La patria del futuro: un esempio di artigianato

All’interno de La patria, la poetessa Patrizia Cavalli si riferisce a una bottega d’artigiano come una delle possibili sedi in cui ritrovare l’Italia odierna: “…la patria ama le piazze, / ma solo se a animarle c’è il mercato, / non certo se le invade l’ululato / dell’orrido bestiame, che allora scappa / va per vicoli, s’inguatta in qualche piccola / superstite bottega d’artigiano, / l’aristocratico artigiano che disprezza / l’avidità volgare della fretta” (Patrizia Cavalli, La patria, in Datura).

In un’incantevole piazzetta, un po’ nascosta, nel centro di Grottaglie si sale una scaletta che non lascia presagire quello che si troverà al primo piano. Un antro favoloso, con il soffitto ad ampie volte che ricorda una chiesa, o una grotta sottomarina, le pareti di tufo un pochino scrostate. E, dappertutto, accumuli eleganti e ordinati di moduli: vasi, brocche, pigne, piatti, anfore, bicchieri, coppe, tazze…

Al centro, un omino silenzioso, dolce e implacabile perennemente seduto davanti al tornio, illuminato da una bella lampada da scrivania anni Settanta. Tutto qui dentro è sospeso – eppure, si avverte la cura di ogni cosa come una sottile corrente elettrica che pervade questo spazio immobile. Non si percepisce la conservazione del passato, quanto piuttosto il suo continuo trasferimento (in forma di tradizione culturale tangibile) nel presente, e di lì nel futuro che in questo presente collassa e crolla. È la “patria” di cui parla Patrizia Cavalli, e davvero Carmelo Vestita incarna perfettamente quell’“aristocratico artigiano che disprezza / l’avidità volgare della fretta”.

Questo spazio mentale e fisico è pressoché impermeabile alle sirene odierne, che parlano di start-up, imprese creative, innovazione digitale – chiassose e squillanti parole d’ordine che spesso compongono discorsi e retoriche di retroguardia; d’altra parte, nulla di più lontano dal luogo di produzione di souvenir e di stereotipi fatti in serie. Qui il rapporto tra la creatività e il territorio, e la stessa idea di contemporaneo, vengono declinati in una versione più sotterranea, silenziosa, umile ma proprio per questo più resistente.

In questa grotta-cattedrale, Carmelo mi chiarisce ciò che ha imparato dalla sua esperienza cinquantennale: “L’aver cura delle proprie cose, degli spazi e del proprio lavoro è nel dna dell’artigiano. Tu cresci nello e insieme all’ambiente in cui vivi e lavori, lo adatti a te stesso. Penso anche alle possibilità lavorative che offre uno spazio, soprattutto per poter realizzare oggetti di una certa mole come avveniva una volta, quando ho iniziato (i capasoni, per esempio). E credo che torneremo a produrre oggetti di quel tipo, perché la loro materialità fa vivere meglio.”

Questo sistema concettuale e operativo – che prevede l’errore, il tentativo – confligge, forse inconsapevolmente, con la struttura interna della cultura contemporanea, che appare invece sempre più articolata secondo lo schema dei futures: alla previsione del futuro, infatti, è subentrata la “predeterminazione” di un futuro programmato sulla base dei valori e delle esigenze attuali.

Futuro come programma – come procedura – e non come progetto. Ora, esiste una contraddizione enorme e insormontabile tra la cultura come processo immaginativo e come produzione “vivente”, e un tipo di programmazione che richiede come sua precondizione lo “stare mortale” di cose, opere, individui, pensieri. Il futuro in questa versione non è più qualcosa che per definizione non-esiste, ma è predefinito: una sorta di presente che “sta” in un’altra zona temporale, e che burocraticamente accade.

Questo esempio piccolo ma concreto di bottega contiene il seme di un punto di vista al tempo stesso antico e nuovissimo, fondato su un sistema di valori incommensurabile con un oggi che appare già piuttosto obsoleto in molte sue forme. Perciò, come afferma Patrizia Cavalli, la nostra vera patria regionale e nazionale “Sì, è più facile trovarla in chi lavora, / soprattutto se lo fa con le sue mani.”

da La Gazzetta del Mezzogiorno