Non abbiamo più scuse: dobbiamo creare nuovi spazi per le comunità
Oggi molte cose sono ancora chiuse. Tra queste i vecchi e nuovi centri cuturali, molti progetti territoriali fermi in attesa di sapere come poter ripartire, il comparto culturale, la scuola. Durante questi mesi vissuti in casa tra indiscussi privilegi e frustrazione ho potuto osservare gli infiniti movimenti avvenuti nella piccola e vivace nicchia dell’innovazione socio-culturale mentre tutto era apparentemente fermo o quasi. È successo così che ho fatto un po’ pace con un vecchio tarlo: la sensazione che tutte le cose davvero belle e giuste e rivoluzionarie fossero già state fatte e pensate in quella stagione d’oro tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta e che io in fondo assistevo e mi impegnavo per una rivisitazione folkloristica dell’originale alla quale ho avuto la sfortuna di non partecipare.
“un ex-cinema di puttane vecchie e anziane del dopoguerra specializzate in seghe, trasformato ora in spazio per le prove di gruppi di teatro indipendente, secondo i piani di azione culturale di un comune democratico disposto a ottenere che il teatro faccia dimenticare al pubblico il senso mediocre della commedia quotidiana. Gli attori si muovono molto e parlano poco e male.. […] Carvalho assiste allo spettacolo seduto su una sedia quasi unica nella disabitata cornice di un vecchio cinema che non riesce a credere in se stesso come teatro.” (M.V. Montalban, Jordi Anfruns, sociologo sessuale).
Insomma mi sono chiesta spesso se di fatto non stessimo facendo terapia a dei vecchi cinema per trovare l’autostima adatta a sentirsi teatri. Ma in questo tempo strano ho avuto la sensazione di riuscire a digerire del tutto una faticosa eredità generazionale e mi è sembrato più chiaro a cosa potesse essere utile oggi l’esperienza complessiva delle pratiche di innovazione culturale e sociale che si sono sviluppate in Italia a partire dalla crisi precedente.
Mi sono chiesta se non stessimo facendo terapia a dei vecchi cinema per trovare l’autostima adatta a sentirsi teatri
Sono cresciuta tra la provincia e la periferia negli anni della coda lunga di quella che fu una stagione culturale feconda e frizzante. Io non l’ho vissuta, ma ne sentivo l’eco nei racconti, nelle nostalgie. E poi ai tempi lì da noi ai margini ogni tanto ancora qualcosa accadeva, qualche concerto, qualche spettacolo, qualche incontro di cui ancora oggi ingigantisco “l’assoluto valore culturale e sociale”.
Teresa era la donna che organizzava incontri culturali nella sezione dell’ex partito comunista del mio paese, ai tempi già usato da diversi gruppi di sinistra bisognosi di casa, uno stanzone con le travi sul soffitto, freddo in inverno e caldo in estate, con le sedie impilabili e scomode nel centro storico del paese. Teresa invitava “i famosi”, autori, giornalisti, scrittori e grazie al suo lavoro tenace alla fine qualcuno veniva davvero. Teresa poi riusciva a spargere la voce e convinceva le persone ad affacciarsi, e così si riempivano i posti a sedere.
Credo che questo accadesse in tanti altri posti parimenti marginali in cui le piccole luci della ribalta, le emozioni date dalla partecipazione, la costruzione tumultuosa di nuovi concetti, erano in grado di contrastare la percezione che la provincia era destinata ad essere risucchiata da una voragine o in alternativa ad estinguersi. Presìdi culturali sui territori.
Poi la coda lunga si è anch’essa esaurita. L’eco delle battaglie per i diritti ormai conquistati si è fatta più debole, fino a sparire.
Lentamente uscivano dal dibattito temi centrali e fondanti della vita sociale. I piani urbanistici confermavano la marginalità delle periferie, delle provincie, costruendo posti brutti, non collegati da mezzi pubblici, con pochi servizi o in alternativa piccoli paradisi artificiali dai nomi esotici, lotti residenziali di villette poste fuori città. Veniva progressivamente depotenziato il sistema sanitario nazionale, il sistema scolastico attraverso una mortificazione del corpo docenti e l’abbandono dell’edilizia scolastica.
Veniva ridotto il personale dedicato ad includere nella vita quotidiana chi ne aveva più bisogno, meno insegnanti di sostegno, meno educatori, meno attività extra-scolastiche. Il tutto sotto il naso di chi era incantato a guardare ad un futuro promettente, ricco, tecnologico. La stessa assenza di dibattito e la stessa scelleratezza toccava al sistema delle carceri, alla ricerca, alle università, alle attività ricreative.
Venivano smantellati i circoli giovanili politicizzati, omesso il discorso sul diritto alla casa, elemento che verrà poco dopo ripreso abilmente dalle destre.
È mancata una solida cornice socio-culturale in grado di portare avanti una prospettiva seria di integrazione di persone provenienti da tutto il mondo, relegando il discorso nel migliore dei casi al modo cattolico più sensibile al fenomeno, nel peggiore anche qui alle destre. È mancata una cultura eco-sistemica in grado di connettere i conflitti nei paesi lontani con le beghe della vita quotidiana del mondo occidentale. Il ceto medio stava bene, lo spazio era vissuto come sufficientemente ampio da poter spostare fuori progressivamente i poveri, i diversi, i malati, gli sbagliati di ogni sorta.
Il discorso neoliberista puntava l’accento sulla responsabilità individuale del successo e del benessere, sul merito, sulla volontà.
Nel mentre si abdicava a costruire una visione contemporanea dell’annosissima questione meridionale, della riconversione dell’industria al sud, ma anche a Genova, in Piemonte, altrove. L’attenzione si spostava colpevolmente sugli strumenti, sulla tecnica, sulla progressiva medicalizzazione e patologizzazione dell’umano sentire. Non è stato sufficientemente al centro del dibattito il concetto di “sperequazione di reddito” ovvero la differenza tra chi ha tanto e chi ha poco, il male di tutti i mali. A tal punto che oggi c’è bisogno di spiegare perché non è auspicabile una società polarizzata tra ricchi e poveri e soprattutto è diventato difficile in termini di dibattito accogliere il principio di redistribuzione quale vantaggio per tutti, controintuitivamente anche per i ricchi. La prova è che basta dire “patrimoniale” per suscitare isteria collettiva. Le riforme fiscali hanno avallato e amplificato questo sostrato culturale, tassando il reddito da lavoro e alleggerendo le imposte sui patrimoni, anche su quelli ereditati, favorendo enormemente la destinazione delle abitazioni ad uso turistico a scapito di politiche orientate a supportare il reddito da lavoro.
La precarizzazione del lavoro ha esarcebato la necessità di dover dedicare il proprio tempo alle proprie cose
La precarizzazione del lavoro, significativa sin dalla fine degli anni novanta ha esarcebato la necessità di dover dedicare il proprio tempo alle proprie cose, riducendo così la capacità di ciascuno di contribuire a spazi di libero scambio, dalle partite a carte all’organizzazione di rassegne cinematografiche.
Chi ha resistito lo ha fatto per inclinazione o buona volontà aggrappandosi alle residue esperienze dei centri sociali ancora in vita, alla nostalgia, agli studi, all’esperienza personale di ricchezza derivante dallo scambio, dall’impegno, dal divertimento, dal poter usare luoghi liberi e aperti, come le piazze..
La crisi economica del 2008 se da un lato ha ulteriormente accelerato pratiche di stampo neoliberista, dall’altro ha permesso di riattualizzare esperienze passate. È iniziato un nuovo dibattito accompagnato da esperienze puntiformi, un piccolo movimento sempre sul crinale tra il rinforzare il credo dominante attraverso pratiche poco più che folkloristiche e il reale tentativo di riaprire insieme al dibattito spazi di cittadinanza, rimettendo al centro la necessità di riflettere sui beni comuni, sulle periferie, sulle città, sulla cittadinanza, sul lavoro, sulle questioni di genere. Rimangono sicuramente assenze pesanti sulla scena e tra queste il dibattito sulla salute mentale, svenduto tra un fuorviante e nefasto concetto di benessere e la progressiva patologizzazione di tutto, prerequisito fondamentale per attuare la rimozione collettiva forzata del lutto che stiamo sopportando e per abilitare che non ci resta che fare yoga in cucina per distrarci dal futuro che incombe.
Questo movimento ha rimesso al centro una riflessione sul concetto di comunità assumendosi l’onere di non lasciarlo unicamente alle destre (cercate su instagram #comunità). Leggo quindi oggi per la prima volta con chiarezza che questa serie di esperienze che sicuramente hanno peccato di nuovismo, innovazionismo, giovanilismo e hipsterismo, ha sicuramente con grande fatica assunto un onere pesante. Rigenerare eredità in macerie, relitti dismessi apparentemente inutili. Spazi, diritti, concetti, pratiche.
Come se collettivamente ci si fosse fatti carico di selezionare in un archivio infinito gli elementi da rinnovare e rilanciare. E se l’eredità è carico di chi eredita, allora in questo inquadro la possibilità di innovare sul serio, spingendosi oltre, molto oltre il conosciuto.
Questo insieme di esperimenti ha provato faticosamente a divulgare concetti, riaprire discorsi ormai chiusi e attualizzarli. Perché la vulgata capitalista ha nel migliore dei casi percolato di oblio le conquiste fatte dalle generazioni precedenti e nel peggiore ha sviluppato discorsi e retoriche volti a denigrare sistematicamente il pubblico, l’equo, il condiviso, le donne, i diritti, etc.
La vulgata capitalista ha nel migliore dei casi percolato di oblio le conquiste fatte dalle generazioni precedenti
Nella divulgazione includo la capacità di attualizzare, ricostruire un linguaggio permeato di senso che possa essere compreso dai più oggi. E questo è stato fatto per lo più attraverso luoghi in cui incontrarsi per contaminarsi, per discutere, per provare, per sbagliare, per scambiare, per costruire qualcosa di comune che si fa esperienza: chiamiamoli per comodità nuovi centri culturali.
Oggi, giorni in cui ci interroghiamo se davvero questi posti riapriranno, mi sembra più semplice intuire il compito che comunque aspetta a chi in questa piccola nicchia lavora e si impegna. In questa situazione di negazione di spazio comune e pubblico che tutti stiamo ancora vivendo causa Covid, di evidenza di fragilità pregresse che emergono con forza e brutalità dopo oltre due mesi di lockdown e alla vigilia incerta di aperture progressive, abbiamo la sensazione che in molti si stiano accorgendo di cose di cui parliamo da anni: l’importanza dei quartieri, degli spazi pubblici, delle relazioni sociali, della solidarietà, dell’aiuto reciproco, della cura non solo come intelaiatura di base di strutture sociali che si sono rivelate più resistenti di altre, ma come pratiche a disposizione per costruire il futuro di tutti come racconta Filippo Tantillo.
Sappiamo che assumersi l’onere del “keep it complex” non vuol dire ritirarsi in micro-comunità di elaborazione di pensieri e pratiche col rischio di favorire l’arretramento sui territori, la riduzione dei presìdi socio-culturali, delle risorse economiche, della cura del collettivo. Elementi che hanno lasciato un profondo senso di solitudine in tutte quelle donne e quegli uomini che continuano a fare un lavoro di territorio, educativo, politico, culturale, civico e che con mezzi sempre più scarsi cercano di costruire comunità coese e aperte, porose e ibride costruendo narrazioni e rappresentazioni fragili ma in grado di incrociare magari in maniera determinante la vita di giovani, giovani adulti e non più giovani.
Oggi quindi si può e si deve divulgare con più forza perché si è fatta una esperienza estrema comune e disuguale del disagio e del malessere che deriva dalla mancanza di spazio utile per incontrarsi, apprendere, scambiare, lavorare, accudire, sognare. Possiamo agire divulgando, almeno finchè dura la memoria di quell’alleanza di corpi (per usare un titolo felice) che ha caratterizzato le nostre vite fino a poco tempo fa, per allargare il portato di quelle esperienze che invece rischiano di scomparire e magari così rigenerarle includendo nuovi pubblici e nuovi interlocutori.