono l’accesso a beni e prestazioni anche a distanza.

La diffusione di tecnologie che riducono continuamente i costi legati alle distanze spaziali è destinata a cambiare radicalmente i meccanismi dell’economia: secondo Bain & Company, sará questa “la prossima grande trasformazione dell’economia”.

La trasformazione dei sistemi di produzione e distribuzione dei beni, unita a nuove dinamiche insediative, andrà a trasformare anche le città in cui viviamo, ridefinendo i processi di produzione (basti pensare alla stampa in 3-D), i sistemi di distribuzione (grazie ai droni, ad esempio), l’organizzazione del lavoro e le scelte localizzative (l’accesso diffuso ad Internet potrebbe permettere di superare le tradizionali concentrazioni di capitale umano che sono esclusiva di luoghi come Londra, New York o la Silicon Valley).

Chi fa innovazione e investimenti nella mobilità? Non le istituzioni pubbliche – o non solo, almeno. Le città europee sono bloccate dall’empasse della spending review e non riescono ad investire nuove risorse nei servizi di trasporto collettivi e nelle infrastrutture utili a gestirne la logistica. A dircelo è l’OCSE, che negli ultimi cinque anni ha registrato per oltre il 40 % degli enti infrastatali dell’Ue un calo degli investimenti infrastrutturali, con una diminuzione superiore al 10 % nel 38 % delle regioni.

Se non è solo il pubblico a potersi impegnare in questo senso, è anche vero che oggi sussistono le condizioni perché l’innovazione tende ad essere nelle mani di pochi, grandi soggetti. Così, i protagonisti di questo cambiamento sembrano essere soltanto le auto elettriche di Tesla, i droni di Facebook, i razzi di SpaceX e le problematiche automobili driverless di Google. O degli emergenti attori della sharing economy – da Uber a BlaBlaCar, per citare i più famosi. A cui va attestata però l’attivazione di validi servizi alternativi, specialmente su quei percorsi e in quegli orari dove la scarsità di domanda non permette di ricorrere a servizi tradizionali. Se è interessante il fatto che chi esprime una domanda di mobilità al tempo stesso contribuisce a darne una risposta (basti pensare alle auto di Bla Bla Car che, altrimenti, viaggerebbero col solo conducente), occorre ancora sviluppare una chiara cornice che definisca queste nuove forme di lavoro digitale. Il problema è già stato sollevato da più parti (ne parlano diffusamente i francesi di Ina Global) e il governo ci sta in questi mesi lavorando.

Senza grandi investimenti ma con interessanti innovazioni è interessante osservare il mondo delle comunità di pratiche basate sulle nuove tecnologie e sui social media, suggerendo competenze di movimento diverse dal passato, che partono “dal basso”.

Si tratta di esperienze che, al di là del trendy interesse territorialista abbinato al tecno-entusiasmo, garantiscono nuove risposte ai bisogni della mobilità, mettendo in gioco risorse e soluzioni non scontate.

Riescono insomma a tenere insieme innovazione sociale e tecnologica, risolvendo l’apparente dicotomia tra i due termini (Turkle, 2011). Ci insegnano, o almeno ci portano a riflettere, su quali competenze sono capaci di modificare la percezione delle città e lo spazio urbano. Per tre di motivi:

1) forniscono nuove capacità e formule di comunicazione. Le applicazioni legate al turismo e al commerciale non solo forniscono informazioni sempre più ricche, ma allo stesso tempo spostano e raccontano valori urbani, legati all’esperienza (magari non solo al grido di “In Trip Advisor we trust”).

Basta guardare app di piattaforma informativa multifunzionale di mobilità come CityMapper, presente in trenta grandi città del mondo. Per indicare i migliori percorsi in città, l’app tiene insieme big data e i percorsi realmente coperti dalle persone: i dati sono una gran cosa, ma da soli non bastano a capire in che modo le persone si spostino davvero in città. Grazie a questi servizi e canali di comunicazione emergono informazioni che forse ”complicano il movimento” (Vecchio, 2015), rappresentando e guidando flussi più complessi, suggerendo soluzioni di mobilità più efficienti, al di là della prossimità spaziale ed efficienza nei tempi di spostamento.

Capacità e reti di pratiche per nuove tecnologie civiche di cordinamento tra Open Government, Big Data, Makers, le politiche per le Smart City, la Sharing Economy e l’innovazione sociale. Un concetto colto dagli organizzatori della prossima summer school sul tema organizzata per Maggio prossimo da Rena, Fondazione Bruno Kessler e TopIx.

2) mobilitano risorse latenti. Il mondo del ciclismo urbano è ricco di esperienze di attivismo e partecipazione, dalle Critical Mass alle ciclofficine. Se a questi elementi si aggiunge il contributo della tecnologia, ecco iniziative come il milanese BikeDistrict, un servizio di mappe in grado di indicare quale sia il percorso migliore per chi voglia spostarsi in bici.

Le risorse conoscitive che gli entusiasti della bicicletta hanno accumulato in anni di uso della rete ciclabile vengono messe a disposizione di chi, potenzialmente, potrebbe voler usare la bici ma non si sente nelle condizioni di farlo. Un aspetto fondamentale per un mezzo di trasporto ancora largamente percepito come insicuro e, perciò, non utilizzato.

Un opportunità, quella della mobilità lenta che ben si presta anche per i modelli di community ownership (Tricarico e Le Xuan, 2014) in grado di attivare i cittadini in percorsi imprenditoriali.

Piccoli esempi nel nostro paese sono le Ciclofficine, veri e propri esempi di governance e azione locale della mobilità, fatta di patti di collaborazione tra amministrazioni e cittadini intraprendenti.

Queste iniziative stanno rivoluzionando il mondo della mobilità lenta, perché garantiscono spazi a bassa soglia di accesso a tutte le categorie di cittadini che vogliono usufruire di manutenzione ed acquisto di biciclette.

A Taranto le Ciclofficine Tarantine, sono diventate insieme al Centro Sociale Officine Tarantine, un punto di riferimento per i movimenti culturali e giovanili della città. Una sorta di laboratori del “futuro artigiano” (Micelli, 2011). Cosi lo è a Milano in diverse realtà dalla Cuccagna alla Stecca e via di scorrendo in tantissime realtà urbane italiane.

3) facilitano le modalità di accesso ed utilizzo di determinati servizi, rendendo più efficiente l’uso di risorse già mobilitate. La mobilità non è fatta di sole opportunità di spostamento, ma sono fondamentali anche le competenze richieste per poterne fare uso (Kaufmann et al, 2004): anche la semplificazione allora gioca a favore di migliori opportunità di spostamento.

É il caso di MaaS, società finlandese che si presenta come il Netflix della mobilità: mettendo a sistema tutte le alternative di trasporto disponibili nel paese scandinavo, la compagnia intende offrire un’app che permetta indistintamente di utilizzare trasporti pubblici, taxi e auto a noleggio con un unico abbonamento. La società mette a disposizione una nuova cornice entro cui include opportunità di spostamento già esistenti: non introduce un nuovo servizio, ma, con una notevole semplificazione, permette di utilizzare le alternative a disposizione come un unico servizio.

Su cosa riflettere? Anche da una rassegna incompleta, emerge che la mobilità è uno dei campi più fertili per la sperimentazione di soluzioni innovative. Proprio perché aprire a creative soluzioni per le esigenze quotidiane di spostamento vuol dire spesso garantire effetti ambientali, economici e sociali particolarmente desiderabili.

Nonostante la ricchezza di sperimentazioni e pratiche, tali esperienze faticano ad entrare nel dibattito pubblico, a livello accademico, tecnico e politico.

Gli approcci della politiche pubbliche hanno grandi difficoltà ad adattarsi a pratiche di mobilità sempre più diversificate, che si muovono al di fuori di territori tradizionalmente definiti.
Prevale infatti un’attitudine tecnicistica, basata su strumenti che prevedono la domanda di mobilità e calibrano conseguentemente l’offerta (Martens, 2006). Ma si tratta di un approccio problematico, che trascura le conseguenze sociali della mobilità (van Wee, 2011) e non riesce a seguire la continua evoluzione delle pratiche di mobilità (Pucci, 2016).

In Italia mancano poi le condizioni che potrebbero davvero favorire lo sviluppo di vere soluzioni alternative grazie all’uso della tecnologia. Bassa connettività e scarse competenze digitali continuano a determinare un tasso di digitalizzazione dell’economia e della società più basso rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea. Viene così trascurato un potenziale innovativo molteplice:

Disponibilità di open data, su cui si basano molte app per la mobilità;
Adozione di tecnologie che potrebbero migliorare la produzione e la distribuzione delle merci;
Diffusione dell’e-commerce;
Investimenti sul capitale umano, elemento chiave per lo sviluppo di soluzioni innovative.

L’innovazione insomma non può far leva soltanto sulla promozione di buone idee. Non basta avere una soluzione tecnicamente fattibile, ma occorre anche che sia socialmente riconosciuta come utile e che i soggetti politici siano pronti a promuoverne la diffusione (Feitselson e Salomon, 2004)

In conclusione, sono sempre di più le comunità di pratiche che, grazie alla tecnologia, forniscono nuove risposte a domande di mobilità in continua evoluzione. Rispetto ad interventi pesanti e irreversibili come infrastrutture tradizionali, i risultati possono essere migliori e, allo stesso tempo, più efficienti.

Allo stesso tempo, maggiori vantaggi per la collettività possono emergere grazie a pratiche di mobilità che generino minori esternalità negative. Pur con alcune cautele (Shearmur, 2012), le città si confermano come privilegiato luogo di innovazione, sia perché offrono quelle condizioni che permettono di sviluppare soluzioni innovative (economie di scala, accesso alle risorse, scambi e interazioni), sia perché sono in prima linea per adottarle, grazie alla presenza di popolazioni urbane variegate.

Nonostante le condizioni di contesto non siano sempre favorevoli, l’attenzione nei confronti di queste esperienze è continuamente in crescita – tanto da parte delle istituzioni, quanto da parte dei potenziali fruitori. Mentre aumenta il riconoscimento attribuito a queste esperienze, diventa fondamentale sviluppare un approccio critico: andando oltre l’entusiasmo per le nuove tecnologie e per le iniziative che nascono dal basso, occorre quindi capire sempre meglio quali forme di innovazione possano essere davvero significative nel campo della mobilità.

Immagine di copertina di ph. Ryoji Iwata da Unsplash