Adottare uno striscione al quartiere Adriano di Milano

Adriano, Civic Media Art

Lucia vive al secondo piano di un condominio affacciato su via Ugo La Malfa, nel quartiere Adriano. Per oltre un mese ha ospitato in terrazzo un lungo striscione bianco dove appariva la seguente frase: «La parola mondo è più importante della parola patria». Riccarda è invece il nome di una vicina di casa. Dal balcone di Riccarda, al terzo piano, un altro striscione si mostra ai passanti di via La Malfa: «Roma ha il Colosseo, il Cairo le Piramidi, noi il Matitone». Dopo aver accettato di partecipare al progetto di Civic Media Art, ideato dall’artista Kevin Braak con CheFare, Lucia e Riccarda si sono rese disponibili a esporre uno dei circa cinquanta striscioni apparsi in Adriano a partire dallo scorso febbraio. Ciascuno striscione registrava una frase –o meglio: uno slogan, un lapsus, un’epifania o un abbozzo di petizione- raccolta nel corso di conversazioni e interviste effettuate in Adriano tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018.

Adesso è aprile ed è tempo di rimuovere gli striscioni. Ne abbiamo approfittato per fare una lunga chiacchierata con Lucia e Riccarda (e una chiacchierata più breve con Maurizio, che vive non lontano). Parlando abbiamo scoperto che la parola «patria», in un gioco libero di associazioni che ha a che fare con la memoria e con la nostra storia, può accoppiarsi con il nome di uno storico grande magazzino: «Standa». Inoltre, mano a mano che la conversazione procedeva, è affiorato un ricordo: un tempo esisteva un rito chiamato «merenda generale». In entrambe le conversazioni, infine, saltava spesso fuori un’altra parola ancora: «Esselunga». «Standa», «Esselunga», «merenda generale» e naturalmente «Adriano»: in ogni caso parliamo di luoghi, comunità, scambi e relazioni.

Lucia: Vivo qui dal 1991. All’epoca c’erano solo queste case, cioè quelle costruite da Salvatore Ligresti. Il resto era tutto verde, bosco e campagna. A partire dal 2001 hanno costruito altri palazzi e le cose sono un po’ cambiate. Hanno aperto e chiuso diversi negozi: un alimentari, una tintoria, un panificio, un ortofrutta etc. Probabilmente la gente di qui, pur non avendo ancora aperto l’Esselunga, preferiva spostarsi in macchina per fare acquisti. Sopravvivono i bar, gestiti molto bene, anche se la sera si riempiono, si crea rumore e ci sono macchine parcheggiate in seconda e terza fila, a causa di una politica che vorrebbe fare di questi bar dei locali sullo stile di corso Como e, specie in estate, aperti fino a tarda notte. Perciò la situazione è diventata un po’ invivibile. Bisogna dire che da quando ha aperto l’Esselunga il quartiere è più animato. Prima c’era solo un continuo passaggio di macchine. Nel quartiere vivo bene, non ho nessuna paura, non sento il bisogno di più sicurezza. Sono una persona che non diffida del prossimo. Quello che manca è l’aggregazione. A me piace stare con la gente e parlare. Forse in questo senso sarebbe utile se ci fossero più negozi al dettaglio. L’Esselunga, dal punto di vista della socialità, funziona sì e no. All’Esselunga ritrovo gente che non vedevo da anni. È una cosa che mi fa piacere, ma succede proprio quando sei in mezzo al corridoio o col carrello in mano.

Ivan Carozzi: Quali sono gli altri luoghi di aggregazione?

Lucia: Il centro anziani alla Cascina San Paolo, senz’altro. I giovani andavano alla cascina Cattabrega, ma forse adesso meno.

IC: Parliamo dello striscione: «La parola mondo è più importante della parola patria». Questa parola, «patria», aveva un peso, un valore, nel mondo in cui lei è cresciuta?

Lucia: No, nessun valore in particolare. Per me la parola «mondo» è sempre stata più importante. Però, se ci penso bene, la parola «patria» l’associo alla Standa.

Come se si trattasse di una storia che appartiene al trapassato, Lucia resta stupita del fatto che conservo molti ricordi dei magazzini Standa. In ogni caso, ciò che forse è trapassato nel mondo, è ancora perfettamente vivo nella memoria di Lucia. Lucia mi racconta della Standa con emozione, senza risparmio, costruendo un quadro particolareggiato di una lunga e importante vicenda aziendale di cui lei stessa è stata parte.

IC: Cosa c’entra la Standa con la patria?

Lucia: La Standa è l’azienda nella quale ho lavorato per tutta la vita, che mi ha consentito di avere una sicurezza, di vivere e crescere una famiglia. Provavo un forte senso di appartenenza. Sono entrata a 16 anni, poi col tempo sono diventata uno dei responsabili delle risorse umane. La Standa era una parte di me. Oggi le circostanze mi sembrano cambiate, anche perché in azienda ci si ferma poco. Tre, quattro, cinque anni, e poi te ne vai. Alle aziende non importa più niente del tuo senso di appartenenza. Oggi il lavoro è ciò che ti consente appena di vivere. Un tempo invece era ciò che ti dava, oltre al pane, dignità e gratificazione. Sono tutte questioni che ho capito soprattutto nel momento in cui le cose in azienda sono cambiate. Nel 1988 è arrivato Berlusconi, che ci ha comprato e ha distrutto tutto. La Standa gli serviva come una sorta di banca per finanziare altri progetti e perché le sedi dei magazzini, trovandosi nel centro delle città, avevano un valore economico. Berlusconi ha smembrato la Standa. È stato il distruttore. Eppure, quando arrivò, noi eravamo felicissimi. Ricordo la prima convention al Teatro Manzoni, con noi dirigenti e quadri della Standa e tutta Publitalia schierata che alla fine gridava «Silvio! Silvio!». Alla Standa si passò dai vecchi grembiuloni alle divise disegnate da Trussardi. Poi arrivarono «Le amiche di casa Standa», belle ragazze in tailleur e tacco dodici che facevano assistenza al cliente. Da lì in poi è stato un declino e un magazzino dopo l’altro la Standa è scomparsa. Gli ultimi anni in azienda li ho vissuti mandando via personale e liquidando. Sono andata in pensione nel 2004.

IC: Che cosa si prova a licenziare una persona?

Lucia: Io ho sempre cercato di essere schietta e diretta con i dipendenti. Li chiamavo, ci parlavo e gli spiegavo perché si era creato un problema con l’azienda e come si poteva rimediare, prima di arrivare a conclusioni spiacevoli. Questa modalità di rapporto mi ha sempre garantito il rispetto dei dipendenti. Quando invece si trattava di licenziare per contenere i costi, ho sempre cercato di cominciare dalle persone che erano vicine al pensionamento, avendo comunque a disposizione delle cifre e degli incentivi per compensare l’interruzione del rapporto. Quando si trattava di licenziare per ragioni disciplinari, invece, personalmente era più difficile e problematico.

IC: Che relazioni c’erano tra voi colleghi della Standa?

Lucia: Di correttezza e amicizia, in particolare con un mio ex capo che mi ha insegnato il mestiere.

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IC: Riccarda, a proposito di amicizia, come vi siete conosciute lei e Lucia?

Riccarda: Da vicine di casa. Buongiorno e buonasera all’inizio e poi lentamente ci siamo conosciute meglio. Anche perché le nostre famiglie sono state tra le prime ad arrivare in queste case e per fare amicizia da principio avevamo organizzato delle grigliate all’aperto.

IC: Lo striscione che ha scelto di appendere diceva «Roma ha il Colosseo, il Cairo le Piramidi, noi il Matitone» (il cosiddetto Matitone è un tozzo obelisco di cemento armato, un tempo parte del complesso industriale della vecchia Magneti Marelli; oggi, insieme alla torre della cisterna, è l’architettura più nota e caratteristica del quartiere, Nda). Che cosa le piace di questo striscione?

Riccarda: Lo trovo divertente, proprio perché il paragone con il Colosseo e le Piramidi è evidentemente esagerato.

IC: Quali sono gli altri luoghi di Adriano cui è affezionata?

Riccarda: Confesso che non frequento il centro anziani, mentre vado spesso al Portico, il ristorante qui sotto. In chiesa vado quando non c’è nessuno. Per il resto faccio volontariato alla LILT, la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, che però è a Sesto San Giovanni.

IC: E ci sono invece delle persone del quartiere che la colpiscono? Intendo quelle persone, quelle facce che le capita di vedere spesso, che magari neppure conosce, ma che per qualche ragione le risultano simpatiche o antipatiche…

Riccarda: Certo, ci sono persone che mi capita di vedere spesso alla fermata dell’autobus o all’Esselunga, dove capita ogni tanto di fare due chiacchiere…

Il superstore di Adriano, centocinquantesimo della catena Esselunga, ha inaugurato nel marzo 2015. È un luogo che ricorre non solo nelle parole di Lucia e Riccarda, ma anche nei racconti degli altri abitanti del quartiere. Compare spesso tra le risposte a un questionario che Civic Media Art ha distribuito alle giovanissime allieve di «Pirouettes», scuola di danza in via Trasimeno, a due passi dal centro anziani. Per queste bambine l’Esselunga, e il centro commerciale attorno, è un luogo pieno di colori, di aspettativa, dove poter trovare merci e oggetti dei desideri. È come un varco attraverso il quale affacciarsi alla vita e al mondo. Di Esselunga capita di parlare anche con Maurizio, col quale ho appuntamento all’ora di pranzo, dopo l’incontro con Lucia e Riccarda. Maurizio, che vive in Adriano dal 2010 (e il cui striscione all’undicesimo piano è un auspicio e un momento di pura utopia: «Olaf di Frozen sindaco»), dichiara di non amare granchè l’Esselunga: «il vero elemento unificante del quartiere è la rete di plastica arancione che circonda i cantieri e altre zone recintate; poi ci sono l’Esselunga e il centro commerciale, che trovo naturalmente molto comodo e pratico, così come il personale è gentile e premuroso, ma continuo a preferire il rapporto diretto con i negozianti: comprare il pane dal panettiere e il giornale dal giornalaio… ogni volta che vado all’Esselunga m’impongo di non usare la macchinetta Salvatempo che ti fa saltare la fila, pagare in fretta e arrivederci: no, voglio concedermi più tempo, magari per trovare l’occasione di scambiare una parola in coda alla cassa». Per chi vede il bicchiere mezzo pieno, tuttavia, l’Esselunga rappresenta comunque un punto d’incontro, per quanto aleatorio. È uno dei pochi luoghi, oltre alla chiesa e al centro anziani, in cui la comunità ha modo d’incontrarsi.

IC: Lei dov’è nata, Riccarda?

Riccarda: Sono nata nel 1947 in una casa di ringhiera, in via Palestrina 9, dietro a piazzale Loreto. La casa di ringhiera era in sostanza un piccolo paese, pieno di bambini che giocavano in cortile. I figli erano di tutti. Alcune mamme, come la mia che lavorava in Pirelli, spesso mancavano da casa perché appunto dovevano andare a lavorare, perciò erano le altre mamme che si preoccupavano di tenere tutti i bambini e di preparare la merenda generale.

IC: La merenda generale?

Riccarda: Sì, si chiamava così: la merenda generale. Ricordo la signora del quarto piano che arrivava con una teglia da forno piena di fette di pane con burro e marmellata. E noi bambini del palazzo ci sedevamo tutti a mangiare sulle scale. Quella era la merenda generale (Lucia, che è cresciuta in una casa di ringhiera in via San Gottardo, dice di avere identici ricordi di merenda generale, Nda). La casa di ringhiera era un mondo di grande comunione e condivisione, compresi i lutti. Questa esperienza che ho vissuto da piccola mi è rimasta dentro per tutta la vita adulta. Vale come un insegnamento per la solidarietà e l’apertura verso gli altri, che per me è un fatto assolutamente naturale, non straordinario (Lucia annuisce alle parole di Riccarda, Nda). Questo progetto degli striscioni mi ha dato modo di conoscere altre persone del quartiere, che forse non avrei mai incontrato. Ecco perché mi è piaciuto e perché sono stata felice di partecipare.

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Ultimo appuntamento. Raggiungo casa di Maurizio, in via Tremelloni. Maurizio, persona gentile e brillante, quasi sessant’anni, pensionato e consulente su analisi rischi, sulle prime non aveva messo bene a fuoco la natura artistica di Civic Media Art e del lavoro di Kevin Van Braak. All’inizio di una mezz’ora di conversazione cominciata in ascensore, prima di parlare di Esselunga e poi del parco Franca Rame, Maurizio pronuncia parole particolarmente indovinate e appropriate. «Forse perché sono un tipo un po’ ‘agricolo’», dice scherzando, «non capivo dove stesse l’aspetto artistico del progetto. Mia moglie e le sue amiche mi hanno spiegato che l’arte non finisce con il futurismo, così come la scultura non finisce con Canova. Questo progetto, tuttavia, continuo a vederlo non come un prodotto artistico, ma come un modo per stare insieme e per conoscere altre persone».


Immagine di copertina: ph. Alessandra Gennari