Melanconia di classe. Intervista a Cynthia Cruz

Si dice che la melanconia, a differenza del lutto, ci faccia soffrire per una perdita che sentiamo irreversibile, ma che non riusciamo a definire, qualcosa di semplicemente inacciuffabile ed evanescente. Cynthia Cruz, poeta e filosofa statunitense prova a usare quel dispositivo per dare un nome al senso di triste vertigine che prova chiunque abbia radici negli strati bassi della società. Da qui è nata “La melanconia di classe. Manifesto per la working class”, da poco uscito in Italia per le Edizioni Atlantide (traduzione di Paola De Angelis).

Lei stessa lo descrive così: «Non posso scrivere di ciò che non ho più, della perdita da cui scaturisce la melanconia di classe, senza individuare l’oggetto stesso di tale perdita. Tuttavia, non riesco a localizzarlo, perché è morto simbolicamente, ucciso dal neoliberismo. Scrivendo di questa perdita, attraverso l’esempio di artisti e scrittori che soffrono di melanconia di classe, posso però iniziare a localizzare l’oggetto perduto e amato, quell’arto fantasma, e così facendo posso riportare in vita la working class». E aggiunge: «Questo libro non attenuerà la melanconia. Al contrario, dandole un nome, spero di celebrare un rito collettivo per riportarla in vita: solo così cominceremo a risvegliarci dal sonno mortale dell’amnesia»

Quando ci diamo appuntamento in zoom con Cynthia Cruz, do per scontato che avremmo parlato in spagnolo. Il padre di Cynthia è infatti di origine messicane. Lei subito mi ferma: «Non parlo spagnolo». E così mi rendo conto di aver attivato uno stereotipo, l’ho estratto da un archivio nascosto che ho fatto scattare. Non posso non pensare che anche questo faccia parte di quel senso di smarrimento che lei indaga nel suo libro quando parla dell’angustia che perseguita chi viene dalla working class, le tare degli altri appiccicate come lettere scarlatte. «E’ una questione interessante. Mio padre ha sempre parlato spagnolo, naturalmente. E penso che il suo sforzo di assimilazione sia stato davvero intenso. Sì, noi non abbiamo imparato la sua lingua, né abbiamo mai mangiato cibo messicano a casa, niente di tutto questo. È un tipo di assimilazione molto violenta che lui ha vissuto in prima persona. È stato nelle forze aeree, mandato in una base in Germania e là, credo, ha conosciuto mia madre».

Lo stereotipo legato alle tue origini ti ha condizionato o ha influenzato il tuo modo di vivere?

«Potrei parlare molto degli Stati Uniti e degli stereotipi sul Messico. Negli Usa credono che tutti i messicani siano indigeni e poveri. Il Messico ha un sistema di classi rigido, e una povertà così diffusa, ma ha gente di ogni strato sociale e culturale. Bene, mio padre era per metà nativo. E negli Stati Uniti molti rimangono increduli quando mi vedono, bionda con gli occhi e la pelle chiari e non credono che io sia per metà messicana e sono convinti che abbia preso da mia madre tedesca. Eppure, gli occhi chiari provengono dalla famiglia di mio padre. Ho delle foto di mia nonna paterna ed è evidente che le assomiglio molto. Invece, mia madre tedesca è piuttosto bassa e ha capelli e i lineamenti molto scuri. Dunque, come agiscono gli stereotipi? Le persone rimangono bloccate in questo tipo di tropi, giusto? quindi ho semplicemente smesso di provare a spiegare questo genere di cose negli Stati Uniti».

Lo sradicamento di chi migra e lo smarrimento delle seconde generazioni, l’assimilazione e l’uscita dalla povertà e dall’esclusione: tutto questo ha a che fare con la melanconia di cui tu parli riferendoti alla working class?

«Sai, in realtà è buffo, è qualcosa che non avevo pensato riferita a mio padre. La sua famiglia ha lasciato il Messico, ovviamente perché viveva in povertà. Sono venuti negli Stati Uniti e direi che qui mio padre è cresciuto comunque molto povero. Eppure, ci sono messicani che non hanno bisogno di attraversare il confine. Lo sorvolano e frequentano Harvard. In tutto questo c’è una evidente componente di classe. Le persone non attraversano i confini in fuga, a meno che non sia per una questione di sopravvivenza».

Cynthia, sono nato in una famiglia operaia, porto persino fisicamente i segni di una classe povera e lavoratrice. Leggendo il tuo libro ho sentito tutto l’odore della mia infanzia e della mia adolescenza. Perché la questione di classe è una sensazione così fisica?

«E’ un’ottima domanda. So da me stessa, dal modo in cui mi presento, il modo in cui esito, so che tutto questo viene da anni e anni in cui mi è stato detto, nelle aule di scuola e di qualunque altra istituzione, mi è stato che avevo torto o semplicemente non mi consideravano all’altezza. È in questo accumularsi di esperienze, che provi la sensazione di non essere adatta e sei fuoriluogo. Penso al modo in cui te lo dicono e te lo fanno capire. Credo di descrivere nel mio libro qualcosa di basico, di elementare. Chi fa parte della classe operaia o chi è povero è effettivamente tagliato fuori dalla società, come se tu fossi inutile per tutta la vita. Eppure, questo lascia un che di promettente perché significa che qualcosa può sempre succedere»

Quando usi l’espressione “working class” credi abbia la stessa valenza in Europa e negli Stati Uniti? O negli Stati Uniti fa più paura pronunciarla o identificarsi in essa?

«Non conosco bene il contesto europeo, forse un po’ la Germania. Penso comunque che il termine “classe operaia” sia stato rimosso negli Stati Uniti allo stesso modo con cui il corpo operaio è svanito. Quindi nessuno usa quel termine. Generalmente, la gente sente che non c’è più la working class: questa è l’idea alla base del mio libro. E quando la gente pensa alla classe operaia, pensa agli uomini nelle fabbriche e dice che non ci sono più uomini nelle fabbriche, dunque non c’è più classe operaia. Tutti sappiamo che non è vero: la maggior parte vive di lavoro duro o è sulla soglia della povertà. Eppure nessuno vuole identificarsi con quella parola scomparsa.
Questo tipo di taglio violento della parola, ha fatto sì che le persone che sono davvero “classe operaia” non sappiano più di esserlo. Magari pensano di essere classe media o cercano di essere come le Kardashian, cercano di entrare in quella che pensano sia “la società”. Ma da quello che ho visto in Germania, penso che anche qui la parola “classe operaia” sia stata rimossa, penso che non faccia più parte del discorso e che si usino altri vocaboli per definirla. E così le persone, le tate o chi lavora in un negozio e gli autisti di autobus non si riconoscono in quel termine. Credo funzioni un meccanismo di paura, ma soprattutto di vergogna. C’è come un odio interiorizzato verso la propria classe o si provano sentimenti ambivalenti verso il mondo da cui si proviene, fino a non riconoscerlo più».

In Europa le grandi organizzazioni sindacali, i grandi partiti comunisti e socialdemocratici hanno agito come luoghi di pedagogia. Mio padre era molto orgoglioso di appartenere alla classe operaia e di essere comunista. Forse la storia politica e la storia culturale così diverse hanno agito in un altro modo nel corpo sociale negli Usa e in Europa?

«Certo. Mio padre non ha mai avuto una storia di attivista o di sinistra. Era un democratico, qualunque cosa significasse, e poi è diventato un repubblicano. Ma si sente ancora orgoglioso di appartenere alla working class e ha sempre detto, “sai, non capisco tutta questa roba intellettuale.” Per me è interessante osservare come tutto questo sia stato tagliato fuori dal mondo culturale. Ed è anche interessante osservare come sia andato di pari passo con il fatto che la classe operaia si è ritrovata rotta in pezzetti sempre più piccoli. Penso alle persone che devono fare anche quattro o cinque lavori e non riconoscono cosa sia una questione di classe, non riconoscono che ci potrebbe essere un problema di classe nella precarietà delle loro vite».

La cosa interessante è che gran parte del mondo della cultura, a cui la classe operaia si sentiva estranea, quei lavoratori cognitivi e intellettuali sono diventati, siamo diventati precari, vulnerabili e tristi, ancor più dei nostri genitori operai.

«Penso a cosa succede negli Stati Uniti (e credo che qui non sia molto diverso) con il mondo dei ricercatori e dei docenti universitari: lavori in quattro o cinque corsi, vieni pagato poco o nulla, senza assicurazione, e ogni semestre devi fare domanda di nuovo, ricominci da capo. Hai le tue lauree, hai scritto tutti questi bei fogli, ma non riesci ancora a guadagnarti da vivere o arranchi. Penso che forse tutto questo sia parte del problema, il lavoro si è frantumato sempre di più; e più si frantuma più sai di essere tagliato fuori. Penso che mio padre non avrebbe mai pensato di condividere qualcosa con un assistente universitario. Ma penso che il modo in cui ci riconosciamo attraverso le differenze sia parte del problema ora».

Tu usi la melanconia come chiave per descrivere la percezione sociale della working class. Mark Fischer ha vivisezionato la depressione come amalgama neoliberista. Perché sono così utili questi attrezzi psicologici e psichici per dispiegare un racconto di classe?

«Per la maggior parte della mia vita, ho pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in me perché agli occhi degli altri sembravo stupida o inadeguata. Non capivo. Pensavo solo: sono io così, devo concentrarmi maggiormente su me stessa. Eppure, se vai in terapia o se fai qualunque altra cosa, il problema non si risolve, anzi ti rende ancora più egocentrico in un certo senso. Mi sono resa conto che in realtà era solo una cosa di classe, una cosa che io semplicemente non capivo. Se rompiamo quello che ci appare un problema individuale, ci rendiamo conto di quanto sia comune. So che siamo tutti diversi, e questo è importante, ma abbiamo anche delle cose in comune. E la classe è una di queste. È da qui che sono partita con il mio libro. Non so se ci sia riuscita, ma la speranza è che le persone che non riconoscono il proprio background di classe possano farlo e poi si sentano parte di qualcosa di più grande. Voglio dire, è proprio liberatorio a livello personale e allo stesso tempo ha anche un potenziale di riscatto per molte persone, per capire e soprattutto immaginare altro».

Oggi abbiamo imparato a leggere le diseguaglianze in modo intersezionale, riconoscendo gli effetti e le connessioni delle divisioni per genere, classe, origini, culture e di razzializzazione. Le tue riflessioni sulla melanconia come si relazionano con questa complessità di osservazione?

«Io stessa faccio i conti con il fatto di essere donna, per metà messicana, e così via. Ma la dimensione della classe e la malinconia ad essa correlata, sento che coprono tutto. E mi permettono di trovare somiglianze nella diversità irriducibile che c’è fra noi. La mia esperienza non è come quella di nessun altro. Siamo tutti così diversi, ma quando riconosciamo ciò che abbiamo in comune, questo può legarci. È in questo modo che riconoscere la melanconia o la depressione possono essere utili, per il loro valore politico».

E ora su cosa stai lavorando?

«Sto scrivendo un testo su follia ed emancipazione della classe operaia. Continuo su questa strada».


Immagine di Daniel Mingook Kim da Unsplash