L’Eco necessario, perché leggere Umberto Eco oggi
cheFare da settimana scorsa (qui il primo estratto) e per tutta l’estate pubblicherà alcuni saggi ed estratti dai libri di Umberto Eco in collaborazione con La Nave di Teseo. Quando cheFare mi ha chiesto se mi andasse di scrivere un articolo introduttivo che spiegasse i motivi per cui fosse necessario leggere Eco oggi, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: “perché sì”. Normalmente diffido sempre della prima cosa che mi viene in mente, ma, in questo caso, ad alcune settimane da quella richiesta, penso ancora che sia questa la migliore risposta possibile. Se non forse l’unica. Perché nel frattempo mi sono venute in mente anche quelle splendide pagine di Kant e l’ornitorinco in cui Eco si prefigge di rispondere all’abissale domanda che da sempre è considerata tra le più importanti della filosofia: “perché c’è dell’essere piuttosto che il nulla?”.
La risposta di Eco, ovviamente, è proprio “Perché sì”.
E questo secondo me spiega quanto sia necessario leggere Eco oggi e perché lo sia: davanti a una domanda così seria e abissale, che da Leibniz in poi ha fatto spendere fiumi di inchiostro a molte menti eccezionali, Eco dà una risposta che devia rispetto a quasi tutte le risposte che erano state date fino ad allora. E la risposta di Eco è in grado di farci vedere le cose altrimenti.
Proprio per questo è necessario leggere Umberto Eco oggi: per vedere le cose altrimenti rispetto alle versioni attestate che nel nostro tempo vanno per la maggiore. E per questo quel “perché sì” è fondamentale, consentendo di dischiudere tre tratti che sono fondanti di tutti gli scritti di Eco. Il primo tratto riguarda lo stile: non lo stile di scrittura, lo stile del pensiero. Di fronte a un problema serissimo che ha sulle spalle secoli di riflessioni, Eco, come il suo Guglielmo da Baskerville che “celiava soltanto quando diceva cose serie”, scherza. Ed è proprio questo il primo passo per vedere le cose altrimenti: quando si crede in qualcosa infatti, di norma lo si prende sul serio. Non farlo è il primo momento attraverso cui si mostra che un’altra strada è possibile. Non a caso, in quel saggio capolavoro che è “L’elogio di Franti”, Eco definiva il riso come “la maieutica dei possibili”.
Il secondo tratto è la conseguenza diretta del primo: dato un problema, Eco pone la sua soluzione in altra forma, in un linguaggio che non è innanzitutto quello proprio del dominio culturale che ha posto la domanda. E con questo dà una risposta “in traduzione”, spingendo fuori casa il problema. E chi ha detto che per i problemi culturali funzioni la legge dello sport, secondo cui è più difficile vincere fuori casa? La realtà è che Eco ci ha insegnato che nessun dominio culturale è capace di risolvere tutti i problemi che è in grado di porre. Per questo le soluzioni ai problemi della cultura si danno innanzitutto in traduzione.
Per capire il terzo tratto, bisogna invece leggere con attenzione il passo del “perché sì”.
Perché c’è dell’essere piuttosto che il nulla? Perché sì.8
La cosa decisiva è ovviamente l’8 in apice, e cioè il segno di rimando in nota. Se si apre quella nota, viaggiando centinaia di pagine in avanti, ci si ritrova infatti molti anni indietro, con Eco ragazzo sui banchi dell’Università. La nota 8 infatti cita il maestro di Eco, Luigi Pareyson, che aveva già detto quello che Eco stesso sosterrà su questo argomento, e cioè che dell’essere “si può solo dire che è perché è”, che è un’altra versione del “Perché sì”.
L’attenzione e la cura che Umberto Eco ha sempre avuto nei confronti dei suoi maestri, del già detto e di quell’enciclopedia del sapere che per lui definiva la cultura, rappresentano il terzo tratto fondamentale che possiamo estrarre da quel “perché sì”. In un momento di svalutazione generale della conoscenza e del sapere, la lezione di Eco, secondo cui non si può e non si deve pensare ignorando quello che è stato detto e pensato prima di noi, è di importanza decisiva. Ma su questo ritornerò.
cheFare ha esordito pubblicando “Come farsi delle vacanze intelligenti” dal Secondo diario minimo e pubblicherà nelle prossime settimane (cito in ordine sparso) “Un messaggio chiamato cavallo” da Dalla periferia dell’impero, “La cultura come fenomeno semiotico” dal Trattato di semiotica generale, “Come evitare di farsi sfruttare dal relatore” da Come si fa una tesi di laurea, “La visione estetica dell’Universo” da Arte e bellezza nell’estetica medievale, “L’Enciclopedia” da Dall’albero al labirinto e “Sulle spalle dei giganti” dall’omonima raccolta postuma.
Si tratta di pezzi eterogenei, esempi perfetti di quella filosofia fatta da pezzi di non filosofia che rappresenta il vero tratto di originalità del pensiero di Eco. Prendendo a modello il suo animale preferito, a cui aveva dedicato un grande libro di teoria, nel mio volume uscito da Feltrinelli la chiamavo un “ornitorinco filosofico”. Perché allora proprio questi pezzi? Certamente i pezzi non sono stati scelti a caso, ma, leggendoli uno dopo l’altro, danno l’idea di una specie di “controllo a campione”. Di cosa?
C’era un tempo, non troppi anni fa, in cui la parola dei professori era sostenuta dalla forza del già detto e del passato, di cui erano i continuatori e che avevano la funzione di trasmettere. Questo bastava da solo a fornire quell’autorevolezza che ogni insegnamento richiede, visto che nessuno di noi accetterebbe di imparare qualcosa da una persona che non abbia nessuna autorevolezza su quello che dice. Oggi il mondo è cambiato e quando un professore parla deve innanzitutto dimostrare di non essere lì a causa di un concorso truccato dai baroni o a causa di qualche altro motivo innominabile. Per questo è soltanto quello che dice di volta in volta a poter fondare quell’autorevolezza su cui si basa ogni insegnamento.
Ecco, forse il più grande favore che possiamo fare al pensiero di Eco è quello di lasciargli dimostrare da solo il tipo di autorevolezza che la sua parola può ancora pretendere. Per questo il modo migliore che abbiamo di leggere Eco oggi è proprio quello del “controllo a campione”. Non dobbiamo monumentalizzarlo, non dobbiamo insistere sul suo essere stato il più importante intellettuale italiano della seconda metà del Novecento, non dobbiamo insistere su quanto sia stato importante per la cultura italiana e per tutti noi. Lo sappiamo già. Così quello che dobbiamo fare è lasciare che la sua parola si costruisca oggi da sola la sua autorevolezza, facendoci pensare altrimenti.
Credo che durante le prossime settimane su cheFare, tutti noi percepiremo chiaramente che le riflessioni che leggeremo sui matti, sui maestri, sulla cultura, sulla bellezza e sui libri da consigliare passino ancora brillantemente l’a volte stupido “controllo qualità” a cui sottoponiamo i nostri maestri.
Immagine di copertina: ph. Martin Grüner Larsen (flickr)