La nuova gloriosa edizione dei Bauhausbücher
Nel 1971, nell’introduzione al suo bestseller Design for the Real World, Victor Papanek si lamentava: “Da quando, verso il 1924, il Bauhaus tedesco ha pubblicato i suoi quattordici volumetti, la maggior parte delle pubblicazioni [di teoria del design] non ha fatto che ribadire gli stessi metodi, aggiungendo solo orpelli…”1 Victor Papanek, Progettare per il mondo reale [Design for the Real World, 1970], traduzione di Guido Morbelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, p. 12. .
Sono passati quarant’anni, è passata molta acqua sotto i ponti. Le pubblicazioni e le sperimentazioni si sono moltiplicate, aprendo nuove direzioni alla ricerca, alla teoria e alla pratica del design. E, oggi, nel momento in cui la Presidente della Comunità Europea Ursula von der Leyen propone la fondazione di un New European Bauhaus, l’eredità della mitica scuola fondata a Weimar nel 1919 e delle sue storiche edizioni non è venuta meno, anzi assume una nuova attualità.
Tra le varie iniziative legate ai festeggiamenti per il centenario dalla fondazione dello Staatliches Bauhaus, volte a misurare l’impatto storico della gloriosa istituzione, una delle più importanti e destinate a lasciare un effetto duraturo, è la ripubblicazione da parte dell’editore svizzero Lars Müller dei mitici Bauhausbücher.
Il progetto di questa collana, ad opera del fondatore e direttore del Bauhaus Walter Gropius e del suo collega Laszlo Moholy-Nagy, risale al 1923. L’obiettivo è di analizzare “questioni tecniche, scientifiche e artistiche dal punto di vista delle loro relazioni”2Frase estratta dalla pubblicità della prima edizione, 1925. , e di “connettere la scuola d’avanguardia al vasto orizzonte dei fenomeni del mondo moderno, ponendo le basi di un nuovo design, che estende le sua applicazione a tutte le sfere della vita quotidiana”3Astrid Bähr, direttrice del Bauhaus-Archiv/Museum für Gestaltung, Berlin, in nota introduttiva alla pubblicazione dei Bauhausbücher, Lars Müller, 2020. . Per questioni economiche, i primi otto volumi appaiono solo nel 1925, con la complicità dell’editore Albert Langen. Nel 1928 sono pubblicati altri quattro volumi e nel 1930 gli ultimi due (di una collana che, secondo le intenzioni degli editori doveva essere composta di cinquantatre volumi). I due direttori che succedono a Gropius, Hannes Meyer e Ludwig Mies van der Rohe decidono di non continuare la pubblicazione.
Improntata a una cura filologica che soddisferà i più esigenti bibliofili, la preziosa riedizione di Lars Müller rispetta non solo il formato, i testi e le illustrazioni originali, ma anche la veste grafica e tipografica curata da Moholy-Nagy, ottimizzando solo dei dettagli tecnici, come la scelta della carta e della rilegatura e proponendo per la prima volta, per alcuni testi, la traduzione in inglese. Ogni volume è accompagnato da un corto testo introduttivo di Astrid Bähr, curatrice del Bauhaus-Archiv al Museum für Gestaltung di Berlino (presentato su un foglio libero, inserito nel risvolto della copertina). I primi 8 volumi sono attualmente in commercio, gli altri 6 sono previsti per l’anno prossimo.
È quindi oggi possibile riscoprire questi documenti dal valore storico inestimabile, che testimoniano di un momento unico, in fragile equilibrio, ma ancora ricco di speranze e di slanci progettuali. Ma soprattutto si tratta, come Papanek aveva giustamente sottolineato, dei fondamenti della teoria dell’arte e del design moderno.
Ogni volume costituisce una pietra miliare. Se il primo afferma, con il titolo International Architecture, i principi dell’architettura moderna, dettati da Gropius, il terzo ne mostra l’applicazione (A Bauhaus Experimental House in Weimar), mentre il settimo illustra una larga selezione di oggetti di design. Il volume 2 presenta il Pedagogical Sketchbook di Paul Klee mentre i volumi 4 e 5 introducono le teorie di due grandi maestri dell’astrazione e dell’avanguardia neo-plastica olandese Piet Mondrian (New Design, n.5) e Theo Van Doesburg (Principles of Neo-Plastic Art, n.6). Completano la serie The Theater of the Bauhaus di Oskar Schlemmer (n. 4) e Painting Photography Film di Moholy-Nagy (n. 8).
Al di là dell’importanza storica dei testi, la veste grafica, pensata da Moholy-Nagy (ad eccezione del n°9, realizzato da Herbert Bayer), rivela un’inattesa attualità: se la partizione dello spazio delle copertine attraverso semplici linee e campiture richiama il rigore astratto della tradizione neoplastica, l’uso sapiente della tipografia e delle immagini e della tecnica del fotomontaggio, introduce una tensione non solo formale ma anche simbolica all’impaginato, e costituisce un modello che è riconoscibile ancora oggi in molte creazioni grafiche.
Ma cosa significa risfogliare e rileggere oggi questi documenti, o meglio, questi monumenti della storia delle arti e del design? L’abbiamo chiesto a sei testimoni d’eccezione.
Secondo Domitilla Dardi, storica e curatrice al MAXXI-Architettura di Roma, autrice (insieme a Vanni Pasca) di Manuale di storia del design (Silvana editoriale, 2019), “per comprendere l’importanza dei Bauhausbücher, è necessario considerare due tipi di contesti storici: quello della loro comparsa e il nostro. La collana segna un periodo cruciale della storia del Bauhaus reso esplicito dal passaggio da Weimar a Dessau e poi dall’alternanza tra Gropius e Meyer. I piccoli libri sono la conferma della prevalenza dell’anima razionalista su quella espressionista della prima fase della scuola, quindi quella orientata al prodotto industriale, seriale, ripetibile. Lo sono nella scelta dei titoli, degli autori, ma anche nel formato (tascabile, contenuto, agile) e nella grafica (universale, comprensibile, geometrica). Attraverso font, foliazione, scelta della carta e del colore tutto parla di un mondo indirizzato alla ripetibilità della qualità e alla diffusione democratica del sapere. Il programma dei Bauhausbücher è quello dell’industrial design moderno. E lo è ancor di più perché contiene in sé una traccia, una dose omeopatica ma efficace, di ‘artigianalità’, intesa come costruzione della tipografia e cura del dettaglio. Ecco perché oggi la loro lezione risuona attuale più che mai: la collaborazione tra testo e immagine, la costruzione grafica coadiuvata dal colore misurato rendono la materialità del libro qualcosa di prezioso e imprescindibile ancor di più nell’esperienza contemporanea, dove l’azione della stampa materiale è una scelta e il valore di un volume è nella sua coerenza di progetto pensato. Quando quasi tutto è immateriale e digitale, la fisicità è una conquista e il pregio è nelle idee. Così per questi piccoli libri, quasi dei quaderni, grandissimi nell’idea, nella forza progettuale e nella coerenza della linea editoriale”.
Autore dell’importante volume Art et industrie: philosophie du Bauhaus (1999, 2015), il filosofo francese Pierre-Damien Huyghe, professore emerito all’Università Paris I-Sorbonne, ricorda come in Francia una buona parte della critica del Bauhaus si è basata sui pochi testi tradotti in lingua francese, tra cui l’assenza dei Bauhausbücher era eclatante: “Questo stato di cose mi sembra esemplare della situazione più generale di Gropius e Moholy-Nagy in Francia. Se questi nomi erano conosciuti (soprattutto il primo), le pratiche e le teorie che potevano evocare restavano – e, in parte, restano ancora – in una specie di zona protetta. Qualunque sia il superego o il presunto principio di realtà che ci ha fatto temere le loro dinamiche, testuali e specialmente formali, non ci siamo ancora permessi di prendere coscienza. Il loro pensiero è stato trasmesso nella condizione paradossale di una relativa ignoranza». Di conseguenza, «la disponibilità dei Bauhausbücher, nella loro integralità testuale e nella loro unica ricchezza grafica e visuale, permetterà ora di riconsiderare l’attualità dell’eredità fondamentale del Bauhaus”.
Da parte sua, Alain Findeli, professore all’Università di Montréal, autore di Le Bauhaus De Chicago: L’ouvre Pedagogique De Laszlo Moholy-Nagy (Klincksieck, 1995), ricorda come, grazie a una borsa di ricerca canadese, ha potuto consultare tutta la corrispondenza di Gropius e Moholy-Nagy, conservata al Bauhausarchiv di Berlino e relativa al progetto Bauhausbücher.
Come spiega, “a un secolo di distanza, è possibile capire oggi come la visione di Moholy-Nagy fosse in anticipo sui tempi, perché solo recentemente l’idea che il design fosse fondamentalmente interdisciplinare (in teoria) e interprofessionale (in pratica) ha cominciato a diventare una realtà. Moholy-Nagy era convinto che per essere un buon Gestalter fosse essenziale acquisire e integrare una visione del mondo basata sullo stato della ricerca contemporanea nei vari campi scientifici e artistici, ma anche politici e tecnologici – come aggiunge nel suo volume Von Material zu Architektur, che chiude la serie dei Bauhausbücher pubblicati. In altre parole, il design deve essere all’incrocio tra una cosmologia (“[la visione in movimento] è un mezzo per comprendere la nuova dimensione [del mondo]”) e un’antropologia (“il futuro ha bisogno dell’uomo in tutte le sue dimensioni”) perché “non è l’oggetto, ma l’uomo lo scopo [del design]”.
Bisognerebbe rileggere gli interi primi due capitoli di Vision in motion dove si trova la formula mille volte citata (ma spesso mal attribuita) “il design non è una professione ma un’attitudine”. In un certo senso, è proprio quest’attitudine l’obiettivo del progetto pedagogico alla base della serie dei Bauhausbücher. L’ermeneutica dell’arte moderna che Moholy-Nagy presenta nel resto del libro indica come le arti erano e dovrebbero contribuire a questo ambizioso progetto: “Utopia? no, ma un lavoro da pioniere instancabile”.
David Bihanic, designer, insegnante all’Università Paris I-Sorbonne e Catherine Geel, storica del design e editrice, co-fondatrice del Dirty Art Departement al Sandberg Institut/Rietveldt Academy di Amsterdam e insegnante all’ENSAD di Nancy, hanno curato il volume Staatliche Bauhaus, cent pour cent, 1919-2019 (T&P Work Unit, 2019). Bihanic ricorda che “i Bauhausbücher hanno svolto una funzione essenziale per il Bauhaus: quella di promuovere i principi sperimentali delle avanguardie storiche, aprendo la strada allo scambio e alla condivisione di nuovi pensieri e idee, e, allo stesso tempo, permettendo di consolidare il quadro pedagogico e il programma della scuola. È importante ricordare che questo ricorso alla pubblicazione (in particolare attraverso i periodici) si rivelò all’epoca un formidabile strumento sia per esprimere e diffondere le varie posizioni “moderniste” che si stavano proponendo all’epoca. E la componente grafica assume un ruolo fondamentale, attribuendo a testi e immagini una forza retorica inedita. Pensiamo, oltre ai Bauhausbücher il Journal (1926-1931) del Bauhaus, realizzato da Moholy-Nagy e poi da Joost Schmidt, o a Die Form (1922-1935) del Deutscher Werkbund, ai magazine russo SA (1925-1930) del gruppo OSA, legati all’istituto Vchutemas, la cui veste grafica è opera del talentuoso design russo Alexei Gan.
In ogni caso, non c’è dubbio: nonostante i numerosi tentativi che sono seguiti (fino ai giorni nostri) di replicare e a volte reinventare questo genere di pubblicazione, da parte di istituzioni o scuole d’arte e design o università, non è emerso nulla di veramente paragonabile, nulla di così riuscito e influente. A mio parere, questo tipo di pubblicazione, che combina densità concettuale, teorica e creativa, è oggi totalmente carente. Speriamo che queste ristampe in facsimile di Lars Müller facciano nascere nuove vocazioni!”.
Se Bihanic mette in risalto l’innovazione grafica dei Bauhausbücher, Catherine Geel insiste sull’importanza della produzione teorica: “fino ad ora, si è data troppo poca enfasi alla portata storica di queste pubblicazioni. Invitando al Bauhaus come docenti alcuni fra gli artisti più famosi dell’epoca, Gropius li incoraggia all’esercizio teorico. Durante il soggiorno al Bauhaus, Kandinsky scrive Punto, Linea, Superficie (1926), Klee Teoria della forma e della figurazione (1923) e i suoi quaderni didattici (1925), Moholy-Nagy il suo manifesto Pittura, fotografia, film (1925) – questi ultimi due testi sono pubblicati per la prima volta proprio nella serie dei Bauhausbücher”.
“Allo stesso tempo”, aggiunge, “queste pubblicazioni rivelano uno dei paradossi del Bauhaus. Nato al momento in cui comincia ad affermarsi la cultura di massa, il Bauhaus adotta una strategia di «‘distinzione’ degli oggetti prodotti e destinati alla circolazione, in cui emergono il loro carattere elitista più che democratico. Allo stesso tempo, la volontà della scuola di comunicare costantemente4Cf. Jeffrey Saletnik, Robin Schuldenfrei (a cura di), Bauhaus Construct, Fashionning Identity, Discourse and Modernism, New York, Routledge, 2009., attraverso le mostre o le pubblicazioni, presentando oggetti statutari piuttosto che oggetti puramente funzionali intriga, e non è privo di connessioni con le strategie adottate dal marketing delle case di moda e di lusso, già dagli anni Venti.
Con questa strategia comunicativa, il Bauhaus mette in dubbio il proprio verbo essenzialista e funzionalista, dando origine invece a quell’economia politica del segno, per dirla con il sociologo Baudrillard5Jean Baudrillard, Pour une critique de l’économie politique du signe, Paris, Gallimard, 1972. – in cui l’oggetto determina una funzione simbolica, di distinzione sociale e culturale più funzionale – un approccio che caratterizza ancora in parte il design di oggi”.
Anche Tulga Beyerle, co-fondatrice della Vienna Design Week, attuale direttrice del prestigioso Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, esprime delle riserve: “dopo un centenario, che, per la mia percezione, si è occupato troppo acriticamente del Bauhaus, mi chiedo quale valore aggiunto abbia la ristampa dei Bauhausbücher. Certo, il materiale di partenza diventa più facilmente accessibile, ma il solo fatto che nell’annuncio sul sito dell’editore Lars Müller siano nominati esclusivamente autori di sesso maschile mi mette a disagio.
Nonostante l’entusiasmo per questi documenti, rimane una tensione dentro di me, perché essi sono monumenti del design anche per me, e difendono un design di grandissima qualità! Ma quanti altri entusiasmanti sviluppi del design tra le due guerre sono periti perché le figure principali erano sparse in tutto il mondo, mentre Mies e Gropius emigrarono con successo negli Stati Uniti, da dove il Bauhaus fu fatto migrare di nuovo in Germania nel dopoguerra come un design apparentemente democratico per scopi educativi. Ma forse sono solo stanca del fatto che continuiamo ad occuparci sempre e ancora di questo movimento di cento anni fa, mentre il mondo è cambiato così tanto, è diventato così complesso. Posso capire la nostalgia, il desiderio di purezza, funzionalità e bellezza, ma, per quanto mi riguarda preferisco abbracciare il caos, il fallimento, la fragilità e la diversità del nostro mondo”.
Di nuovo in circolazione, i Bauhausbücher riaprono il dibattito.