Vivere nell’epoca delle liste: la ‘risposta intelligente’ a un presente complesso

1. Essere in lista

Alla nascita si è immediatamente iscritti nella lista dei contribuenti, in quella dei residenti poi, se si è fortunati; in base ad elenchi delle vie di residenza è gerarchizzato il diritto di accesso ai servizi educativi e scolastici, sono liste nominative quelle di cui si sostanziano i big data, così come liste di accessori promettono oggetti personalizzati a partire da un modello standard – avete in mente le borse ‘O bag’? – rincorrendo, paradossalmente, l’esclusività nel regno della standardizzazione per eccellenza, quale è quello dei prodotti industriali.

Attraverso l’iscrizione si diventa contemporaneamente soggetto e oggetto

Le liste da sempre regolamentano lo status delle persone, aprendo o precludendo possibilità, se non la vita stessa come ci ricordò il film Schindler list: attraverso l’iscrizione si diventa contemporaneamente soggetto e oggetto, con diversi gradi di libertà per quanto attiene l’identità, il pensiero e l’azione.

Essere nella lista giusta apre possibilità -vale per le cose serie quanto per quelle frivole, dal godimento di diritti umani al posto riservato nel privè di un locale d’intrattenimento; essere nella lista sbagliata, in una black list, esclude la possibilità di accesso; nel mezzo si trova il limbo di coloro che semplicemente non esistono poiché non hanno diritto ad essere annoverati nelle liste fortunate ma nemmeno responsabilità tali da subire l’iscrizione nelle seconde. E se i mondi si chiudono a chiave – test di ingresso, numeri chiusi, password, parole d’ordine – meglio essere in lista in ciascuno di essi, per non perdere possibilità.

2. Essere tanti

Quando qualche anno furono raccolte le autobiografie in forma di lettere degli adolescenti scout dell’Agesci emerse che diverse fra queste usavano l’elenco come descrizione di sé. Ma non quello diacronico che a scuola ti suggeriscono di usare il meno possibile per non annoiare il lettore – ‘ho fatto questo, poi quello, e dopo ancora quest’altro…’ – bensì quello sincronico, una sorta di coming out sul pluralismo identitario: ‘sono questo, ma anche quello, mi piace una cosa e il suo contrario, sono combattuto fra questo e quest’altro,…’. Era come se al principio della verticalità biografica, della vita come percorso a tappe successive verso una meta o semplicemente verso l’attuale condizione si fosse affiancata l’idea di una vita come ondeggiamento, navigazione a vista, proliferazione dei tratti identitari, senza un chiaro criterio ordinatore. Sembrava che all’articolazione ipotattica dell’esistenza – si è qualcosa perché.. , in seguito a…, se… – stesse subentrando una struttura paratattica, un’elencazione sullo stesso piano di stati d’animo, preferenze, pensieri, ecc.

La lista ha una vertigine e una sua storia culturale

Qualcosa del genere risultava anche da ricerche sui percorsi biografici nelle transizioni lavorative difficili, quelle cioè che passano per la disoccupazione, la lunga ricerca del primo impiego, la cassa integrazione: riusciva a collocarsi non chi insisteva sulla sua storia professionale – la grafica pubblicitaria che mandava lettere ad altre agenzie pubblicitarie per ritrovare il suo lavoro – ma chi compiva una strategia che Paul Watzlawick chiama di secondo livello, cioè inventava un percorso inedito avendo il coraggio di guardarsi da fuori e rileggersi come persona con altre possibilità. Per intenderci, la grafica pubblicitaria che aveva visto la crisi del mercato pubblicitario, si era riconosciuta capace di relazioni e di buon umore, ed era andata a fare l’animatrice in casa di riposo.

Le “lettere-elenco” possono spazientire, perché seminano il lettore e aggirano la chiamata identitaria degli adulti creando un’imboscata dove tutto è possibile. Il principio di identificazione e di coerenza, che regola le istituzioni, l’organizzazione della società e dei suoi meccanismi di controllo, ma anche l’impianto valoriale nel quale cresciamo – l’incoerenza è un disvalore – è aggirato dalla lista, che in quelle lettere è proprio piatta, cioè non si presenta come graduatoria ma come puro elenco.

3. Ordinare il caos

La lista ha una vertigine e una sua storia culturale, Eco ne ha fatto un eruditissimo trattato, per dire che da sempre cerchiamo di classificare, per ordinare il mondo e arrivare all’essenza delle cose, ma poi andiamo a sbattere in universi che sfuggono a criteri ordinatori, alla focalizzazione progressiva e univoca. Così non ci resta che la lista, l’elencazione potenzialmente infinita, che può celebrare l’inatteso e l’ebrezza (come nelle wunderkammer) o la regolarità e la classificazione (come nei musei e nelle enciclopedie).

Le liste piacciono, gratificano e rassicurano

Nel 2016 la letteratura visiva, in larga parte destinata all’infanzia e ai giovani adulti, si animò di elenchi. Alla Bologna Children’s Book Fair (BCBF), l’evento più importante del settore, copertine, risguardi e doppie pagine si popolarono di liste illustrate e scritte, una moltitudine di oggetti materiali, animali, piante, edifici, persone e parole, rincorrevano o fuggivano tassonomie e modelli di classificazione a seconda che i libri fossero di natura divulgativa oppure celebrassero il fantastico: wimmelbücher, imagier, libri gioco, cataloghi scientifici, celebrarono le liste, quelle palesi quanto quelle scomposte.

Perché questa diffusione, questa proliferazione? In fondo la lista è una risposta intelligente alla complessità del presente, è un modo per galleggiare, in senso letterale, sapendo che distribuendo il peso su più punti di appoggio anziché su uno solo si evita di andare a fondo, cioè di vedersi fallire perché si è fatta la scelta sbagliata. È un modo per esserci, fare l’appello, delimitare perimetri: si pensi alla proliferazione di decaloghi, spesso sotto forma di manifesto, che altro non sono se non liste commentate intorno ai quali raccogliersi (poco importa se a favore o contro).

Le liste piacciono, gratificano e rassicurano, sono utilizzate in ambiti anche molto diversi tra loro perché fungono da collante identitario, schematizzano norme, accolgono la molteplicità delle opzioni negli esercizi investigativi e, non per ultimo, standardizzano le procedure. Da pochi anni l’espressione TO DO LIST è entrata nel linguaggio comune, non è difficile comprare blocchi di appunti appositamente predisposti allo scopo.

La lista è una risposta intelligente alla complessità del presente

Oppure prendiamo una delle versioni più note, la check list, per vederne la parabola, l’ambivalenza. Usata come strumento di qualità prima nell’industria e poi nei servizi, è arrivata nel settore pubblico, per standardizzare le azioni delle commissioni di vigilanza, più raramente per stabilizzare processi di autoverifica in itinere. È comparsa con lo slancio del desiderio di ottimizzare l’amministrazione e la promessa di regolamentare ciò che per la sua complessità sfugge a tali pressioni, ma si è scontrata con l’impossibilità di standardizzare le relazioni umane di cui sono fatti i servizi educativi, sociali e sanitari, con la necessità e l’utilità dell’errore come fonte di informazione, con l’unicità di ogni cittadino e del suo profilo di bisogni e risorse.

4. Ingannare la fine, negare l’unicità

Verso la fine degli anni ’80, nel corso della presentazione pubblica di un suo film, il regista inglese Peter Greenaway dialogò con il pittore milanese Emilio Tadini: ricordo che ad un certo punto il pittore fece questa ipotesi rivolgendosi al regista, ‘secondo me la sua ossessione per gli elenchi, le liste, le trame basate su una scansione enciclopedica delle cose è il suo modo per sfuggire alla morte’. Greenaway rimase colpito, disse che non c’aveva mai pensato, e Tadini spiegò che in fondo l’elenco ha questa suggestione dell’infinito, cioè regala un senso di continuità e di superamento del limite. Viene in mente “Le mille e una notte”, ovvero l’espediente di Sherazad di sopravvivere e far sopravvivere le vittime del re di Persia raccontando storie ogni sera, se si guarda alla vicenda non tanto dal punto di vista del potere delle storie di affascinare chi ascolta e sciogliere il suo cuore, ma da quella del numero, cioè mettere in atto una strategia ricorsiva potenzialmente infinita tale da sfinire l’uditore e piegare la sua determinazione.

Scrivere liste per dialogare con una realtà che cambia di continuo

L’ipotesi è che la lista sia una strategia di sopravvivenza, non solo per guardare il mondo accogliendone la molteplicità, ma anche per guardarsi dentro, come fanno quelle lettere. L’imperativo dell’identità e dell’identificazione, la retorica del “sii te stesso”, la regole aurea delle scelte univoche e irreversibili, il principio di responsabilità che si vorrebbe ancorato alla coerenza, insomma tutto un impianto educativo e valoriale saltano di fronte al riconoscimento della complessità e della strategia delle liste come risposta ad essa.

Non è un cambiamento da poco quello che deriverebbe se si accogliesse in modo radicale questa traccia: vuol dire raccontarsi al plurale, ammettere che ciascuno di noi è tante storie, tenere aperte le possibilità sulle proprie esistenze a qualunque età, non dire ‘non farei mai, non potrei mai…’ perché non si sa mai, assegnare in classe il tema ‘tre mestieri che vorresti far da grande’, insegnare l’ambivalenza dei personaggi nei romanzi, chiedere quali sensazioni anche opposte suscita un quadro, tenere un diario di tutti gli stati d’animo attraversati in un giorno qualunque, ecc.

Al contrario della retorica politica, della comunicazione sui social network e della letteratura su eroi e eroine, si tratta di smetterla di asserire, posare, celebrare: anziché scolpire e monumentalizzare se stessi, si tratta di tenersi aperti, relativi al mondo e agli altri, mutevoli e fragili, in dubbio e in errore, in risonanza con gli eventi che capitano, e con leggerezza scrivere liste per dialogare con una realtà che cambia di continuo.