Anarchivi, antiarchivi, controarchivi

L’archivio come atlante o catalogo di fotografie ordinate a griglia ha avuto, a partire dalla metà degli anni sessanta, un’ampia diffusione sia in Europa (soprattutto in Germania), sia negli Stati Uniti. Sul fronte europeo-tedesco due indiscussi maestri di questa forma sono stati Gerhard Richter e i coniugi Bernd e Hilla Becher, gli iniziatori della Scuola di Düsseldorf, che nelle ultime due decadi ha creato una vera e propria moda attorno alla catalogazione fotografica oggettiva e sistematica, con allievi come Andreas Gursky, Candida Höfer, Thomas Ruff, Thomas Struth.

La tassonomizzazione fotografica ha caratterizzato per oltre mezzo secolo il lavoro dei Becher, che già dalla fine degli anni cinquanta cominciarono a mappare gli edifici dell’archeologia industriale tedesca (e poi anche europea) per tipologie.

L’estremo rigore degli scatti, quasi sempre in bianco e nero, e della disposizione a griglia nasconde un’esperienza molto soggettiva: il camminare per giorni nel paesaggio misurando i luoghi visitati con il proprio corpo, prima ancora che con la macchina fotografica.

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Pubblichiamo un estratto da Archivi impossibili (Johan&Levi)

Per i Becher non si trattava unicamente di censire una specifica archeologia industriale. La loro urgenza era un’altra: archiviare una memoria che di lì a breve sarebbe scomparsa. Ecco perché il loro è stato prima di tutto un importante progetto culturale con cui hanno educato lo sguardo contemporaneo a un genere di architettura che era stata fino a quel momento trascurata o quantomeno mai studiata in modo così analitico.

Il metodo dei Becher ricorda le classificazioni naturalistiche di animali, piante e ori – come quelle di Ernst Haeckel e Karl Blossfeldt – che la coppia ha sostituito con gasometri, cisterne per l’acqua, silos, altiforni, torri di estrazione.

Questi soggetti sono stati sistematicamente fotografati, poi ordinati e disposti uno accanto all’altro con un criterio basato sulla giustapposizione che mirava a evidenziare la specificità dei soggetti tramite analogie e differenze.

Sulla stessa linea di ricerca si colloca anche Hans-Peter Feldmann, che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta ha composto cataloghi visivi del quotidiano, del banale e del kitsch con immagini prese da giornali e riviste, album e archivi privati, oppure con foto in bianco e nero fatte da lui. Ritratti di persone singole o in gruppo (Mädchen, Familien, Filmstars, Fussballer, Radfahrer) si alternano a luoghi, elementi naturali (Bäume, Berge, Hecken, Straßen, Wolken) e oggetti (Krankenwagen, Schuhe, Segelbote, Stühle). In tutte queste classificazioni tipologiche, dove la fotografia a differenza dei Becher e dei loro allievi e in modo analogo a Richter, non ha particolari qualità estetico-stilistiche, ma rimane volutamente amatoriale, è la quantità che svela l’unicità di ogni immagine. In Feldmann la ripetizione non genera assuefazione e nemmeno uniformità; lascia piuttosto scaturire le differenze.

Joachim Schmid la pensa allo stesso modo: anche per lui «la qualità è quantità». Da più di trent’anni colleziona e cataloga fotografie esclusivamente trovate nella consapevolezza che nel mondo contemporaneo l’immagine fotografica è un fenomeno sociale da studiare come usanza e salvaguardare come oggetto.

Sulla scia del motto «nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!» si è appropriato di una quantità vertiginosa di immagini anonime e amatoriali, prima analogiche e poi anche digitali, diventando lui stesso una sorta di bacino di raccolta al pari di Instagram e Flickr (non a caso ha fondato un “Istituto per il riciclaggio delle fotografie usate”).

Ma la sua non è solo un’azione di recupero, riutilizzo e riattivazione delle immagini. Procedendo ogni volta a una nuova catalogazione, Schmid le salva dall’oblio e le reimmette in un immenso archivio, che, a differenza di quello mediatico, non è virtuale, bensì reale. Certo, continuando a inventariare le migliaia e migliaia di immagini che trova negli album, nei mercatini, su Internet o che gli vengono mandate dagli autori stessi dietro suo preciso appello, dimostra anche il paradosso insito nell’azione stessa del classificare. Ciò nonostante, progetti enciclopedici come Bilder von der Straße (1982-2012), composto da immagini trovate casualmente per strada e catalogate a seconda del luogo e della data di ritrovamento, Archiv (1986-1999), dove a dare uniformità a un eterogeneo corpus di scatti è la suddivisione tematica e Other People’s Photographs (2008-2011), che raccoglie foto digitali prese da Internet a cui Schmid ha restituito presenza materica pubblicandole in una serie di libri (novantasei in tutto), ci rammentano quanto il nostro linguaggio – oggi più che mai – passi anche attraverso un codice iconico.

La propensione alla classificazione ricompare nel duo svizzero formato da Peter Fischli e David Weiss, autori di un “mondo visibile” (Sichtbare Welt, 1986-2001) dispiegato come un mosaico di tessere fotografiche su lunghi tavoli retroilluminati; di un altro atlante intitolato Sonne, Mond und Sterne (Sole, luna e stelle, 2008), composto da una moltitudine di ritagli pubblicitari che, invece di offrire all’osservatore uno sguardo sulla natura, rivelano il sistema capitalistico del mondo contemporaneo; e di una buffa collezione di figurine in creta, che, come indica il titolo, danno un’“inaspettata visione d’insieme” sulle cose (Plötzlich diese Übersicht, dal 1981).

Più introspettivo appare il lavoro di archiviazione fotografica di Philip-Lorca diCorcia. Con Thousand (2007) l’artista ha creato un mappamondo della propria storia, dove in fila indiana, come in una pellicola cinematografica, si susseguono le passioni, i luoghi, il lavoro di una vita in formato polaroid.

In ambito statunitense, sempre a partire dagli anni sessanta, è stata rinnovata in chiave concettuale la tradizione dei reportage con intento documentaristico-sociale, di usa fin dagli anni trenta. Nel 1962 Ed Ruscha iniziò a collezionare e a raccogliere in fascicoli-libri, dividendoli per categorie, quelli che lui chiamava «fatti» e «readymade», ovvero immagini che documentavano l’anonimato della provincia e dei sobborghi americani, tra cui: stazioni di benzina (Twentysix Gasoline Stations, 1962), lunghe fle di case prefabbricate disposte a schiera (Every Building on the Sunset Strip, 1966), parcheggi grandi come interi isolati (Thirtyfour Parking Lots, 1967), occasioni immobiliari (Real Estate Opportunities, 1970).

Anche Dan Graham negli stessi anni era alle prese con una ricognizione fotografica del tutto simile. I suoi oggetti d’indagine erano i moduli abitativi suburbani, che nel 1966 presentò con il titolo Homes for America, prima come serie di diapositive al Finch College Museum of Art di New York, poi come articolo sulle pagine di Arts Magazine, rimarcandone la doppia funzione di reportage e di studio formale.

Se queste esperienze di archiviazione avevano già un carattere sociologico, mitigato però dal gusto “pop” per l’accumulazione e dal desiderio di serialità protominimalista, artisti come Allan Sekula, Martha Rosler, e più tardi Zoe Leonard, hanno intrapreso rigorose inchieste e mappature fotografiche sulle condizioni di vita e di lavoro e sulle abitudini culturali delle realtà e dei ceti più disagiati.

Con le sue serie fotografiche (da This Ain’t China: A Photonovel del 1974 a Fish Story del 1988-1994, e oltre), Sekula ha ridisegnato la geografia e l’immaginario del tardocapitalismo. Mentre con il saggio teorico “Il corpo e l’archivio” (1986), che ha avuto larga eco nel mondo accademico e artistico, ha preso foucaultianamente in esame l’archivio-deposito come paradigma del sogno moderno e totalitarista del controllo e della supervisione amministrativa su ogni aspetto della società e dell’individuo.

Il testo dimostra come la catalogazione fotografica abbia inciso maggiormente su gruppi sociali sorvegliabili – in primo luogo i criminali – e come, tra Ottocento e Novecento, si siano cominciate ad archiviare le qualità siognomiche di determinate razze in repertori tipologici per «ambizioni statistiche» e «di igiene sociale».

Anche Rosler è un’artista-teorica. I suoi primi lavori fotografici (e video) degli anni settanta, venati di femminismo, spaziavano dall’analisi del ruolo della donna nella società americana del dopoguerra alla protesta contro la guerra in Vietnam. In seguito, la sua analisi sociale si è concentrata su categorie di emarginati come i senzatetto e gli alcolizzati, soprattutto con due progetti documentaristici nati da un lungo lavoro di ricerca sul campo. The Bowery in Two Inadequate Descriptive Systems (1974-1975) e If You Lived Here… (1987-1989) denunciano entrambi la povertà e lo stato d’abbandono di interi quartieri di Manhattan attraverso un inventario di immagini e testi che descrivono persone, luoghi, oggetti, abitudini. Rosler ha recentemente ripensato questa sua opera aperta sugli homeless e lo sfruttamento immobiliare a New York mettendo in mostra l’archivio di documenti che aveva raccolto fino al 1989 – anno della prima presentazione pubblica di If You Lived Here… – e tutta una serie di nuovi dati e informazioni che ha continuato a collezionare da allora.

Questa eredità è stata accolta da Zoe Leonard con Analogue, un nucleo di più di diecimila fotografie, dove ambienti, insegne, icone, ma soprattutto prodotti di consumo di massa, svelano le problematiche economico-sociali e politico-culturali di una serie di aree depresse in giro per il mondo: dal Lower East Side di Manhattan fino all’Uganda, alla Polonia e a Cuba. Raccolte nell’arco di un decennio (1998-2007), queste immagini sono state disposte a griglia, secondo un ordine analogico-intuitivo, in quelli che si possono considerare capitoli di un libro. Come scrive Lynne Cooke, che tra 2008 e 2009 ha curato una personale di Leonard per la Dia Art Foundation a New York, «come altri dispositivi cartografici, questa personale mappatura prepara e definisce il terreno e nello stesso tempo lo fa conoscere».

Nell’ambito della mappatura fotografica non vanno dimenticate esperienze come Autobiography (1980) di Sol LeWitt e Svolgere la propria pelle (1970-1971) di Giuseppe Penone. Il primo ha proposto un singolare autoritratto attraverso una sequenza di scatti di oggetti quotidiani che si trovavano nel suo appartamento-studio; mentre il secondo ha offerto una dettagliata cartografia del proprio corpo facendosi degli autoscatti. Se per LeWitt gli oggetti sono il riflesso della propria personalità e del proprio stile di vita, per Penone la pelle diventa la cortina che separa l’io da ciò che è altro e, nello stesso tempo, la superficie d’incontro tra il corpo e l’ambiente.

Affine a questi due lavori è il Passport che Carl Andre concepì nel 1970 come insieme di immagini che allora rispecchiavano e definivano la sua identità di uomo e artista. L’esecuzione dell’opera è tra l’altro piuttosto insolita. Alle pagine del suo passaporto Andre sovrappose una serie di immagini fotocopiate con una delle rare Xerox a colori dell’epoca. Alcune riproducono suoi lavori, altre citano intellettuali e colleghi da lui amati. L’artista si è appropriato di queste immagini per creare «una radiografia delle influenze e dei fantasmi che allora popolavano il suo personale Pantheon […]: i fiamminghi, Bronzino, Rembrandt, la poesia concreta» ecc. Nel suo insieme, «Passport […] evoca l’idea dell’atlante, del regesto di immagini, di una storia dell’arte che procede per frammenti e non in modo lineare».

Lo stesso slancio sperimentale si ritrova nella più famosa delle Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari, la n. 4, presentata alla Biennale di Venezia del 1972. Il giorno dell’inaugurazione la sala dedicata a Vaccari era praticamente vuota.

C’erano soltanto una cabina per istantanee e una scritta in quattro lingue che invitava il visitatore a lasciare “una traccia fotografica” del suo passaggio.

Contro ogni previsione, visto che l’arte relazionale e partecipativa era ancora agli albori, il pubblico accolse con entusiasmo l’invito. Come ha ricordato Vaccari, «verso la fine della Biennale la parete sulla quale si incollavano le fotografie scattate all’interno della Photomatic conteneva circa seimila strip».

Quel montaggio di ritratti era idealmente simile al progetto fotografico di Sander, perché, al di là delle differenze formali, rispecchiava anch’esso il “volto del [suo] tempo”. In fin dei conti, anche l’opera partecipata di Vaccari può essere considerata un atlante fisiognomico, sebbene il suo essere frutto di un gesto spontaneo e transitorio, e di un ordine pressoché casuale, non lo renda un progetto di catalogazione sistematico e tipologico. All’episodicità dell’intervento in Biennale, Vaccari diede comunque un seguito più duraturo con Photomatic d’Italia (1973-1974), una reiterazione di questo autoritratto collettivo – che oggi chiameremmo “selfie” – in giro per la penisola.

L’esempio di Vaccari ci fa riflettere su un punto importante. La moda che negli ultimi tempi si è venuta a creare attorno all’archivio e alla sua declinazione visiva più usata, il dispositivo dell’atlante, molto spesso induce a riconoscere come tali montaggi di immagini che in realtà non lo sono affatto, soprattutto perché alla base manca un disegno compiuto, una progettualità a lungo termine.


Immagine di copertina: ph. di Samuel Zeller da Unsplash