Spazi e cultura

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Su cheFare ci occupiamo spesso di rigenerazione urbana, di strategie adottate da centri culturali di nuova concezione per produrre e far circolare cultura, di processi innovativi per valorizzare patrimoni industriali dimenticati. Non è solo una nostra fissazione. Dagli oltre 1800 progetti che ci sono arrivati in questi anni di lavoro gomito a gomito con le comunità della trasformazione culturale un segnale è arrivato forte e chiaro: un numero crescente di soggetti, a tutti i livelli (associazioni, movimenti sociali, imprese, fondazioni, università), si sta rendendo conto che c’è bisogno di ripensare radicalmente il rapporto tra cultura e spazi urbani.

Spesso le teorie e le pratiche, le analisi e le soluzioni che stanno emergendo divergono in modo sostanziale: ad un’estremo dello spettro del dibattito c’è chi saluta in modo entusiastico – e sostanzialmente acritico – la nascita di ogni nuovo co-working e centro polifunzionale; all’altro estremo c’è chi vede i nuovi esperimenti come fumo negli occhi destinato ad occultare una realtà che, tra immobilità politica e mancanza di mezzi, è destinata inesorabilmente allo sfacelo. In mezzo si articolano una pluralità di posizioni, talvolta inconciliabili tra loro e troppo spesso non supportate da dati ed evidenze empiriche.

Ma perché proprio adesso? Quella che sembra un’accelerazione improvvisa è in realtà il risultato di una mancata sintonizzazione con tendenze di ampio corso che hanno interessato molti altri paesi europei negli ultimi venti anni. Non che in questo periodo siano mancati in Italia casi significativi: basti pensare alla rigenerazione radicale dei centri storici di città come Genova o al movimento dei Centri Sociali, che spesso proprio del recupero di edifici industriali hanno fatto il proprio cavallo di battaglia. Eppure la trasformazione portata della de-industrializzazione delle nostre città e delle nostre economie (perché di questo si tratta) è rimasta per troppo tempo ai margini del dibattito pubblico e delle pratiche culturali.

Oggi assistiamo al tentativo da parte di soggetti delle tipologie più diverse di costruire il passaggio a forme di economia sempre più basate sulla conoscenza e sul valore immateriale. La proliferazione di co-working, centri culturali e spazi ibridi è il segno chiaro della necessità (che spesso emerge dal basso e cerca interlocutori nelle pubbliche amministrazioni) di trovare soluzioni tangibili e concrete alle nuove sfide economiche, sociali e culturali della contemporaneità in termini di mercato del lavoro, governance territoriale, innovazione del settore culturale.

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Certo, spesso dietro a questa tendenza si nascondo tentativi anche maldestri di costruire nuove identità per le città, più attrattive nei termini di una competizione per i capitali globali che molte esperienze internazionali hanno già dimostrato essere inefficaci sul medio e lungo periodo. La letteratura che mette in evidenza l’inutilità di soluzioni “cosmetiche” a basso costo al posto di interventi strutturali per risolvere le criticità profonde dei territori è ormai consolidata e mette pesantemente in discussione molti percorsi di marketing urbano.

Nonostante ciò, in molti centri grandi e piccoli si sta sperimentando la costruzione di nuove forme virtuose di partnership tra pubblico, privato e terzo settore che costruiscono nuovi spazi per la cultura e la socialità sbloccando un’immobilità decennale da parte delle pubbliche amministrazioni. Se questa tendenza non impedisce l’emergere di situazioni contraddittorie sul piano della governance urbana (che fatica a recepire istanze e interessi conflittuali da parte di gruppi di cittadini diversi, come risulta evidente dalle ondate cicliche di chiusura di locali per la musica dal vivo), è chiaro che stanno maturando soggetti che, in risposta alla crisi, sperimentano dal basso forme di organizzazione diverse, in grado di affrontare sfide più impegnative.

Rimangono grandi incognite sul piano della sostenibilità economica di medio e lungo periodo, non solo per quello che riguarda il mantenimento degli spazi ma anche e soprattutto per quello che riguarda la produzione culturale in senso stretto. Nonostante il proliferare delle pratiche, c’è una conoscenza ancora molto scarsa di quale panorama si sta configurando, di quali sono le possibili letture dell’oggi e le linee di sviluppo per il domani.

È per questo che Fondazione Feltrinelli e cheFare hanno deciso di unire le forze per bandire una borsa di studio della durata di 10 mesi per sistematizzare e rendere più accessibili le ricerche finora prodotte in campo nazionale e internazionale e per approfondire i casi italiani più interessanti. Vediamo questo sforzo come un passo necessario per far sì che le pratiche culturali collaborative dal basso trovino una sempre maggiore consapevolezza della propria forza e della possibilità di essere protagoniste dei processi di governance dei territori in cui operano.
E adesso, fatevi avanti.

Per tutte le informazioni tecniche relative alla borsa di studio qui


Immagini da Monumenta 2016, Huang Yong Ping