Che fare, dunque?

Cosa fare, dunque? Non siamo proprio noi gli artefici di tutto ciò? E se non siamo noi, chi è allora?

Sosteniamo di non essere noi i colpevoli di quanto sarebbe accaduto comunque, proprio come i bambini quando assicurano che il vetro appena spaccato si è rotto da solo. Sosteniamo che, vivendo in città, una realtà esistente a prescindere da noi, ne sfamiamo gli abitanti pagando il lavoro che fanno per conto nostro; ma non è vero, basta osservare la vita che conduciamo in campagna e come ne sfamiamo gli abitanti.

Finito l’inverno, arriva la Santa Pasqua, in città prosegue il baccanale dei ricchi: sui viali, nei parchi, lungo il fiume, ovunque ci sono musica, spettacoli teatrali, piste di pattinaggio, un passeggio continuo, luci, fuochi d’artificio, ma in campagna è anche meglio, l’aria è tersa, gli alberi, i prati, i fiori sono più freschi, tutto sboccia e inverdisce. Così la maggior parte dei ricchi se ne va in campagna a respirare quest’aria pulita, a godersi quei prati e quei fiori, e si insedia tra i contadini ingrigiti che si cibano di pane e cipolla, lavorano diciotto ore al giorno, non dormono a sufficienza, indossano solo un camiciotto. Qui ancora nessuno li ha sedotti, non ci sono fabbriche e industrie e braccia inoperose come in città: qui l’intera estate non è sufficiente a completare le mille faccende da sbrigare, qui non solo non ci sono braccia inoperose, ma queste non bastano mai e tutti – bambini, vecchi, donne con lattanti al seno – si ammazzano di fatica.

Come trascorre la vita della classe abbiente in campagna?

Se esiste una vecchia dimora, eretta ai tempi della servitù della gleba, viene ristrutturata e abbellita, altrimenti ne viene costruita una nuova, di due o tre piani, con venti e più stanze, pavimenti di parquet, ampie vetrate, tappeti preziosi e mobili ricercati; intorno il terreno viene spianato, lastricato, si creano aiuole, campi da croquet, serre e spaziose scuderie. Ogni cosa viene pitturata con tintura a olio, quell’olio che manca nelle minestre degli anziani e nelle pappe dei bambini. Se non si ha la disponibilità di acquistare questo tipo di magione la si affitta, in ogni caso per costruire e mantenere una casa del genere vengono sottratti alle attività con cui si guadagnano il pane due o tre, se non più, lavoratori.

Prendiamo un’onesta e colta famiglia di nobili o di agiati funzionari; tutti i suoi membri, smessi gli studi, insieme ad alcuni ospiti si sono trasferiti in campagna verso la metà di giugno, dunque all’inizio della fienagione, per rimanervi fino a settembre, vale a dire fino al raccolto e alla semina, quindi da che ha inizio la fase più intensa dei lavori agricoli fino al loro rallentamento (non del tutto, perché in autunno ci sono ancora la semina e la raccolta delle patate). Per l’intera durata della villeggiatura accanto e intorno a loro si svolge quell’attività agreste estiva la cui intensità, finché non la si sperimenta in prima persona, non si può neppure immaginare. Tuttavia i componenti di quella famiglia continuano a vivere esattamente come in città, o se è possibile anche peggio, perché in campagna si riposano (del loro far nulla), senza bisogno di giustificare il proprio ozio.

Osservano l’attività circostante, in parte la dirigono, in parte l’ammirano, si beano dell’odore del fieno fresco, dei canti delle donne, dello sferragliare delle falci.

La fienagione è tra i lavori più importanti: quasi tutti gli anni, per mancanza di braccia e tempo, alcuni campi finiscono per essere falciati sotto le piogge autunnali e l’intensità con cui lo si fa può essere determinante per ottenere un venti per cento in più o in meno di fieno, il che per un falciatore significa avere o meno pane e latte a sufficienza tutto l’inverno per sé e i propri figli. Lo sa bene chiunque, perfino i bambini che non si tirano indietro a percorrere due verste di corsa per portare all’ora del pranzo una pesante brocca di kvas al genitore impegnato nel lavoro sui campi. Tutti sanno che dalla fienagione al raccolto non ci sarà tempo di riposarsi a causa delle tante altre incombenze da assolvere: rivoltare la terra, andare al mulino per la macina, strigliare i cavalli; le donne poi, spesso incinte o in fase di allattamento, infornano il pane, lavano il bucato, sbrigano le faccende domestiche.

C’è per esempio una piccola cooperativa di tre contadini composta da un uomo più anziano, suo nipote e un ciabattino; per tutti loro la fienagione decide le sorti dell’inverno, se continuare a tenere la vacca o pagare le tasse. Da due settimane ormai lavorano senza sosta, la pioggia ha ritardato l’inizio dei lavori, passata la pioggia e spazzate via le nuvole dal vento, hanno deciso di abbicare il fieno, incaricando di questo le proprie donne: il vecchio ha mandato la moglie, una donna sulla cinquantina, consumata dalla fatica e da undici parti, sorda ma ancora molto energica, e la figlia di tredici anni, bassetta ma forte; anche il nipote ha mandato la moglie, donna alta e robusta come un uomo, e la cognata, vedova del fratello caduto in guerra e incinta; infine il ciabattino, oltre alla moglie, robusta faticatrice, ha coinvolto l’anziana madre, giunta agli ottanta, che solitamente va in giro a mendicare. Tutte loro lavorano da mattina a sera, sotto la canicola del sole di giugno; l’aria è afosa, gravida di pioggia, ma ogni singola ora è importante, perfino una pausa per bere appare tempo sprecato; un bimbetto, nipote della vecchia, con i piedi scalzi e a piccoli passettini trascina a fatica la brocca dell’acqua più pesante di lui; la vecchietta, temendo di essere estromessa, pur muovendosi a stento non molla la presa sul rastrello, la fronte aggrottata e lo sguardo fisso davanti a sé, come di persona in punto di morte; la ragazzina si carica in spalla le fascine di fieno, muove qualche passo e si ferma per scaricarle a terra, sfinita dal peso; la donna di mezza età rastrella senza posa, ansimando e barcollando. Il sole ormai sta calando oltre gli alberi, ma i covoni non sono ancora accatastati, tutti sentono il bisogno di fermarsi, però nessuno ha il coraggio di esprimerlo, aspettando che lo facciano altri; alla fine il ciabattino propone al vecchio, che acconsente, di lasciare i covoni per l’indomani e le don- ne si precipitano a raccogliere i vestiti, le brocche, i tridenti, la vecchia si lascia cadere a sedere sul posto, poi si sdraia, continuando a guardare avanti con quell’espressione da moribonda, infine con grande sforzo si alza trascinandosi dietro alle altre.

La stessa sera, mentre dai campi giungono il tintinnio degli attrezzi dei contadini che tornano esausti dalla falciatura e le grida delle donne che, posati i rastrelli, già corrono dietro agli animali da cortile, dalla casa padronale provengono suoni affatto diversi: il trillo di un pianoforte, le note di una canzone ungherese, ogni tanto si ode il tocco della mazza da croquet contro la sfera di legno.

Vicino alla scuderia sta la carrozza con un tiro a quattro di un elegante vetturino che per dieci rubli ha condotto degli ospiti; i cavalli panciuti agitano i campanelli e calpestano il fieno sparso in terra, quello stesso che con tanta fatica è stato raccolto tutto il giorno sui campi. All’interno della villa c’è movimento; un giovane paffuto in camiciotto rosa esorta i cocchieri a sellare i cavalli per i signori; da un secondo pianoforte si diffonde la musica di Schumann, che un’allieva del conservatorio, educatrice dei figli del padrone, sta ripassando. Fuori, due tate accompagnano a dormire bambini della stessa età di quelli che correvano tra i campi trascinando le pesanti brocche: una è inglese e non sa parlare in russo, venuta apposta dall’Inghilterra non per chissà quali particolari meriti, ma solo perché non conosce l’idioma locale, al pari dell’altra tata, una francese. Più avanti un uomo innaffia i fiori e un altro pulisce il fucile per il signorino, due ragazze recano una cesta piena della biancheria pulita di tutti, ospiti inglesi e francesi compresi; due donne hanno appena finito di lavare le stoviglie utilizzate per il pranzo, e due camerieri in frac corrono su e giù per la scala a servire caffè, tè, vino, acqua di seltz; al piano superiore la tavola è apparecchiata: hanno appena finito di mangiare e di nuovo si apprestano a desinare fino a che il gallo canti, mezzanotte, le tre, talvolta fino all’alba. Alcuni ospiti giocano al tavolo delle carte e fumano, altri siedono e fumano mentre intessono discorsi liberali, altri ancora si spostano di qui e di là, mangiano, fumano e, non sapendo come ingannare il tempo, decidono di fare una bella cavalcata.

Saranno una quindicina tra uomini e donne in buona salute e una trentina di addetti al loro servizio. Questo è quanto avviene nel mese di luglio, quando i contadini, senza aver dormito, falciano l’avena tutta la notte perché non si sparga e le donne si alzano per trebbiare che è ancora buio, quando braccia, cavalli, carri non sono sufficienti a trasportare tutto il grano, milioni di pud al giorno, con cui l’intera Russia si sfama; nello stesso periodo la vita dei signori va avanti tra spettacoli teatrali, pic-nic, battute di caccia, cibi, vini, pianoforti, canti, danze: un’inesauribile orgia. Giustificarsi sostenendo che è così che funziona qui non vale, perché noi stessi abbiamo voluto questa vita, sottraendo il pane e gli altri prodotti a gente sfinita dal lavoro.

Viviamo in questo modo, come se non esistesse relazione tra la lavandaia morente, la quindicenne prostituta, le donne deperite a furia di confezionare sigarette, il lavoro sfiancante di vecchi e bambini, non sostenuto da adeguata alimentazione, e la nostra vita oziosa, circondata dal lusso e dai divertimenti, ritenendoci innocenti e puri come tortorelle.

Quando leggiamo la storia dell’antica Roma ci indigniamo della disumanità dei vari Lucullo, satolli di cibi e vini mentre il popolo muore di fame; oppure ci meravigliamo della barbarie dei nostri antenati, ai tempi della servitù della gleba, che possedevano orchestre e teatri domestici e destinavano interi villaggi ad accudire i loro giardini. Prendiamo quanto dice Isaia, 5,8. «Guai a coloro che aggiungono casa a casa, che congiungono campo a campo, finché non vi sia spazio e voi rimaniate soli ad abitare in mezzo al paese». 11. «Guai a quelli che si alzano di buon mattino e corrono dietro a bevande inebrianti, si attardano fino a sera, infiammati dal vino». 12. «Vi sono cetre e arpe, tamburini e flauti, e vino nei loro conviti, ma non prestano attenzione all’azione del Signore e non vedono l’opera delle sue mani». 18. «Guai a quelli che si attirano la colpa con fumi di iniquità ed il peccato come con corde da carro». 20. «Guai a quelli che chiamano il male bene ed il bene male, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce ed il dolce in amaro». 21. «Guai a quelli che son saggi ai loro sguardi, e intelligenti davanti a loro stessi!». 22. «Guai ai campioni nel bere vino e ai prodi nel mescere bevande inebrianti». 23. «Assolvono l’empio per un regalo, e privano il giusto del suo diritto».

Leggendole, pensiamo che queste parole non siano riferite a noi.

Prendiamo il Vangelo di Matteo, 3,10: «La scure sta già sulla radice dell’albero, perciò ogni albero che non porta buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco».

E siamo certi di essere noi l’albero che dà buoni frutti, mentre queste parole non sono dirette a noi, bensì ad altri individui malvagi.

Prendiamo ancora Isaia, 6,10. «Ingrassa il cuore di questo popolo, appesantisci le sue orecchie, vela i suoi occhi, affinché non veda con i suoi occhi né ascolti con le sue orecchie né intenda con il suo cuore, si converta e guarisca». 11. «Io dissi: “Fino a quando, Signore?” Egli rispose: “Fino a che le città non saranno deserte, senza abitanti, le case senza uomini e la terra devastata e desolata”».

Leggiamo e siamo convinti che non riguardi noi, ma qualche altro popolo. Perciò non vediamo, non ascoltiamo e non intendiamo con il cuore. Com’è potuto accadere tutto ciò?


Estratto dalla nuova edizione  Che fare, dunque? di Lev Nicolaevič Tolstoj nuovamente disponibile grazie a Fazi Editore, traduzione di Flavia Sigona.

Immagine di copertina: ph. Kyler Nixon da Unsplash