Angela Zucconi: la comunità alla prova

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    È Natalia Ginzburg a cogliere nel nomadismo un tratto dominante del carattere di Angela Zucconi. In due racconti dei primi anni del dopoguerra pronostica che «girerà il mondo, come un vecchio generale cinese» o ricorda come questa «diceva che c’è un solo modo bello di vivere, ed è partire per qualche paese lontano, magari di notte». […]

    Nel fervore delle iniziative del primo dopoguerra le due progettano una rivista letteraria, «Arianna», che non si concretizza anche perché la Ginzburg lascia Roma e la Zucconi è presa da nuovi interessi. Infatti, su suggerimento di Giuliana Benzoni – frequentata da Adriano Olivetti tra il 1942 e il 1943 nella speranza di accelerare la fine del regime con un “colpo di palazzo” in vista di una pace separata con gli Alleati – aderisce al comitato promotore del Movimento di Collaborazione Civica, una delle prime iniziative postbelliche per incoraggiare la partecipazione attiva dei cittadini alla vita democratica.

    Estratto da L’Italia di Adriano Olivetti di Alberto Saibene (Edizioni di Comunità)

    Il convegno di Tremezzo del settembre-ottobre 1946 è un momento seminale per elaborare un nuovo tipo di intervento dello Stato a favore della parte più disagiata e arretrata della popolazione. “Aiutare gli uomini ad aiutarsi da sé” fu uno slogan di quegli anni.

    Un embrione di stato sociale era nato col fascismo, a seguito degli sconvolgimenti della prima guerra mondiale, ma funzionava nella logica dell’assistenza per categorie (“i mutilati”, gli orfani di guerra”, ecc.), formando associazioni che divenivano strumenti di consenso politico o fondamento di nuove burocrazie.

    Nuova per l’Italia era quindi la figura dell’assistente sociale, una figura laica che non discendeva da organizzazioni ecclesiastiche o partitiche, ma che era necessario formare adeguatamente sull’esempio di modelli anglosassoni, ispirati soprattutto dal pensiero di John Dewey.

    È in questa temperie e con queste esigenze che nasce a Roma nel 1946 il CEPAS (Centro Educazione Professionale per Assistenti Sociali) fondato da Guido Calogero e dalla moglie Maria Comandini e finanziato dal Ministero dell’Assistenza postbellica, allora in quota al Partito d’azione.

    La Zucconi partecipa quasi dall’inizio alla vita della nuova scuola e quando nel 1949 i coniugi Calogero si trasferiscono in Canada, diviene ad interim “direttore facente funzione”, poi direttore effettivo nel 1952, carica che ricopre fino al 1963.
    Adriano Olivetti sostiene fin dall’inizio la nuova scuola: dal 1949 la Olivetti copre una buona parte delle spese di gestione e, quando nel 1952 il CEPAS si costituisce in associazione, la società di Ivrea ne diviene socio sostenitore. La Zucconi torna a frequentare Olivetti quando Calogero ricorre a lui per sostenere la situazione sempre precaria finanziariamente della scuola.

    Nella sua bellissima autobiografia la Zucconi ricorda che Olivetti fu “sorpreso, ma non disgustato” dalla sua nuova professione. È in questo passaggio, dalla letteratura alla società, da studiosa e traduttrice alla professione di formatrice di assistenti sociali, ma anche di donna in cui pensiero e azione risultano uniti (la lezione di Simone Weil) che la conoscenza tra Olivetti e la Zucconi diviene più intensa.

    Lo rileva anche Leonardo Benevolo: «Non avrebbe mai sopportato di tener disgiunti pensiero e azione, e neanche di rifugiarsi nella scrittura (un’attività che le riusciva superbamente)».

    Due sono le esperienze in cui la Zucconi si trova a lavorare insieme a un gruppo coordinato da Olivetti: la costruzione del quartiere La Martella per ovviare allo “scandalo” dei Sassi di Matera e il piano di intervento nella cosiddetta Zona E, tra Abruzzi e Molise. Olivetti era nei primi anni Cinquanta vicepresidente dell’UNRRA-Casas, un ente che gestiva i fondi del Piano Marshall dedicati alla ricostruzione.

    Quattro le zone di intervento: la Nurra in Sardegna, la Calabria del profondo latifondo tra Crotone e Cutro, le valli del Sangro e dell’Aventino tra Abruzzo e Molise e Matera che fu il vero banco di prova, “il simbolo delle città contadine” secondo la definizione di Riccardo Musatti.

    «Fu a questo punto che la precaria vita del CEPAS e l’ubiquità della mia vocazione si incrociarono con i progetti di Adriano Olivetti, ricevendone un soffio vitale che all’improvviso rese più lieve il mio incarico», scrive la Zucconi nell’autobiografia.
    Il CEPAS doveva infatti istituire un servizio sociale nel nuovo borgo de La Martella per le esigenze degli abitanti dei Sassi che vi si sarebbero dovuti trasferire. La Zucconi visitava periodicamente Matera per preparare e organizzare il lavoro degli assistenti sociali.

    Nel 1949 più della metà della popolazione di Matera viveva nei Sassi e quando l’UNRRA decise di intervenire, a seguito di una relazione di Nallo Mazzocchi Alemanni che propugnava la nascita di borghi residenziali per svuotare progressivamente i Sassi, mise insieme un gruppo di studio diretto dal sociologo americano, di origine tedesca ma con esperienze prebelliche in Italia, Friedrich Friedmann.

    Attorno a lui architetti e urbanisti, un geografo, una psicologa, economisti agrari della scuola di Manlio Rossi Doria, qualche rappresentante della società civile locale (i fratelli Leonardo e Albino Sacco) e l’autorevole figura del medico di Tricarico Rocco Mazzarone che, insieme a Olivetti, al suo proconsole Riccardo Musatti, a Ludovico Quaroni, all’italo-americano Guido Nadzo, responsabile della parte edilizia dell’UNRRA-Casas, furono le figure di riferimento di un esperimento che si compì tra 1953 e 1954 e si infranse davanti all’ostilità dell’Ente Riforma e dell’ultimo governo De Gasperi che inaugurò La Martella poco prima delle elezioni politiche del giugno 1953 soltanto a fini elettorali.

    L’esperienza, al di là della chiesa di Quaroni e di qualche edificio intorno, fu tutto sommato un fallimento: troppi gli ostacoli politici, scarsa la partecipazione di una popolazione con cui era difficile entrare realmente in contatto. Lo scacco non diminuì la voglia di Olivetti e della Zucconi di riprovarci, anche alla luce degli errori commessi.

    La collaborazione tra CEPAS e UNRRA proseguì con la rivista «Centro Sociale», gestita da Anna Maria Levi, che arrivava da Torino dove si era occupata del centro comunitario di Borgo San Paolo. Nell’editoriale del primo numero (1954) il direttore responsabile Paolo Volponi delinea i compiti dell’assistente sociale, le metodologie d’intervento, la nascita dei centri sociali e il loro funzionamento.

    Così scrive la Zucconi, ripensando agli entusiasmi di allora: «Mi sorprende a distanza di tanti anni, l’importanza che si dava allora ai centri sociali e le speranze che si fondavano su questi centri nei nuovi quartieri per lo più periferici, dove si voleva insegnare con i fatti a vivere e dove, quasi sempre, il seme della convivenza civile era dato soprattutto dalla biblioteca e dalle attività culturali. Mi sorprende tanto più oggi che la parola centro sociale è passata a significare i rifugi estemporanei di giovani fuggiaschi dalla casa, dalla scuola, dalla vita con altri, e da ogni forma vera di partecipazione civile e politica».

    Nell’autunno 1955 la Zucconi si congedò dal CEPAS lasciando la direzione ad interim a Paolo Volponi.Viaggiò soprattutto nei Caraibi dove conobbe Florita Botts, poi sua compagna di vita, una giovane americana che si occupava, per conto di un’agenzia dell’UNESCO, di educazione degli adulti e di sviluppo comunitario. La Zucconi ne studiò i metodi e propose a Olivetti, tramite l’UNRRA-Casas di applicarli a un “Progetto Pilota per l’Abruzzo” che prese via nel febbraio 1958 sotto l’alto patronato dell’UNESCO.

    La zona di intervento riguardava quattordici comuni tra la provincia di Chieti e quella de L’Aquila, soprannominata da Paolo Volponi “Zona E”, perché nelle carte geografiche cadeva tra Abruzzo e Molise (che allora formavano una sola regione amministrativa) e dove, durante la guerra, era passata la Linea Gustav arrecando enormi distruzioni.

    Incaricata insieme a Leonardo Benevolo e a qualcun altro degli studi preliminari sull’area, la Zucconi si buttò con entusiasmo in un’esperienza così ricordata da Benevolo: «Ci muovevamo su jeep dell’esercito americano. Partivamo la mattina con sette, otto ruote di scorta che cambiavamo quasi ogni giorno perché il manto stradale era molto accidentato. Facevamo interviste ai cittadini comuni e alle autorità, trattavamo i temi dell’emigrazione, della salute, del lavoro, ma dovevamo evitare che la nostra azione si trasformasse in un soccorso spicciolo, un’elemosina a persone che avevano bisogno di tutto».

    Olivetti, che aveva fondato nel 1954 l’IRUR (Istituto per la Ricostruzione Urbana e Rurale del Canavese) e la Lega dei Comuni del Canavese, era particolarmente interessato a proseguire esperimenti comunitari in altre aree d’Italia dove non era presente l’azienda. L’idea di fondo era di intercettare “dal basso” le esigenze degli abitanti, stabilire la priorità dei bisogni attraverso colloqui e incontri, al contrario dell’Ente Riforma e della Cassa del Mezzogiorno che, dopo una prima fase legata alla creazione delle infrastrutture, elargivano contributi “dall’alto”.

    «Come campione la nostra zona era indovinata», commentò poi la Zucconi per definire un’area dove la questione meridionale si manifestava in tutti i suoi sintomi peggiori: isolamento geografico, arretratezza economica anche in campo agricolo, mancata coesione sociale.

    Dagli studi preliminari risultò la mancanza di spirito di collaborazione tra le varie cooperative e come il localismo dividesse paesi da paesi che, a loro volta, erano frazionati al loro interno.

    Scrisse all’epoca la Zucconi: «Nella realtà presente una sola vera comunità esiste ed è la famiglia e sulla famiglia intendiamo formare la nostra azione per lo sviluppo della comunità. Osiamo dire che questo punto, ovvio in apparenza, costituisce uno degli aspetti originali del nostro programma di lavoro».

    La Zucconi organizzò, attraverso gli assistenti sociali, il lavoro di gruppo e, sul modello di Portorico, introdusse letture collettive e visioni di film da discutere poi insieme. Era un primo passo perché gli abitanti prendessero coscienza di se stessi, dei propri problemi e dei propri diritti. L’assistente doveva orientare, aiutare, ma mai guidare una comunità che avrebbe dovuto auto-organizzarsi. In realtà l’antica diffidenza contadina per chi veniva da fuori fu difficile da vincere e solo lentamente si venivano a conoscere i bisogni della famiglie, la loro storia, i rapporti con l’autorità.

    Sullo sfondo una scolarizzazione ancora bassissima, meno della metà dei bambini abruzzesi raggiungeva la quinta elementare (persone nate tra il dopoguerra e la metà degli anni Cinquanta). I Centri sociali aperti dall’UNRRA-Casas in Abruzzo furono sei (rispetto ai quattordici previsti) e all’inizio stentarono, anche per la mancanza all’abitudine di una vita sociale. Col tempo i primi risultati si incominciarono a vedere, anche se la grande emigrazione verso nord era ormai cominciata e le condizioni di intervento stavano mutando.

    La Zucconi è in Abruzzo il 28 febbraio 1960, quando apprende della morte di Adriano: «Un filo essenziale della mia vita interiore si era spezzato». È a Ivrea il 1 marzo al suo funerale ed è tra coloro che gettano un pugno di terra sulla tomba. Nell’autobiografia scrive: «Con la morte di Adriano Olivetti scompariva la speranza e l’immaginazione di un’Italia della società civile che non fosse soggetta a partiti-padroni. I progetti di sviluppo comunitario, parzialmente e almeno in certi casi, rappresentavano le risposte nuove e concrete di cui il nostro Paese aveva bisogno: era necessario identificare e valorizzare la comunità, anche quella dissepolta dalle macerie della guerra, perché è il seme della coesione civile, la radice che consente la crescita. Bisognava mettere in grado la comunità di trattare con tutte le risorse disparate e sparpagliate di cui lo Stato disponeva e faceva spreco. E questo era un modo di salvare la comunità dal localismo».

    Anche se le speranze riformistiche si esauriscono rapidamente dopo la morte di Olivetti con la stagione del centro-sinistra, molto deludente per la Zucconi e per chi aveva posizioni vicine alle sue, il dialogo tra loro continuò in forma di ricordo: in un convegno a Frascati nel 1964 dove parla dell’inattualità e quindi del valore di rilancio della proposta olivettiana, con la cura degli atti del convegno di Ivrea del 1980. È la prima grande occasione di ricordare Adriano Olivetti a vent’anni dalla morte. Ognuno racconta il proprio Adriano, che non collima con quello dell’altro.

    La Zucconi, con pazienza, smonta e rimonta, arbitrariamente tagliando e cucendo gli atti del convegno. A quattro anni di distanza ne vien fuori il volume Fabbrica Comunità Democrazia. È lei stessa a definirlo “un modo nuovo, e il nuovo è sempre arbitrario” di operare in vista di salvaguardare la memoria di Olivetti, ma anche di rilanciarne il messaggio.

    La Zucconi nell’autobiografia definisce Olivetti “un rivoluzionario” e usa il corsivo a rimarcarlo. Ci sono molte definizioni di Olivetti, alcune sbagliate o limitative: “un mecenate”, “un imprenditore illuminato”, altre che si possono discutere: “un utopista positivo” (Ferruccio Parri) o “un imprenditore di idee” (Franco Ferrarotti).

    È bella quella che Altiero Spinelli, che ricordò Olivetti al CEPAS nel 1960, dopo la Zucconi, annota in una pagina di diario: «È un uomo che ammiro molto, perché aveva la completezza, persino nella mistura di saggezza e pazzia, dei grandi del Rinascimento». Definendolo “rivoluzionario”, dall’etimo colui che rivolge, che ribalta il mondo, la Zucconi intende, credo, un uomo che non lascia il mondo come lo ha trovato. Una definizione che vale anche per lei.

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