La partecipazione come medium artistico

Seppure a livello di formalizzazione teorica l’arte partecipativa venga dopo quella relazionale, considerando sempre la labilità della critica post anni ’90, i suoi processi sono presenti nel lavoro di molti artisti di inizio anni ’90 che poi approderanno a pratiche socialmente impegnate. Relazione e partecipazione sono due termini “delicati” che, seppur nelle loro teorizzazioni vengono ben distinti da determinate modalità operative, si trovano accomunati all’interno dei processi quotidiani, per forza di cose, in quelle che sono, per l’appunto le normali relazioni sociali.

La differenza teorizzata tra arte relazionale e partecipativa sta nella dimensione dell’intervento artistico inteso, da una parte come interno alla “struttura” artistica, e dall’altra come esterno. In questa dimensione di esterno-interno gioca poi un ruolo fondamentale il rapporto con il pubblico, ovvero, come esso venga ancora inteso in questi termini all’interno dell’arte relazionale e come invece venga visto come parte attiva nell’arte partecipativa.

La partecipazione non può darsi senza una dimensione sociale costituita da un rete di relazioni, eppure quello che si è venuto a creare a livello critico negli ultimi vent’anni è stata proprio la separazione di determinate pratiche attraverso sfumature e definizioni date a priori o a livello curatoriale. Sono dei recinti di senso estetico che in molti casi non permettono di vedere la permeabilità del pensiero critico, ma rappresentano allo stesso tempo sottili spostamenti all’interno dei quali le distinzioni si giocano sui concetti di spazio, spettatore e rapporto con l’istituzione. Queste tre coordinate prese singolarmente, possono delineare lo sviluppo di una certa pratica in una dimensione anziché nell’altra.

Pubblichiamo un estratto dal saggio di Emanuele Rinaldo Meschini, Comunità, spazio, monumento (Mimesis)

 

Pertanto, è complesso parlare di questi tre elementi – relazione, partecipazione, impegno sociale – come compartimenti stagni anche perché, come cercherò di dimostrare, le connessioni sono molteplici. A livello di cronologia possiamo dire che una certa co- scienza critica sulla partecipazione si viene a creare in maniera più formalizzata nella prima metà degli anni 2000. A questa data si sono già sviluppati molti interventi di tipo SEA e relazionali e dunque per forza di cosa, l’arte partecipativa li ingloba e li seziona.

All’interno del mondo artistico, il termine partecipazione ha iniziato ad assumere diverse definizioni a secondo dell’angolazione da cui si guarda e si fa vuol far iniziare un determinato discorso. Il curatore statunitense Tom Finkelpearl, nel suo What we Made. Conversation on Art and social Cooperation (2013), scrive: “However, in recent texts on this sort of art, critics tend to distinguish between projects that are designed by artists and projects that are created through dialogue and collaboration with participants. For example, Grant Kester, an art historian at the University of California, San Diego, differentiates between collaborative, “dialogical” works and projects based on a scripted “encounter.” Claire Bishop, an art historian at City University of New York, identifies “an authored tradition that seeks to provoke participants and a de-authored lineage that aims to embrace collective creativity.”And the critic and curator Claire Doherty describes “those practices which, though they employ a process of complicit engagement, are clearly initiated and ultimately directed by the artist… and those which, though still often authored by the artist or team, are collaborative—in effect ‘social sculpture’”1“Tuttavia, negli ultimi testi su questa tipologia di arte, i critici tendono a distinguere tra progetti ideati da artisti e progetti creati attraverso il dialogo e la collaborazione con i partecipanti. Ad esempio, Grant Kester, storico dell’arte presso l’Università della California (San Diego), distingue tra opere collaborative, ‘dialogiche’ e progetti basati su un ‘incontro’ prestabilito. Claire Bishop, storica dell’arte presso la City University di New York, identifica ‘una tradizione autoriale che cerca di provocare i partecipanti e un una corrente invece, che abbracciare la creatività collettiva’. E ancora, la critica e curatrice Claire Doherty descrive “quelle pratiche che, sebbene impieghino un processo di coinvolgimento implicito, sono chiaramente iniziate e portate avanti dall’artista… e quelle che, sebbene ideate dall’artista o da un gruppo, sono collaborative ed in effetti “scultura sociale.” [Traduzione mia] T. Finkelpearl, What we Made. Conversation on Art and social Cooperation, Duke University Press, Durham & London, 2013, p. 4..

La differenza teorizzata tra arte relazionale e partecipativa sta nella dimensione dell’intervento artistico inteso, da una parte come interno alla “struttura” artistica, e dall’altra come esterno

Un criterio fondamentale all’interno della partecipazione stessa, come sottolinea Finkelpearl, è quello che riguarda i progetti interamente realizzati da artisti e quelli invece realizzati attraverso un processo di collaborazione e dialogo con i partecipanti. Nella partecipazione infatti vengono ad incontrarsi più livelli di lettura. Ad esempio i progetti di Rirkrit Tiravanija, artista cardine delle teorie di Bourriaud, creano relazioni attraverso la preparazione di zuppe liofilizzate all’interno di spazi galleristici o museali. Tale relazione è partecipata, nel senso che gli spettatori prendono un ruolo attivo nella realizzazione dell’operazione stessa e le interazioni che si generano tra spettatore e artista allo stesso tempo sono il risultato dell’operazione.

Allo stesso modo però il lavoro di Tiravanija non può dirsi partecipativo (participatory) al pari di quello realizzato da Jeremy Deller intitolato The Battle of Orgreave (2001) – reenactment delle proteste del 1984 da parte dei minatori inglesi nella città di Orgreave – in quanto manca la dimensione esterna e specifica dell’altro inteso come elemento necessario per la costruzione del progetto. In entrambi i casi le operazioni sono pensate a monte dagli artisti ma nel caso di Tiravanija la partecipazione è spontanea lo spazio d’azione è limitato alla galleria o all’evento artistico in se. Soprattutto la spontaneità delle reazioni si costruisce a partire dall’unicità di quel momento e non ha alcun legame con esperienze pregresse se non quello del cucinare in senso “universale”. Nel caso di Deller, invece, pur essendo i partecipanti comparse con un copione, ruolo e specificità sono assolutamente necessari ed è proprio questa consapevolezza che attiva una partecipazione ben mirata che risulta essere cruciale per la riuscita dell’intervento.

Ancora più paradigmatica è la differenza tra i progetti di Tiravanija e il contemporaneo progetto degli Haha, FLOOD (1993) realizzato per Culture in Action in quanto oltre alla differenza tra relazionale e partecipativo viene inserita la differenza del socialmente impegnato. Come nel caso di Tiravanija il luogo scelto dal gruppo Haha – per sviluppare un centro di informazione e prevenzione con annesso orto idroponico in grado di coltivare frutta e verdura priva di pesticidi da consegnare a persone malate di AIDS tramite un circuito di associazioni locali attive sul tema – era uno spazio privato allestito e organizzato come una normale galleria d’arte. Anche in questa operazione le persone crearono relazioni, ma quello che cambiò fu l’intenzionalità. FLOOD è un progetto socially engaged perché non si limita alla relazione e i suoi partecipanti non recitano una parte bensì diventano coprogettatori gestendo direttamente l’intervento insieme agli artisti al fine di instaurare una rete professionale in grado di sostenere il progetto oltre la conclusione dell’evento artistico stesso.

L’intenzionalità sta nel porsi come luogo di cura pratica, tanto attraverso la cura dell’orto quanto attraverso il punto informativo rendendo così il progetto coerente fin dall’inizio e lasciando al contempo una processualità aperta. Il pubblico di FLOOD sono state le persone del quartiere nella lora trasformazione da os- servatori passivi, o attori occasionali, in agenti di cambiamento dove il primo cambiamento è avvenuto proprio nel passaggio di status: da pubblico a comunità.

L’intenzionalità sta nel porsi come luogo di cura pratica

Riguardo alle definizioni che nel corso degli ultimi vent’anni hanno incluso sotto la sfera del sociale diverse pratiche, Finkelpearl tende a puntualizzare un concetto espresso da Bishop nel suo testo del 2006. La puntualizzazione riguarda il termine social collaboration al quale il critico americano preferisce social cooperation: “First, in art criticism, collaboration often refers to teams such as Gilbert and George or collectives such as Group Material. It implies a shared initiation of the art, and start-to-finish coauthorship. […] Second, calling the work cooperative situates the practice in the intellectual zone of human cooperation. There has been significant research in recent decades in the fields of evolutionary game theory, rational and irrational choice theory, theories of reciprocity and altruism, the new cognitive science of interconnection, and evolutionary economics. While acknowledging that human beings are territorial and aggressive animals, many in these fields are beginning to understand in what ways we are also a hyper cooperative species. Third, understanding what social cooperation means to John Dewey and other pragmatists has helped elucidate these artists’ work for me”2“In primo luogo, nella critica d’arte, la collaborazione spesso si riferisce a gruppi come Gilbert e George o collettivi come Group Material. Implica una consapevolezza condivisa dell’arte e un’autorialità condivisa dall’inizio alla fine. […] In secondo luogo, chiamare il lavoro cooperativo situa la pratica all’interno della zona intellettuale della cooperazione umana. C’è stata una ricerca significativa negli ultimi decenni nei campi della teoria dei giochi evolutivi, della teoria della scelta razionale e irrazionale, delle teorie della reciprocità e dell’altruismo, della nuova scienza cognitiva dell’interconnessione e dell’economia evolutiva. Pur riconoscendo che gli esseri umani sono animali territoriali e aggressivi, molti in questi discipline stanno iniziando a capire in che modo siamo anche una specie iper cooperativa. Infine, capire cosa significa cooperazione sociale per John Dewey e gli altri filosofi pragmatisti ha aiutato a chiarire il lavoro di questi artisti per me.” [Traduzione mia] T. Finkelpearl, op. cit., p. 6.

Il diretto richiamo a John Dewey posiziona l’interesse verso l’esperienzialità condivisa dell’azione in un atto di interazione costante tra organismo e ambiente, usando proprio una metafora deweiana. Se il punto di partenza risiede in una teoria che considera l’operare artistico come il risultato di un processo comune all’interno del quale l’opera è sempre contestuale, si può meglio capire come il termine cooperazione sia preferito a quello di collaborazione che, di per sé, cela un certo grado di gerarchia e subordinazione del fare individuando fin dall’inizio la traiettoria finale dell’operazione stessa e per tanto esercitando una determinata forma di controllo costante. La forma della cooperazione, come modalità del sociale, aiuta a comprendere in maniera diversa anche la sfera della partecipazione nel momento che, eliminati criteri di valore, i confini tra chi fa e chi “subisce” diventano sempre più labili. “Most of the projects in this book, however, lean toward the socially cooperative, works that examine or enact the social dimension of the cooperative venture, blurring issues of authorship, crossing social boundaries, and engaging participants for durations that stretch from days to months to years”3“La maggior parte dei progetti in questo libro, tuttavia, propendendo verso la cooperazione sociale, con opere che esaminano o mettono in atto la dimensione sociale dell’impresa cooperativa, offuscando le questioni di autorialità, attraversando i confini sociali e coinvolgendo i partecipanti per periodi che vanno da giorni a mesi ad anni.” [Traduzione mia] Ibidem.

Immagine di copertina: Jeremy Deller, We Sit Starving A Among our Gold, British Pavilion, 2013