Lo spazio del teatro, il caso dello Stabile di Bolzano

Il teatro come strumento di coscienza è in dialogo con la società, utilizza il suo linguaggio nascosto per portare alla luce ciò che è celato. Il teatro occidentale si modella soprattutto sulla parola e sul testo.

Esistono diverse forme del teatro e diversi modi di concepirne la funzionalità sociale, che riguardano esattamente la collocazione “geografica” o urbana del teatro stesso. Sicuramente l’idea di un teatro stabile rimanda a una dimensione urbana, sia essa di dimensioni ridotte o invece nelle grandi metropoli. E un teatro stabile trova esattamente la sua connotazione nel riferimento con il territorio e in rapporto alla cittadinanza; esistono poi delle realtà diverse, le realtà nomadi del teatro, che ancora oggi esistono e incantano il pubblico proprio in virtù di questa non appartenenza, che ne sviluppa generalmente una tendenza poetica, radicata in sé stessa e che è “di casa”, potenzialmente, ovunque.

In questo senso il teatro urbano si è spesso identificato con un teatro di impegno civile, il teatro politico ad esempio, mentre il teatro nomade, senza fissa dimora, che vive dell’ospitalità e accoglienza dei diversi luoghi dove approda è più spesso un teatro di grandi suggestioni, che tende ad abbracciare temi archetipici e significati utopici, fondamentali nel consolidare un immaginario collettivo globale, senza un’evidente connotazione sociale, politica o culturale.

Pubblichiamo un estratto dal volume di Ilaria Riccioni, Teatro e società: il caso dello Stabile di Bolzano (Carocci)

 

In questo senso le riflessioni di Artaud erano già evocative del ruolo poetico del teatro, in una società che già andava trasformando la concezione della cultura in specifiche forme rappresentative convenzionali prive di ampio respiro: «Le théâtre contemporain est en décadence parce qu’il a perdu le sentiment, d’un côté, du sérieux et de l’autre du rire. Parce qu’il a perdu d’autre part le sens de l’humour vrai et du pouvoir de dissociation physique et anarchique du rire» (Artaud, 1965, p. 51).

Artaud si spinge oltre: indicare la funzione del teatro nella società, attraverso il recupero delle motivazioni originarie alla base della nascita del teatro e del rapporto tra teatro e società. Non ha più senso nella società contemporanea definire ancora i ruoli come fissi o irreversibili: essi cambiano in continuazione e vengono negoziati secondo convenzioni plurali, spesso non identificabili una volta per tutte.

Il linguaggio delle culture occidentali, intese come tecnicamente progredite, è sempre meno incline alle sfumature languide della poesia perché tende a perdere, o sottace, la dimensione metafisica. Ma un teatro privo di poesia rappresenta una società tecnicistica, che si identifica nella misurazione di sé stessa senza lasciare spazio a ciò che, pur non essendo visibile o misurabile, esiste.

Portare la “metafisica” nel teatro significa presentificare il senso poetico della vita, che non è visibile, ma senza il quale non ci sarebbe senso del vivere. Come uscire da questa impasse? Il teatro può avere una funzione sovversiva, un processo che con la contemporaneità della performance tenta di riprodurre la tensione della vita, della quotidianità eccezionale di un rapporto. Ma mentre questo tipo di funzione viene progressivamente indebolita dall’abitudine alla velocità degli strumenti comunicativi, che rendono irriflessivi, la sua funzione metafisica, invece, incanta, restituisce significati di trame dimenticate attraverso l’abbandono momentaneo delle convenzioni sociali.

L’essere umano in società è costretto, perché “la società è iniqua”, continua Artaud in Il teatro e il suo doppio e il teatro può essere una forma di resistenza se accetta il suo ruolo antico, non mettendo in scena dei tipi, o caratteri, ma tornando alle radici della rappresentazione catartica, come già sapeva la tragedia greca, in quella delicata e potente funzione che pone la società di fronte a sé stessa.

Le riflessioni sul teatro di Artaud svelano i tormenti del cambio di funzione del teatro stesso, della sua identità in trasformazione in relazione alla società che non sempre arriva con successo a svelare il suo doppio, quel lato inconoscibile o inaccettabile del vivere collettivo che dona completezza alla realtà.

La complessità del teatro di Antonin Artaud non potrà essere affrontato in questa sede, è necessario, però, attingere ad alcuni spunti offerti dal suo lavoro. Il teatro della crudeltà è per Artaud un teatro che recupera il senso della necessità del teatro cercando di attualizzarlo nella contemporaneità, offrendolo alle necessità rinnovate dell’uomo a lui contemporaneo, frastornato dal cambiamento di riferimenti e in continuo pericolo di inconsapevolezza sociale e culturale. Mette in atto l’azione non quotidiana, l’azione simbolica come atto che rimanda a una verità superiore e che va oltre le pratiche quotidiane investendole di significati rinnovati.

In questo senso Artaud introdurrà la distinzione tra il teatro “vero” e, semplicemente, il teatro. L’uno che si pone come gesto che rimane oltre il quotidiano, che attinge alle corde spirituali del corpo e della sua simbologia gestuale, rituale accompagnato dal linguaggio poetico.

Un teatro che assurge al ruolo di disvelatore di verità ultime, di gesti simbolici che attingono alle radici dell’assoluto, al contrario del “teatro” il quale invece si limita a una rappresentazione o relazione con il quotidiano, non con le potenzialità spirituali nelle quali Artaud scorge il senso profondo dell’attività teatrale come potenziale spazio della vita nell’assoluto, spazio altro per la trasformazione alchemica del quotidiano e fonte di resistenza sociale. Ciò lo avvicina all’interpretazione di Duvignaud, del teatro come atto cerimoniale costituito da funzioni rituali che lo accompagnano e ne segnano il processo di trasformazione collettiva e relazione all’altro.

Ma c’è un ulteriore modo di osservare il rapporto teatro-società, da parte degli studiosi di teatro, che si orienta all’esplorazione della funzione del teatro nella collettività, ed è quello indicato da Jerzy Grotowski, maestro di Barba e in linea con le forme teatrali più significative del teatro post-drammatico.

Con il teatro di Grotowski emerge una consapevolezza diversa del rapporto teatro e società in quanto il teatro stesso sembra dovere, in parte, prendere le distanze da sé stesso, per non cadere nella trappola dello spettacolarismo, e riflettere in maniera attiva sul farsi e sul significato, nella rete di ruoli sociali, dell’azione stessa. Il “post-teatro” di Grotowski, rovesciando l’ordine comparativo del teatro e della società secondo Gurvitch e Goffman, ha individuato una consonanza sommersa fra teatro e vita, pregnante e urgente da scoprire.

Non ha detto semplicemente, come Fersen: il teatro non è “convenzione” ma spazio visionario, ritualità e trance. Ha inteso piuttosto che lo scacco del teatro fra virgolette mette all’ordine del giorno tanto un’impotenza, quanto un archetipo; e che il prevalere dell’una o dell’altro dipende dalla nostra capacità di sperimentare. […] L’uomo diviso di Grotowski non è un frammento, una faccia del comportamento sociale, come il soggetto di Goffman.

Piuttosto, è direttamente struttura del quadro sociale, microcosmo dell’umanità, alla cui individuazione Grotowski è giunto per successive eliminazioni del superfluo teatrale (Meldolesi, 1986, p. 136). Ma il processo di riflessione di Grotowski (1933-1999), oltre a inaugurare un’impostazione antropologica del teatro che lo colloca come antesignano e precondizione dei futuri performance studies, si situa anche in un periodo molto “caldo” dal punto di vista sociale e politico, dove gli albori della società della comunicazione sono già ampiamente oggetto di critica politica.

Il suo contemporaneo Guy Debord (1931-1994) scrive e pubblica nel 1967 La société du spectacle, esattamente alla vigilia della rivoluzione studentesca del 1968. Debord definisce lo spettacolo una Weltanschauung divenuta effettiva e trasposta in realtà materiale, al tempo stesso il risultato e il progetto del modo di produzione del capitalismo moderno che rappresenta il cuore della irrealtà della società contemporanea reale. Lo spettacolo non è un insieme d’immagini, continua Debord, bensì un rapporto sociale tra individui, mediato dall’immagine.

In sostanza, secondo Debord la vita nelle società dominate dalle condizioni moderne di produzione si annuncia come un “accumulazione di spettacoli” e tutto ciò che è stato vissuto direttamente si perde nella rappresentazione. «Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come una parte della società, e come strumento di unificazione. […] Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza» (Debord, 1992, p. 16).

Secondo Debord, l’inganno della società moderna risiede nell’uso dello sguardo come mezzo di unificazione tra gli individui, che però si rivela uno sguardo parziale che incarna interessi dominanti e il cui mezzo è, di fatto, anche un fine. Facendo mostra di sé questa società richiede uno spettatore passivo, scrive Debord, e lo spettacolo «è il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (ivi, p. 21).

In questo senso, il teatro come forma non mediata, in questo periodo con le teorizzazioni di Grotowski, di Barba, con il lavoro precedente di Artaud, e quello successivo di Peter Brook, solo per citarne alcuni, opera una riflessione che sancisce la propria autonomia dalle tendenze dominanti della società dello spettacolo, nei termini usati da Debord, o dalla “semicultura” della società industrializzata, secondo la terminologia di Adorno (1972).

Nel processo di svuotamento della scena, di spoliazione dai costumi, nel riportare l’attenzione sul corpo come mezzo espressivo parte di una drammaturgia complessa fatta di gesti e parole, la forma poetica del teatro recupera e consolida la propria funzione di resistenza sociale. Il processo di conoscenza del teatro diventa uno strumento di conoscenza umana se e quando opera la liturgia della spoliazione, un percorso che rimanda alla spiritualità che si libera progressivamente degli orpelli materiali per raggiungere una verità interiore non influenzata dalle convenzioni sociali.

Un teatro sperimentale nel senso di Grotowski intraprende la via del sacro, dell’azione che crea e non riproduce soltanto: «Il teatro nutrito dalla civiltà non si limita a riflettere la società; piuttosto, produce società, aggiunge» (Meldolesi, 1986, p. 143). Ed è dunque questa prospettiva che può porsi all’interesse di un processo sociologico di comprensione e individuazione della funzione del teatro nella società, un mezzo espressivo che usa le sue tecniche per mantenere la sua funzionalità nel cambiamento, per resistere alle tendenze di standardizzazione delle società moderne.

L’idea che il teatro possa relazionarsi alla società in modalità specifiche che ne restituiscono la cifra profonda anche nella società contemporanea, combinando la motivazione dell’azione sociale razionale con quella affettiva portandola in scena attraverso storie moderne.

Una relazione, quella tra la società e il teatro, molto più complessa e articolata di quanto sia stato finora ipotizzato, una relazione che spinge in profondità sia la lettura sociologica deterministica che il teatro inteso come rappresentazione di scenari sociali costituiti da ruoli predefiniti.

Uno spazio di sperimentazione per la scienza sociale che implica la costruzione di nuove categorie, nuovi approcci, nuove aperture alla complessità del sociale e alla ricchezza degli intrecci relazionali. Il teatro come generatore di significati culturali, dunque portatori di un codice specifico, diviene detonatore di senso dell’immaginario collettivo della società moderna, in tutte le sue forme, da quelle più pop a quelle più impegnate.

Attraverso Duvignaud, Gurvitch, Goffman, Debord abbiamo esplorato quale sia la prospettiva sociologia nell’osservare la forma artistica del teatro; attraverso il lavoro di Artaud, Grotowski, Meldolesi, Mango, si è sondata la vocazione profonda del teatro radicata nella vita sociale, nell’immaginazione e nella trasformazione del reale attraverso i suoi stessi strumenti.

Il teatro è al centro di una relazione complessa, non riducibile alla sola relazione con il gusto culturale degli spettatori, ha delle radici profonde nel significato simbolico della cultura dalla quale emerge; ne rimanda immagini, ne fa risuonare le emozioni e i vincoli sociali che condizionano i destini. Ed è per questo che ha il potenziale per entrare in rapporto con il senso del gruppo e dell’appartenenza, con il percorso di formazione e disgregazione delle identità di un popolo, con la capacità consequenziale di creare autoconsapevolezza, auto-osservazione, motivazione, solidarietà.

In questo senso, il teatro può essere luogo privilegiato di osservazione del sociale e delle sue dinamiche profonde, attraverso analisi teoriche di ampio raggio sociologico e culturale, ma anche analisi empiriche sociologicamente orientate sull’azione del teatro e la sua potenziale ricaduta nel territorio.