Come si ascolta la musica eventuale, oggetti e strategie per vivere la superficie acustica

One does not find free vibrating air just anyplace – Harry Partch

From making choices to asking questions – John Cage

Tuttavia, che c’è di più intimo, di più essenziale al corpo di eventi come crescere, rimpicciolire, essere tagliati?Gilles Deleuze


La prima parte di questo articolo può essere evitata, riguardando essa una serie di eventi assunti come volano del ragionamento: chi vuole, può iniziare a leggere dal secondo paragrafo.

1 È il 1962. Gilles Deleuze pubblica il libro su Nietzsche, il secondo della sua carriera, dove declama considerazioni perentorie, a pieno polmone, come se fosse posseduto dal filosofo tedesco. (Come scrisse Bataille: «Nietzsche scrisse “col suo sangue”: chi ne fa la critica o piuttosto la prova può farlo soltanto sanguinando a sua volta»). Deleuze si scaglia contro la dialettica mentre si stagliano alcuni dei concetti che avrebbero indirizzato la filosofia dell’evento: questa è la parola chiave su cui ci concentreremo.

A maggio dello stesso anno, Roberto Bazlen confida a Roberto Calasso, nel giorno del ventunesimo compleanno di quest’ultimo, che vuole far nascere la casa editrice Adelphi, per pubblicare proprio Nietzsche. Sempre nel 1962, Umberto Eco pubblica Opera aperta, dove mette a e in sistema Cage (che dieci anni prima pubblicava 4’33”) e tante altre strategie e pratiche di testualizzazione (alcune avrebbero dato corpo, pochi mesi dopo, al Gruppo ‘63, di cui Eco era partecipante e teorico) che comportano la chiusura di un testo da parte di chi legge (ascolta, vede) e non da parte di chi scrive (o compone). Detta meglio: il rifiuto deliberato da parte dell’autore di chiudere un testo apre all’opportunità (nostra, di chi riceve quel testo) di lasciarlo aperto. Un paio di lustri più avanti, John Cage dirà a Daniel Charles, in una delle conversazioni pubblicate in For the birds, che, se l’interprete diventa compositore, e se il pubblico può diventare interprete, il compositore diventa ascoltatore. Si mette all’ascolto. Chiude il cerchio riaprendolo

E ancora: nel sessantadue Jean Baudrillard sta iniziando a scrivere la sua tesi di dottorato, seguendo i seminari di Roland Barthes all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi… da lì germinerà il Sistema degli oggetti. E l’oggettualità ha molto a che fare con questo articolo. Sempre nel 1962, il 9 giugno, presso lo Städtisches Museum di Wiesbaden, ha luogo una manifestazione dal titolo Aprés Cage; Kleinen Sommerfest: un “piccolo festival estivo” sul “dopo Cage”: iniziativa targata Fluxus (anche se l’inizio ufficiale delle iniziative del movimento viene datato settembre sessantadue), su spinta di Maciunas, a qualche mese dalle conferenze musicali (sempre Fluxus) dal titolo Musica Antiqua et Nova, ma soprattutto nel pieno dell’assemblaggio della Anthology of Chance Operations…, che vide la luce l’anno dopo. Henry Flynt diceva di Maciunas che in pochi mesi (dalle conferenze musicali) fu trasformato, grazie al rigore trascinante di LaMonte Young, da conservatore in estremista, proprio in ambito musicale.

Ora, tutta o gran parte di questa collezione di indizi (fanno prove?) sembra concentrarsi verso una cosa importante: la negazione della dialettica. Siamo in un periodo in cui dialettica significa marxismo e fare a meno della dialettica significa vedersi aprire davanti agli occhi un gigantesco punto di domanda sul marxismo stesso. E in Italia e in Francia era quantomeno antipatico. 

Avanzava, con gli eventi, il problema della soggettività e dell’oggettività, ad affiancare quello della dialettica tra soggetti (anzitutto tra autore e lettore). È con Logica del senso che Deleuze, qualche anno dopo, metterà al centro del suo pensiero il concetto di evento, riprendendolo dagli stoici. L’evento è incorporeo, non è un oggetto, è pura superficie, è uno strano effetto che opera fuori dalle catene di causa-effetto. Gli eventi permettono anzitutto la riappropriazione e il ripopolamento, da parte dell’incorporeo, della superficie. Significa uscire dalla gerarchia per cui ciò che è profondo è meglio di ciò che è superficiale. L’evento è puro presente, come Aiôn: «l’istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro». Bisogna accettare gli eventi e «diventare degni di ciò che ci accade», essere figli «dei propri eventi», come facevano gli stoici. «Giungere a tale volontà che ci è fatta dall’evento, diventare la quasi-causa di ciò che si produce in noi, l’Operatore, produrre le superfici o i duplicati in cui l’evento si riflette, in cui esso si ritrova incorporeo e manifesta in noi lo splendore neutro che l’evento possiede in sé come impersonale e preindividuale, al di là del generale e del particolare, del collettivo e del privato-cittadino del mondo». (Deleuze, Logica del senso, p.133). E ancora: «Il bagliore, lo splendore dell’evento è il senso. L’evento non è ciò che accade (accadimento), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta» (ibid. 134). L’evento è come la quarta persona.

Che significa tutto ciò? Che si esce dalla dialettica tra soggetto e soggetto, tra oggetto e oggetto, tra passato e futuro, e si diventa operatori degni del presente sottile, incorporeo, ma pieno di senso. Credo che questo abbia molto a che fare con l’ascolto, con la musica, in generale, con la nostra presenza nei confronti della musica, in particolare.

2 Questo articolo è fatto per trovare un modo di dire una cosa che non so dire. Una cosa che sto cercando di dire da anni, a proposito di alcune pratiche musicali che mi sembrano cruciali. Quando mi chiedono cosa mi interessa, di cosa ti occupi (lato musicale, non in generale) e rispondo che assisto e organizzo incontri, curo palinsesti e programmazioni, ascolto, scrivo di cose fatte per aumentare la consapevolezza dell’ascolto (del ruolo attivo di chi ascolta nel gesto di ascoltare) – e certamente percepisco l’inadeguatezza dell’espressione. E, soprattutto, percepisco che chi ho di fronte vorrebbe indietreggiare, a piccoli passi, un sorriso di circostanza prima di dileguarsi…

Dunque, questo articolo mi riguarda in prima persona. Ipostatizzare non è di certo la risposta. Ma è una strada. Ciò di cui vorrei scrivere, le cose a cui vorrei provare a dare un nome sono tutte quelle esperienze musicali fatte da musicisti che forse non si definiscono musicisti, che si sono sottratti alla divaricazione netta tra soggetto (autoriale) e oggetto (acustico, musicale, compositivo) e alla dialettica tra chi compone o produce un disco e chi ascolta. Mi sembra sia in atto un movimento simile a quello che Ezio Manzini descrive per il mondo della progettazione: quando si chiede quale ruolo possa avere il designer “when everybody designs”, cioè quando il designer diventa facilitatore di esperienze di co-progettazione con la propria comunità di utenti, innanzitutto per portare quelle persone al livello di consapevolezza e competenza necessario a comprendere la complessità di ciò che si sta progettando (senza poi chiedere loro di progettare davvero…). Cosa fa dunque il o la musicista quando si dà come obiettivo quello di rendere chi ascolta sempre più consapevole del fatto che l’ascolto stesso è sua responsabilità, è un esercizio di taglio della realtà e non una realtà data? Che ruolo hanno queste persone che, per restituire la propria ricerca acustico-musicale, hanno progressivamente rinunciato al supporto disco (in qualsiasi materiale si possa manifestare, compresi quelli digitali), perché non rende la complessità del processo ma solo il risultato; a volte anche al concerto, perché la frontalità della performance alza le barriere autoriali; e oggi rilanciano con laboratori, aprono spazi di confronto e trasmissione di pratiche di ascolto con il proprio pubblico (ma ha ancora senso parlare di pubblico, fuori dalla dialettica dei soggetti?) e, infine, come vedremo, pubblicano oggetti?

3 Vorrei chiamare questo tipo di pratiche, che cercherò di mostrare nelle righe che seguono, musica eventuale. Il nome è frutto di un dialogo con Enrico Malatesta, con cui ho spesso condiviso questo tipo di riflessioni. Un giorno gli ho scritto: «Posso farti una domanda a bruciapelo? Se ti chiedessero: come si chiama la tua musica? E quella del progetto Aural Tools di Attila, quella di Rie Nakajima, eccetera». La risposta: «Musica di oggi, orientata ai materiali. Tu come la chiameresti?» «Lì sta il punto, non so chiamarla. Direi musica che crea condizioni di possibilità e non output». «Musica potenziale, forse, qualcosa di simile. Musica che diviene, oppure musica eventuale». Questa ultima formulazione produsse immediatamente una vibrazione diversa. «Mi piace, apre un collegamento inaspettato anche alla filosofia dell’evento, oltre che lasciare margine di manovra (nell’eventualità)». «Eventuale poi se lo pensi nell’accezione inglese è totalmente rivolto al futuro, quindi a un possibile emergere della musica nell’esperienza dell’ascoltatore. Nel tempo o in relazione al suo movimento (fisico e psichico)». 

Secondo la Treccani, /eventuale/ significa qualcosa che «può avvenire o no secondo gli eventi, quindi possibile, incerto, casuale». Ancora una volta, come dicevano gli stoici e Deleuze con loro: dobbiamo essere degni degli eventi e della loro eventualità.

4 L’archeologia della musica eventuale è molto popolata. Le opere aperte nei decenni del secondo dopoguerra (prima e dopo quel 1962) sono state di certo centrali nel determinare le basi indeterminate della musica eventuale. Le partiture aleatorie non nascono certo con Music of changes (di Cage, 1951) e neanche con gli esperimenti di Duchamp di trent’anni prima. Ma lo Zeitgeist di quei decenni ha portato alle prime score (nel mondo Fluxus, per esempio), partiture dedicate non solo al ruolo dell’esecutore in senso stretto, ma a chiunque si voglia cimentare con esercizi di attivazione dell’attenzione acustica (si veda ad esempio tutto il lavoro di ricerca che sta facendo Elena Biserna, a partire dal suo progetto Walking from scores, raccolta di partiture verbali che comprendono il cammino). 

Le due strade oggi più battute dalla musica eventuale, la musica che attiva l’attenzione all’evento acustico, compongono il toolkit dell’operatore di musica eventuale. La prima è senz’altro quella degli esercizi di ascolto, che a loro modo riprendono il discorso delle partiture verbali e comprendono il ruolo fondamentale della pratica, dell’allenamento, dell’esercizio, appunto. 

Tre esempi molto recenti: uno è il progetto Quarantine workout di Standards, avviato durante il lockdown pandemico della primavera 2020. La descrizione del progetto inizia con una citazione particolarmente significativa di Marcel Duchamp: «L’arte è una delle tecniche possibili per potenziare e ampliare la capacità di agire, ma non l’unica. La cosa importante è vivere e avere un comportamento, aprirsi a un divenire indeterminato che bisogna costruire, inventare, prendersene cura». I quarantine workout sono istruzioni per allenare «una pratica di di osservazione, di ascolto e di relazione con il contesto che abitiamo», nella forma di score, ossia «partiture, esercizi pensati per agire la realtà quotidiana secondo altre modalità e velocità». Ispirato da questo e altri esempi, all’interno del ciclo di incontri, concerti, laboratori che curo a Bologna, presso le Serre dei Giardini Margherita, io stesso questa estate ho proposto un progetto simile, chiamato Ascolti non funzionali, pensato per ovviare alle necessità del distanziamento e contribuire all’allenamento di cui sopra (il nome è un chiaro riferimento ai Pensieri non funzionali di Cesare Pietroiusti). Il terzo esempio è a opera del già citato Enrico Malatesta e si chiama Raccogliere pietre: una «raccolta di esercizi di ascolto, partiture e testi iniziata nel 2009».

5 La seconda strada, forse faremmo meglio a chiamarla strategia, non prevede – o non necessariamente – la stesura di istruzioni per esercitare l’ascolto e l’attenzione nei confronti del nostro ambiente acustico; passa piuttosto attraverso l’uso di oggetti – o meglio strumenti, intesi come utensili strumentali alla pratica, dispositivi di facilitazione della musica eventuale.

Uno degli esempi più affascinanti viene da una recente trasformazione della ricca collaborazione tra Rie Nakajima e Pierre Berthet: Dead Plants & Living Objects Sound Boxes. Si tratta di un progetto di pubblicazione di scatole che contengono dispositivi acustici, oggetti, strumenti, o meglio kit (parola su cui abbiamo già fatto superficiale affidamento e su cui torneremo) che ciascuno può assemblare e far suonare, osservare con gli occhi e le orecchie. Producono, coerentemente con la ricerca e la sensibilità del duo, suoni sottili, accadimenti acustici flebili, fatti di materiali poveri e, in alcuni casi, naturali. Una manifestazione di superficie dell’evento acustico che però diventa pura superficie. Pura eventualità della superficie che cerca dignità di suono rilevante – e questo accade solo se si considera il presente degno dell’evento: attraverso l’atto di assemblare e mettere la pila

Altro progetto su cui vogliamo concentrare l’attenzione, tanto che esso è lo stimolo per una conversazione con due dei suoi ideatori e autori, è Aural Tools, progetto nato dall’iniziativa di Attila Faravelli, che ne è il curatore. «Aural Tools consiste in piccole serie di oggetti semplici che documentano i processi materiali e concettuali della pratica di produzione sonora di alcuni musicisti. Si tratta di una serie di dispositivi per mettere in relazione il suono con lo spazio, chi ascolta e il corpo in modi altrimenti non disponibili tramite i tradizionali supporti registrati». Il primo aural tool fu Trifoglio, un cortocircuito tra affordance (quella capacità di un dispositivo di suggerire la propria praticabilità narrativa, il proprio uso) e presenza nel mondo, tra corpo e ambiente. Poi ci furono i “rombi” pensati con Matija Schellander: strumenti antichissimi che fanno vibrare le pareti, ossia dispositivi che rendono evidente che la presenza di sé, dello strumento stesso assume senso solo in relazione a uno spazio, che è reso quasi-soggetto, più che contenitore, dall’attivazione del rombo. Siamo nel pieno della musica eventuale, che ci chiede di operare più che essere, quindi di entrare in una funzione relazionale (con lo spazio, anzitutto da un punto di vista acustico).

A metà strada tra le score o partiture verbali e gli oggetti (che mi piacerebbe chiamare quasi-soggetti, ma l’argomentazione per giustificare questa scelta ci farebbe prendere una deriva a cui non voglio sottoporre chi legge) ci sono gli Esercizi rudimentali di Enrico Malatesta, dove «la relazione con gli oggetti non è più lineare e impositiva, gli esercizi non sono finalizzati al controllo dell’oggetto allo scopo di produrre musica. Attraverso semplici azioni ripetute in differenti condizioni e posizioni nello spazio, l’obiettivo è di scoprire con i partecipanti l’apertura e l’interscambio con ciò che ci circonda e incoraggiare la libera espressione del singolo dentro al gruppo e del gruppo nel rispetto dell’unicità del singolo». 

Come a dire che tra le due strade o strategie della musica eventuale – lavorare sugli esercizi e sugli oggetti – non c’è un’interruzione di continuità ma la possibilità di far abitare tante pratiche gestuali (torneremo anche qui), ossia basate sulla ripetizione (molecolare) del gesto più che sulla performatività (molare) dell’azione che altera repentinamente il sistema di rapporti tra soggetti, oggetti, ambienti (qualsiasi cosa significhino queste tre parole).

6 Vorrei citare, prima di parlare attraverso le parole di Attila Faravelli ed Enrico Malatesta, che ho intervistato a proposito dell’uscita delle ultime serie di Aural Tools (Transducer di Felicity Mangan, 30 Meters Stretch di Seiji Morimoto, Pietra di Langa di Enrico Malatesta, minuzia di Dafne Vicente-Sandoval), uno scambio informale accaduto su Facebook; questo articolo, come ho sotterraneamente confessato, dà rilevanza al presente degli eventi e questo ne è un esempio.

Massimo Carozzi, altro musicista certamente sensibile a pratiche vicine alla musica eventuale, parla in un post di un suo lavoro del 2020: «Si chiamano “Buddha box” o “Prayer Machine” o “Buddha Machine”, e sono dei player audio con un piccolo speaker incorporato. Sono molto comuni in Oriente e di solito contengono dei mantra o dei sutra buddhisti; servono per accompagnare momenti di preghiera o di meditazione. Costano pochi euro e parecchi anni fa ho cominciato a collezionarle. Le ultime che ho trovato hanno un suono molto definito, Hi-Fi,  e permettono di caricare samples e suoni su una scheda Sd. Ho utilizzato suoni miei e di altri artisti, che voglio qui ringraziare: Morton Feldman, Luciano Maggiore, Lawrence English, François Bayle, Akira Rabelais, Lloyd Cole».

A questo messaggio risponde proprio Attila, tra gli altri, proponendo a Massimo di «fare un kit!»; ribatte l’autore del post chiedendo: «ma cos’è un kit?» Vorrei prendere sul serio questa domanda e fare qualche considerazione in merito. Anzitutto mi interessa dire una cosa: il breve scambio porta Attila a dire che Aural Tools potrebbe diventare un progetto in cui «sviluppare degli strumenti insieme a degli artisti che siano utilizzabili come una piccola piattaforma anche da altri». Il che riprende l’oscillazione tra autorialità e operatività – laddove non mi interessa replicare la dicotomia tra autore e ascoltatore in una nuova dicotomia tra autore e operatore, ma anzi coltivare vie di fuga dalla prima dicotomia, da un lato verso la figura di chi crea strumenti come “piattaforme” (ma sono mai stati altro gli strumenti?), dall’altro verso un possibile esito di tale creazione, che non sono strumenti in senso proprio, ma moltitudini strumentali (i “kit”). E, ancora, mi viene da chiedere: ma gli strumenti sono mai stati altro che assemblaggi di parti?

7 Certamente, nella musica eventuale il kit è una piccola moltitudine che permette di avvicinare chi ascolta alla figura di chi opera – anche solo per il fatto che nei kit ci sono, generalmente, anche istruzioni, c’è una questione sottesa di montaggio o assemblaggio che produce una processualità nel rapporto fisico con l’oggetto, infine c’è un potenziale per così dire sempre presente, anche se non viene espresso o manifestato. Provo a spiegarmi partendo dalle riflessioni di Tim Ingold che parla dell’esperienza fatta con minuzia: «È un silenzio che si apre, dall’interno, in un mondo in perenne nascita. Il “sentire a malapena”, quindi, non significa essere a metà strada tra l’udire e il non sentire, come se fosse possibile, ma attirare la propria consapevolezza a monte, nel momento stesso dell’incipienza in cui il suono nasce dal silenzio». Se, come dice Roberto Calasso, «la presenza è un caso particolare dell’assenza», il suono è un caso particolare del silenzio, così come operare gli aural tool è un caso particolare del loro stare senza essere toccati. Questi oggetti, come dice sempre Ingold, sono soglie, che parlano di un potenziale, dell’eventualità di una relazione con l’ambiente e mi sembra che propongano una relazione con la tecnica e con il tecnicismo alquanto inedita. Certo, se pensiamo ad alcuni di questi oggetti, come ad alcune delle score più storicizzate, c’è certamente una domanda di destrezza per chi opera, a metà tra autorialità e fruizione. Alludo alle istruzioni di Deep listening di Pauline Oliveros, per esempio, dove si richiedono competenze performative di “humming” (brusio prodotto dalle corde vocali) che possono essere di non semplicissima accessibilità. Eppure mi pare che il cuore della questione della musica eventuale sia uno spostamento di fuoco di attenzione della tecnica: dalle mani, alle orecchie. Ciò ha implicazioni evidenti (in filosofia, si direbbe da un punto di vista fenomenologico) sulla considerazione del nostro corpo. Spero di poterci tornare in maniera meno accidentale in un’altra occasione.

8 Di questo e altro ho parlato in una lunga intervista con Attila Faravelli ed Enrico Malatesta, di cui riporto qui alcuni spunti. 

GC: John Cage, intervistato negli anni Settanta da Walter Zimmermann in visita a NYC, disse che il ruolo del compositore usato in Cheap Imitation e in Etudes Australes (p. 50) si spostava da quello di prendere decisioni a quello di fare domande. Mi sembra che gli Aural tools siano strumenti maieutici, cioè che servano per fare domande. Siete d’accordo?

AF: Sono convinto che quello che tu dici sia vero sempre, non credo che ci siano delle pratiche pure, concepite dentro la testa e poi realizzate nel mondo, opposte ad altre pratiche che hanno un andamento più relazionale o dialogico. Penso che tutte le pratiche per esistere debbano essere delle domande aperte; anche le composizioni musicali apparentemente più chiuse nascono da un processo che è esattamente quello che descrivi tu. La specificità di Aural Tools e di altre iniziative che utilizzano istruzioni o che propongono formati laboratoriali consiste semplicemente nel fatto che in questa apertura è resa esplicita; una netta opposizione tra soggetto e oggetto, artista e opera, è sempre e comunque un’illusione: anche Mozart, ad esempio, per comporre le sue opere si è inserito in un flusso di forze, tendenze e culture. 

EM: È vero, ma quella di Aural Tools è una posizione radicale, non è un corredo al contenuto artistico degli autori coinvolti. Molti risponderebbero in maniera completamente diversa a questa domanda… Io trovo che questo approccio abbia in realtà una ripercussione radicale nelle cose che fai. Mi rendo conto che la nostra attitudine è stata acquisita in un percorso di ricerca, non è assimilabile ad altre modalità di lavoro.

AF: È vero. Al tempo stesso cerco di mantenere una posizione che non sia ideologica. Se ti metto in mano un rombo, uno strumento che viene dal Paleolitico (un pezzo di cartone pesante che va fatto ruotare con forza da un punto di vista corporeo), si tratta di un’operazione esplicitamente attiva. Ma se la gente ascolta un CD o un vinile con soddisfazione,  si tratta comunque di un’operazione attiva. Ad esempio, quando presento gli Aural Tools in pubblico e qualcuno li usa, le altre persone presenti vedono un altro nell’atto di produrre suono e ascoltare, proprio perché un corpo in movimento si può guardare, a differenza dei movimenti interiori di uno che ascolta un disco.

GC: Però Aural Tools non si occupa di CD, cassette o vinili, ma di oggetti, strumenti. Come è nato e come si è sviluppato il progetto? 

AF: Il progetto è nato anche grazie a due cose che mi sono successe. Primo, ho letto The Audible Past di Jonathan Sterne, che in qualche modo accompagna chi legge in un percorso che porta a relativizzare la registrazione audio su supporto come unico modo di fissare la musica. Al contrario, il libro descrive come l’esigenza stessa di trasformare un evento in un segnale audio sia molto legata all’ossessione tipicamente occidentale di bloccare il fluire del mondo. Poi, una sera, in pizzeria, c’erano Giuseppe Ielasi e Lorenzo Senni che mi suggerivano di fare un’etichetta, un po’ per prendermi in giro. In effetti, però, mi sono detto: “chi mi piace di più produce una serie di risultati sonori che su un disco si perdono”. E quindi ho iniziato a immaginare altri modi di produrre un’etichetta…

Da un punto di vista pratico, appena ho iniziato a fare i prototipi mi sono reso conto che mi interessava di più andare in giro e conoscere artigiani, piuttosto che stare in studio “a specchiarsi” nei propri suoni. Nel caso di Bilia sono andato da un ebanista con centinaia di legni diversi sotto forma di segatura in vasetti di vetro per poter annusarne i differenti odori: una persona che, se fossi rimasto nell’ambito della musica, non avrei conosciuto. Nel caso della pietra (che abbiamo fatto sempre con Enrico), ho imparato come si fa un calco di cemento. Nel caso delle ance di Dafne ho passato un paio d’ore in un laboratorio dove mi hanno raccontato tutte le sfumature della materia prima, la provenienza del legno, la lavorazione…

EM: Nel mio percorso di ricerca, ho sempre trovato mortificante trasferire alcune pratiche sonore su disco. Come musicista, tendo a lavorare sull’atto di percuotere, sull’azione, e sul divenire di un percorso di relazione e negoziazione tra il suono, lo spazio e la vitalità dei materiali che utilizzo, siano essi strumenti a percussione, found objects o altro. Il mio lavoro è orientato a una ricerca che non ha forti basi ideologico-formali in termini estetici e che non prevede una funzionalità privilegiata su un supporto: mi occupa di musica ma non genero “prodotti” adatti ai mezzi soliti con cui si documenta la musica. Anzi, cerco il più possibile di aprire i contenuti su cui lavoro: ad esempio, condurre workshop o sviluppare progetti pedagogici è un aspetto del mio lavoro che mi potenzia e che riguarda presentare le mie indagini rendendole aperte e modellabili dall’altro in un moto condiviso che non è trasmissione di sapere ma è reciproca trasformazione.
In generale, mi sono allontanato dall’idea di fissare le cose che faccio e soprattutto di forzarle per aderire ai formati usuali con cui si presenta la musica. Trovo molto più stimolante, ad esempio, copiare un appunto di sette anni fa, preso durante un workshop all’istituto dei ciechi di Bologna, e capire cosa implica per me oggi, e trovare una modalità semplice per rinnovare e  condividere le possibili esperienze a cui conduce.

GC: Ma questi oggetti, pensati come soglie, come sostiene Ingold, possono essere pensati come strumenti? Nel senso che sono strumentali a qualcosa?

AF: In una parte del dialogo che avevo fatto con Enrico, trascritta dentro Bilia, parlavamo proprio dello strumento come dispositivo di ascolto. Sono strumenti molto elementari – vedi le ance di Dafne: sono molto complesse ma fanno solo uno scricchiolio. Se usiamo Aural Tools come dispositivi di ascolto, aprono una serie di porte, non portano in un posto preciso… 

EM: Anche le pietre: sono come delle stanze attraverso cui ascolti. 

AF: Sembra che tu abbia costruito una stanza, e poi hai invitato le persone a fare una musica. C’è una dimensione di ospitalità che mi piace molto di questo progetto.

GC: Chi sono i destinatari di Aural Tools?

EM: Sono rivolti a tutti; certamente a un pubblico ampio e che non si limita esclusivamente a chi segue la musica elettroacustica: la diffusione degli oggetti dipende dalla possibilità di diffondere e fare conoscere la pratica a cui essi conducono; la loro apertura a un pubblico vasto e non settoriale non è affatto scontata e, benchè alcune implicazioni degli aural tool siano veramente universali, essi nascono in un ambito di ricerca artistica liminale e che difficilmente attrae un pubblico “altro” senza un lavoro di disseminazione tenace.
Ritengo siano strumenti potenti sia se utilizzati in solitudine, sia usati insieme ad altre persone, ma è complesso fare capire che si può accedere al potenziale di questi oggetti senza specifiche acquisizioni concettuali, che il loro utilizzo non è difficoltoso e che la possibilità di procurarsi, in autonomia, delle esperienze di ascolto profonde può avvenire anche con immediatezza. Centrale è la dimensione della presenza, di una pratica privata dell’ansia di ottenere risultati acustici specifici.

AF: Quando ho fatto la residenza a Pianpicollo, mi hanno chiesto di realizzare un laboratorio coi bambini delle scuole materne. volevo realizzare un laboratorio con le scuole materne. Ho chiesto consiglio ad Enrico e lui mi ha suggerito di ’apparecchiare’ una situazione nella quale i bambini si sentissero liberi di muoversi. Oltre ad altre attività Abbiamo attaccato i nastri di Seiji e si sono molto divertiti,, hanno capito il senso dell’oggetto anche se avevano in media 4 anni… In altri contesti, con persone più “strutturate”, la cosa è stata meno fluida. Io sono talmente dentro quello che faccio che non capisco perché non le usino tutti: la mia speranza è creare dispositivi che permettano a tutti di mettersi in gioco. 

EM: Quando faccio i laboratori, non trovo quasi mai persone che mi dicano “ah sì”. Per lasciar depositare delle potenzialità che non rimangano solo in maniera effimera, serve tempo e agio di sperimentare, di praticare. Purtroppo viviamo in un contesto che non lo permette, che non permette di sbagliare, di provare cose senza che emergano dei risultati. 

Nel 2019 ho fatto un laboratorio, in Belgio, dove ho avuto la sensazione di non dover essere convincente. Qui da noi devi sempre quagliare dimostrare qualcosa. C’è sempre quella cosa per cui alla fine devo sempre intrattenere. Mi sembra che tutto tenda a capitalizzare il tempo. Per quello che gli oggetti di Attila compensano una mancanza, ti permettono di maneggiare con il tuo tempo, te li metti in casa e potenzialmente interagiscono con il flusso domestico.

Quindi, il potenziale pubblico è anche l’emergere di ambienti, nel senso di scene, di situazioni che possano colmare alcune lacune di sistema.

AF: Ci sono alcuni elementi interessanti degli oggetti delle nuove tirature proprio in relazione alla temporalità. Ad esempio il nastro di Seiji: lo prendi, lo attacchi tra gli alberi, spesso non succede niente, ma ti metti in una disposizione dove il risultato non è più necessario. Oppure la pietra di Enrico: la metti sul tavolo, te la dimentichi, poi lei si ripalesa quando inavvertitamente muovi il tavolo. Le ance di Dafne iniziano a suonare non sai quando e smettono anche dopo ore. Ci permettono di slabbrare il tempo. 

GC: La cosa più difficile e la cosa più facile di questo progetto.

AF: L’aspetto in assoluto più critico è l’economia: sono oggetti che richiedono tanto tempo e tanta manodopera, ma non c’è volontà di farli diventare oggetti d’arte e di lusso. Mi piace molto l’idea di replicabilità, ma sono evidentemente difficili da realizzare, non solo quando facciamo i prototipi ma anche nella realizzazione delle tirature. Gli oggetti andrebbero venduti a un prezzo senza senso. Mi piacerebbe trovare una sostenibilità economica migliore, un sostegno esterno che mi permetta di tenere bassi i prezzi e fare ricerca delle soluzioni migliori. L’aspetto più positivo è la dimensione dialogica con i musicisti, e con tutti gli artigiani che forniscono suggerimenti, che mi danno strumenti in prestito, che mi donano know-how. È la cosa di cui sono più fiero.

9 E quindi, per tornare al post di Carozzi, Aural Tools è un progetto che mette in circolazione competenze, sguardi diversi da quelli del solo mondo della musica sperimentale o elettroacustica, o dell’improvvisazione radicale. Vorrei concludere questa piccola panoramica sulla musica eventuale per mettere a fuoco un ultimo elemento per me centrale in questo concatenamento di pratiche, per riprendere un’espressione molto frequentata qualche decennio fa. 

Se l’ascolto è un muscolo, la competenza che chiama in causa non si sviluppa solo con un passaggio di conoscenza, di sapere, ma attraverso un allenamento. Abbiamo bisogno di abbassare la barriera all’ingresso, la soglia di accesso ai mezzi di produzione acustica, così come fanno le score e gli Aural Tools, ma anche di ambienti dove allenarsi e confrontarsi, dove veder manifestarsi gli eventi acustici e coglierne la superficie sottile, che ha uno spessore e uno statuto completamente diverso dall’esito di una performance. 

Mi viene in mente il percorso di ricerca di Edoardo Lucatti , semiologo che da anni lavora sulla relazione tra gesto e azione come paradigmi della narratività (per esempio qui). Per Lucatti, provo a riassumere sperando di non sembrare riduzionista, non esiste solo l’azione, quel passaggio di stato narrativo che dà forma a un accadimento significativo e significante. Ci sono anche anche i gesti, quella serie di eventi sottili che non sembrano segnare una discontinuità narrativa ma che, di fatto, danno senso tanto quanto quella stessa discontinuità, in un lavorio quotidiano. Il gesto «non è un’alternativa all’azione, anzi s’inscrive all’interno di questa come ciò di cui essa non può integralmente disporre. Una risorsa eidetica che consente l’azione, aprendola al divenire». «Il gesto rende possibile ma rende anche al possibile, gli restituisce qualcosa, lo ripopola di occasioni» (sempre Lucatti, comunicazione personale).

Mi piace pensare alla musica eventuale come musica gestuale, fatta per creare le condizioni di possibilità relazionale del gesto, ossia concatenamento di pratiche che mettano in discussione la dialettica tra soggetti e oggetti. E che traccino un’alternativa all’azione di un soggetto autoriale che prende tutta la scena con le proprie mani, strappandola alle nostre orecchie.

 

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