Alika Ogorchukwu, l’ultima immagine

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    C’è questa immagine: un corpo coperto da un telo, steso sul marciapiede di una città. In primo piano, c’è una bici legata ad un palo e il tronco di un albero, sorretto da due pali. L’albero, di cui non vediamo la chioma, lo immaginiamo stentato: è stato messo a dimora in una buca che potrebbe essere di 1 metro e mezzo per 50 centimetri. La buca accoglie dei rifiuti. Sullo sfondo, si vede la vetrina di un negozio di abbigliamento intimo, da donna a sinistra, da uomo a destra. 

    Il marciapiede si potrebbe definire curato. Deve appartenere ad una parte centrale della città: se fosse in periferia l’avrebbero asfaltato, mentre questo qui è in pietra. Il piccolo commercio sarà ancora vivace in questa zona: per “valorizzare l’attrattività commerciale dell’area”, sarà stato l’argomento utilizzato dal Comune a sostegno dell’investimento per il rifacimento del marciapiede. O forse non è stato necessario argomentarlo: è ovvio che il centro va curato come il salotto di casa propria, con gli arredi migliori.  

    I capi nelle vetrine sono costumi da bagno; magari è una città di mare. Se è così, non è un borgo; quelli stanno nelle aree interne e non hanno ancora ricevuto i soldi del PNRR per rifarsi i marciapiedi in granito. Forse è una piccola città, un “bastardo posto” che non conta. 

    Sotto il marciapiede c’è una stampella, segnata da due marcatori di prova gialli. Vuol dire che quella è la scena di un crimine, che il corpo è quello di una persona uccisa e la stampella è l’arma di un delitto. Apparteneva all’ucciso o all’aggressore? 

    Ci informano che l’ucciso è un uomo di origini nigeriane, ammazzato a furia di botte. Che il responsabile è un altro uomo, di origini italiane, il quale alla sua vittima ha sottratto il telefono. Che la vittima utilizzava la stampella, perché un anno fa era stato investito da un automobilista: chiedeva la carità in modo insistente, precisano alcune fonti.; altre aggiungono che avrebbe fatto apprezzamenti sulla donna che accompagnava l’omicida. Che diversi passanti hanno ripreso l’omicidio con il proprio telefono; alcuni hanno gridato «così lo ammazzi»; nessuno è intervenuto. 

    I video dell’aggressione circolano in rete. Suppongo abbiano molte visualizzazioni. Forse le pagine dei loro autori saranno d’ora in poi favorite dall’algoritmo. Un fermo immagine mostra il momento in cui l’aggressore è sopra la vittima e lo colpisce: richiama alle menti altre immagini, atroci, come quella di George Floyd a Minneapolis. Anche la foto dell’uomo ucciso sta conoscendo una discreta fortuna: lo ritrae in una espressione triste e rassegnata, indossando una felpa che ha stampata l’immagine di un teschio con un cappello a falda. Sopra la felpa, l’uomo porta una catena con una croce. Ha un nome: si chiama Alika Ogorchukwu. Il cognome non è facile da pronunciare (chissà come si dirà nella sua lingua, magari ha un significato), ma dovremmo sforzarci di farlo, per rispetto, perché tutti noi siamo un nome più un cognome. 

    L’immagine del marciapiede, diversamente dalle altre, sottrae il fatto alla sua rappresentazione, alla violenza, alla sopraffazione, alla sofferenza. Ci risparmia dover esprimere il giudizio di ignominia verso chi non ha mosso un dito. Cela la vittima, non sollecita pietà, compassione e neppure induce quel sollievo che proviene (perché di certo qualcuno lo avrà provato) dal riconoscere nell’ucciso un diverso da sé (disabile, mendicante e nero, per sovrappiù) e dunque uno cui una cosa così poteva infatti accadere, iscritta nella sua stessa complessione. 

    Colloca invece il fatto nel suo immediato “contesto”. È tecnicamente pertinente, scattata quasi al livello del suolo. Ci fa entrare in quell’angolo di mondo dove si è svolto. Chissà che succede di solito su quel tratto di strada commerciale? Nella quotidianità di quella città, c’è anche far fuori persone che chiedono la carità? E nella quotidianità di tutti noi? Gli abitanti di quel posto dovranno sforzarsi di recuperarla, la normalità, o il fatto non l’avrà neppure intaccata, perché ne è una componente? È l’immagine definitiva del nostro nulla omicida. È l’“ultima immagine”, quella che dice di noi compiutamente ciò che siamo.

    Note