Un progetto del progetto. L’ossessione di Sekiya Masaaki si chiama Carlo Scarpa

Si può fotografare l’architettura allo stesso modo con cui un anatomopatologo lavora su un corpo, aprendo e cucendo con cura, scrutando con minuzia e insistenza, analizzando e verificando. Sekiya Masaaki è arrivato a ossessionarsi per quel corpo e ci è tornato una quantità di volte e ogni volta facendosi strada, intuendo e ispezionando e riprovando ancora. L’ha documentato in ogni minuto dettaglio e da qualsiasi angolazione, affastellando immagine dopo immagine, finendo per diventare il biografo visivo di un corpo che sentiva parlargli ancora. L’ossessione di Sekiya Masaaki si chiama Carlo Scarpa (1906-1978) e il corpus delle sue opere architettoniche è il corpo steso sul tavolo dei luoghi dove sono state costruite. Se Sekiya Masaaki non c’è riuscito fino in fondo, è solo perché il suo di corpo si è fermato nel 2002, all’età di sessant’anni.

J.K. Mauro Pierconti, storico dell’architettura alla Fondazione Benetton Studi Ricerche, scuote la testa: «Non sappiamo come sia nata l’ossessione per Carlo Scarpa. Non ha lasciato diari o appunti, ma crediamo che abbia iniziato già dalla fine degli anni ’80 e ha continuato fino alla morte. Per anni è andato da Tobia, il figlio di Carlo, mollava le sue cose e iniziava». Di sicuro, racconta, «aveva viaggiato molto, si era confrontato con i lavori di tanti architetti. Penso a Wright, Mackintosh e i viennesi, primo fra tutti Otto Wagner. Lo affascinava una linea di sviluppo dell’architettura contemporanea cosiddetta ‘organica’, più attenta alla qualità dei materiali e dei dettagli, piuttosto che quella tradizionalmente razionalista. E tutto questo, secondo me, l’ha condotto inevitabilmente nelle braccia di Carlo Scarpa».

L’idea era proprio mettere a punto «un’opera totale», come la definisce Pierconti: «Sekiya Masaaki aveva predisposto la struttura dei volumi, compreso un indice ragionato; per ognuno intendeva utilizzare duecento fotografie per un totale di mille foto: un’operazione di selezione che era già di per sé un’opera. E si era prefissato di fotografare tutti i disegni, di cui aveva solo alcune centinaia di scatti. Ma lo avrebbe fatto, ne sono sicuro, così come ha fatto con Otto Wagner». Perché, in realtà, prima del celebre architetto veneziano, Sekiya Masaaki aveva vissuto un’altra vertiginosa ossessione, proprio per il viennese. E in quel caso c’era riuscito: «Nel 1998 ha pubblicato i suoi quattro volumi, selezionando per ognuno cento foto tra le trentamila scattate, usando ogni mezzo per realizzarle, inerpicandosi su una gru e persino noleggiando un elicottero. E se a questo sommiamo le foto di tutti i disegni, ci troviamo in mano un’opera monumentale». Il fatto che un fotografo di edifici si incaponisca anche con i disegni preparatori racconta della caparbietà con cui Sekiya Masaaki ha dato forma alle sue ossessioni: «Dal disegno alla realizzazione, il suo progetto era l’intero progetto». Un progetto del progetto, dunque.

Per avere idea di questo diorama maniacale, si può andare a Ca’ Scarpa, la nuova sede espositiva della Fondazione Benetton, dove ha aperto l’esposizione Carlo Scarpa / Sekiya Masaaki. Tracce di architettura nel mondo di un fotografo giapponese (fino al 16 luglio 2023), curata proprio da J.K.Mauro Pierconti. «Rileggere, rivedere oggi l’architettura di Carlo Scarpa alla luce delle fotografie di Sekiya Masaaki ci dà l’opportunità di confrontarci e di meditare ancora una volta sull’importanza e sul senso del ‘progetto’, non solo come strumento d’intervento sulla città, ma anche come operazione culturale inserita nella società».
Questa è una possibile spiegazione delle ossessioni di Sekiya Masaaki di fronte ad architetti capaci di immaginare e lavorare edifici che preservano e ribaltano il contesto dove si inseriscono e riescono a manipolare la realtà con lo sguardo di chi li osserva, sollecitare il gusto della visione, far muovere gli spazi senza fughe prospettiche. Questo spiega anche l’insistenza per certe pareti, soluzioni spaziali, interlocuzioni tra il dentro e il fuori, anfratti e soprattutto la meraviglia di fronte alla ricchezza di materiali, decori, elementi costruttivi, aperture e svelamenti, curvature. Sekiya Masaaki sembra ipnotizzato di fronte alla tensione permanente che Scarpa riesce a provocare a chi attraversa il suo costruito.

E arriva a cogliere, nella intimità maturata fra i due, le stesse ossessioni di Scarpa, «come quella per vari esemplari di meccanismi, non semplici macchine, ma veri manufatti d’opera, cioè dotati non solo di una funzione operativa ma anche estetica – racconta Pierconti – E poi questo suo leggere e rileggere, questo suo tornare e ritornare, che si materializza nella sovrapposizione di fogli su fogli sopra la medesima pianta». Non assomiglia proprio al processo creativo e di produzione del suo fotografo? Significa questo, allora, essere un fotografo di architettura? «Di sicuro è questo che dà il senso di un talento ‘al servizio’ di qualcuno: Sekiya Masaaki è là per servire all’opera di Carlo Scarpa». E aggiunge: «Non esiste ancora un apporto critico sul suo lavoro fotografico. Era un solitario e le notizie su di lui sono pochissime. Così la sua attività fino ad ora non può essere trattata se non in modo frammentario». 

A vedere la sequenza di scatti, uno accanto all’altro, dello stesso elemento, come i due fori intrecciati all’ingresso della Tomba Brion, ma a diverse ore del giorno e in differenti condizioni atmosferiche, è come se davanti comparissero tanti oggetti diversi. Forse è questo ciò che voleva dirci Sekiya Masaaki, la verità semplice per cui è il nostro sguardo a creare la realtà, non il contrario. La sua non sembra l’opera di un catalogatore bulimico dell’oggetto della sua ossessione, ma una architettura di scelte precise, studiate e valutate, in una operazione estetica e dunque politica dello sguardo posto sugli edifici. «Aveva una grande macchina, stampava su pellicole in grande formato. Le inseriva dentro una busta trasparente e le studiava, faceva i tagli della luce, si appuntava dove scurire o quali parti mettere in risalto, poi tornava sul luogo e le rifaceva. Più e più volte. Aveva una disciplina e una pazienza senza fine. Le foto sono curate in ogni micro-dettaglio e così la successiva selezione per le pubblicazioni».
Lo sguardo di Sekiya Masaaki ci racconta anche l’impatto che il Giappone ha avuto sull’architetto veneziano.

«Per Scarpa il Giappone ha rappresentato tante cose: un riferimento, un modello, una conferma, una consolazione ma, soprattutto, la consapevolezza di come il senso della tradizione possa rimanere attivo e funzionante anche nel tempo presente», riflette Pierconti. Così allora comprendiamo quell’orchestrare suoni, ad esempio, come parte germinativa dell’architettura. Per restare al caso della Tomba Brion, che impressionava così tanto Sekiya Masaaki, l’acqua può arrivare a dilatare o a rannicchiare la percezione degli spazi, come Scarpa aveva scoperto in un giardino di muschio e in un bosco di bambù. È la pioggia che scroscia sulla ‘Tomba dei coniugi’ o il gocciolamento studiato dalla feritoia nellla ‘Tomba dei familiari’.

Si possono fotografare i suoni delle architetture? «Al pari di Scarpa, Sekiya Masaaki ha trattato Brion come un’opera nella natura. Sono molti gli scatti in cui la presenza di piante o di particolari condizioni di luce oppure ancora determinate condizioni atmosferiche vengono semplicemente accolte dal fotografo. Credo che da un lato, quindi, la natura gioca il suo ruolo, nel senso che restituisce al tempo l’opera architettonica; dall’altro, però, è l’architettura stessa che emerge. Laddove molti fotografi si concentrano sui volumi, le masse, la luce e le ombre, Sekiya Masaaki non vedeva superfici, ma materiali». Un esempio, continua Pierconti, è «il modo con cui tende ad avvicinarsi al corpo architettonico: in alcuni scatti dell’arcosolio, la struttura gli arriva addirittura addosso. Alla base di tutto, credo che ci fosse un profondo interesse per la natura materiale dell’architettura e la ricchezza del suo spazio e poi uno studio così intenso sugli architetti che fotografava». Perché questa, alla fine, è pur sempre una storia di ossessioni.

In un giro del destino, come il gioco intrecciato dei propilei dai Brion, un giorno di pioggia Carlo Scarpa si feriva, cadendo mentre scendeva le scale della stazione di Sendai, per poi morire pochi giorni dopo. In Giappone, naturalmente.

 

Immagini: Ultima opera di Carlo Scarpa, tra le sue più complesse, originali, significative, realizzato tra 1970 e 1978. Fotografie di Sekiya Masaaki.