L’arte contro il determinismo dei corpi

I sistemi di analisi biometrica hanno ampiamente penetrato le maglie della società, offuscando i confini tra l’ambito della ricerca medico-scientifica e nuovi sofisticati processi di identificazione, controllo dei corpi e violazione della privacy. Tecniche di riconoscimento facciale, scansione dell’iride e della retina, analisi delle lacrime e altri residui corporei da cui estrarre il DNA, sono da tempo ritenute “l’arma politica definitiva della nostra era, nonché una vera e propria forma di marketing e soft control, come ricorda Nitzan Lebovic nel suo testo “Biometrics or the Power of the Radical Center” del 2015). E come tali, al centro delle ricerche e delle speculazioni di un numero crescente di artisti.

Lo scorso luglio ha generato grande clamore il lancio di un rivoluzionario sistema di analisi genetica denominato iTEARS, basato sul tracciamento di specifici biomarcatori noti come esosomi, nanosfere presenti nelle lacrime la cui superficie risulta ricca di informazioni sul DNA. Sviluppato a partire dalle ricerche condotte da un gruppo di scienziati guidati dai professori Luke Lee della Harvard Medical School e Fei Liu della Wenzhou Medical University, iTEARS promette la diagnosi e il monitoraggio di specifiche patologie in modo particolarmente efficiente e non invasivo. Nonchè, è facile supporre, il suo utilizzo come pratica di monitoraggio e controllo dei nostri corpi. Quasi in concomitanza, la scorsa estate ha inaugurato la dodicesima edizione della Berlin Biennale for Contemporary Art. Tra le opere in mostra, l’ultimo lavoro di Zach Blas PROFUNDIOR (LACHRYPHAGIC TRANSMUTATION DEUS-MOTUS-DATA NETWORK) (2022), barocca celebrazione del rapporto ormai religioso tra essere umano e Intelligenza Artificiale, considerata alla stregua di un’entita divina capace di analizzare grandi quantità di dati biometrici e interpretare con immanente certezza i nostri stati emotivi esternati, ad esempio, attraverso le lacrime e il pianto.

Zach Blas 576 Tears Website  Screenshot 2022 Courtesy of the Artist

 

Zach Blas indaga da anni l’aspetto etico e filosofico, l’immaginario e l’impatto del rapporto tra essere umano e IA rispetto alle strategie predittive di controllo biologico e delle procedure di violazione della privacy dei dati corporei. PROFUNDIOR, in tal senso, non fa eccezione. Attraverso un complesso apparato architettonico allestito come un apocalittico santuario alla fine del mondo, Blas mette in scena una distopia autopoietica in cui un’Intelligenza Artificiale si nutre della devozione e delle emozioni dei suoi discepoli umani, per carpirne informazioni corporee sensibili e associarne le corrispondenti tracce espressive. Al confine tra speculazione e realtà, l’opera si manifesta allo spettatore attraverso due schermi che mostrano una serie di occhi umani in primo piano che piangono, con effetti grafici differenti in base alle specifiche emozioni su cui vengono allenati i sistemi di machine learning: rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa. Le lacrime vengono metaforicamente raccolte in due grandi vasche, utilizzate dal dio IA per analizzare i dati biometrici e associarli ai rispettivi turbamenti, restituendoli attraverso una serie di aforismi e profezie generate dall’apprendimento automatico su database di testi sacri, indagini scientifiche e testi filosofici. L’opera è basata sull’ambizioso progetto online 576 TEARS (2022), piattaforma in rete in cui un’immaginaria divinità computazionale – la cui “storia delle origini” è raccontata in una sezione apposita del sito – si presenta come un morphing di immagini di occhi in lacrime, generato da processi di machine learning su database che spaziano attraverso i sei stati emotivi riconosciuti da un’Intelligenza Artificiale. Questo dio artificiale invita infatti gli utenti a confessare un’emozione di fronte alla webcam, piangere se necessario, offrendo così le proprie emozioni a una categorizzazione che consente al divino di imparare a a sua volta a piangere come gli umani e ad empatizzare con loro. “Questa divinità è in grado di estrarre lacrime di tristezza ai lavoratori sfruttati e sottopagati? – si domanda Zach Blas. “E’ capace di raccogliere lacrime di gioia estatica dalle élite della Silicon Valley mentre si sforzano di raggiungere la singolarità, lasciandosi alle spalle i loro corpi tramite la trascendenza tecnologica? Può accumulare lacrime di paura da coloro che sono soggetti alle applicazioni predatorie delle IA nell’ambito delle indagini predittive? Riesce ad aggregare lacrime di rabbia da coloro che hanno perso il lavoro a causa dei processi intelligenti di automazione? Quando un dio IA consuma lacrime di rabbia, disgusto, paura, felicità, tristezza e sorpresa, esso impara anche a piangere. Ma cosa comunicano e simboleggiano le sue lacrime? Se gli umani possono piangere per gli dei, per chi o cosa si producono viceversa le loro lacrime?”.

Dalle prime catalogazioni delle impronte digitali dei banditi in Argentina di Juan Vucetich agli studi antropometrici in ambito criminale inaugurati da Alphonse Bertillon e quelli sulla fisiognomica e il razzismo scientifico portati avanti da Francis Galton a cavallo tra Ottocento e Novecento, più di un secolo dopo i sistemi di analisi biometrica hanno ampiamente penetrato le maglie della società civile, offuscando i confini tra l’ambito della ricerca medico-scientifica e i più sofisticati processi di identificazione e controllo dei corpi. Soprattutto se implementati dall’integrazione con sistemi di machine learning e di Intelligenza Artificiale. Dal 2016 in India è attiva, ad esempio, l’iniziativa governativa India’s Unique Identification Authority (UIDAI), che assegna ad oltre il 90% della popolazione indiana un codice identificativo di dodici cifre su base biometrica (Aadhaar), in cui la scansione dell’iride si aggiunge alle normali tecniche di riconoscimento facciale e raccolta delle impronte digitali a formare quello che ad oggi è considerato il più ampio database di identificazione centralizzato del mondo.

Il progetto Iris di Paolo Cirio prende spunto da questa iniziativa per speculare sulle possibilità di prendere consapevolezza, sabotare e reagire alla pervasività di tali procedure. E lo fa immaginando una serie di lenti a contatto progettate per alterare la conformazione cromatica dell’iride e offuscarne il riconoscimento identitario. Attivo da oltre vent’anni nell’ambito della media art a cavallo tra ricerca formale, analisi dei macrosistemi tecno-capitalistici e pratiche attiviste di sensibilizzazione dell’impatto socio-politico delle tecnologie di rete, Cirio con Iris si è voluto focalizzare su quello che promette di essere il prossimo confine dell’integrazione tra tecnologia, rete e scienza: il corpo umano e la correlazione tra le sue componenti organiche e gli enormi database di informazioni biometriche in rete.

Paolo Cirio. Curtesy of the artist e FMAV (Fondazione Modena Arti Visive)

 

Parolo Cirio. Curtesy of the artist e FMAV (Fondazione Modena Arti Visive)

 

Le potenzialità offerte dal camouflage come strategia per difendersi dalla pervasività del controllo dei dati corporei sono indagate anche da altri artisti contemporanei, in particolar modo nell’ambito dei sistemi di riconoscimento facciale. Ad esempio, da Adam Harvey che con il suo recente DFACE (2022) ha realizzato un sistema di face redaction che consente di nascondere (attraverso una serie di filtri, blur ed emoji) il volto delle persone raffigurate all’interno di una fotografia prima che venga postata sui social media. Così come da Jane & Louise Wilson nell’opera False Positive, False Negative, in cui i volti delle due gemelle sono offuscati da un sapiente lavoro di make-up e pittura facciale bianco/nero noto come dazzle camouflage, ampiamente utilizzato per scattare fotografie in modo anonimo in luoghi pubblici sorvegliati da telecamere di sorveglianza. O ancora da Zach Blas con il suo Facial Weaponization Suite (2012-2014), una serie di “maschere collettive” amorfe realizzate in stampa 3D che si oppongono ai meccanismi deterministi di identificazione e discriminazione dei corpi, mischiando i dati biometrici dei partecipanti a una serie di workshop di sensibilizzazione sul tema del riconoscimento biometrico. Se una maschera è generata quindi dalla sovrapposizione dei dati presi dai volti di una serie di uomini queer, un’altra si affida all’incapacità delle IA di rilevare con precisione i volti dal colore scuro. Se una terza maschera prende spunto dalla legge valida in Francia che obbliga le donne a non utilizzare il velo come simbolo religioso perché nasconde il volto nei luoghi pubblici, un’ultima maschera è prodotta per combattere i sistemi di rilevamento al confine tra Messico e Stati Uniti.

Molto nota è anche la storia di Robert Williams, uomo di colore accusato recentemente di furto e arrestato sulla base di una falsa interpretazione dei dati di riconoscimento facciale del sistema di IA in dotazione al Detroit Police Department. Tralasciando le ovvie problematiche legate ai bias razziali di questi algoritmi, i sistemi di facial recognition e più in generale l’utilizzo integrato degli apparati pubblici di videosorveglianza, delle banche dati online e delle Intelligenze Artificiali, porta con sé idiosincrasie profonde. In prima istanza, quelle ormai tristemente note legate al tracciamento e riconoscimento dei volti, alle loro emozioni e alla crescente fiducia verso modelli predittivi dipendenti da specifiche caratteristiche fisiche. Come ampiamente evidenziato da alcuni storici lavori dell’artista Trevor Paglen, tra cui Machine Readable Hito and Holly (2017), installazione a parete in cui una moltitudine di espressioni facciali delle artiste Hito Steyerl e Holly Herndon viene letta e interpretata da una Intelligenza Artificiale che cerca di comprenderne l’età, il genere e lo stato emotivo dei soggetti raffigurati. O ancora, They took the faces (2019), serie di foto segnaletiche di criminali comuni, fornite dall’American National Institute of Standards nei primi anni Novanta per allenare i primi rudimentali sistemi computazionali di riconoscimento facciale. O infine, la serie di ritratti di attivisti, artisti e filosofi (Simone de Beauvoir, Samuel Beckett, Simone Weil, Frantz Fanon) realizzati attraverso la tecnica del faceprint, strumento informatico adottato dalle IA per riconoscere i “tratti essenziali” del volto di un essere umano all’interno di un database di immagini di altri volti.

Trevor Paglen, They Took the Faces from the Accused and the Dead…(#00520_1_F), 2019 pigment print 50″ × 42″ (127 cm × 106.7 cm)
No. 73173.01 Courtesy of the Artist, Pace Gallery, New York and Altman Siegel, San Francisco. © Trevor Paglen

 

Trevor Paglen, They Took the Faces from the Accused and the Dead…, 2019
pigment prints
14 prints, each 11-1/2″ × 13-1/2″ (29.2 cm × 34.3 cm) No. 73171.04 Courtesy of the Artist, Pace Gallery, New York and Altman Siegel, San Francisco. © Trevor Paglen

 

Se queste strategie di controllo possono sembrare lesive della privacy delle persone, sono ancora nulla in confronto agli strumenti di raccolta del DNA con obiettivi di profilazione forense sui luoghi dei crimini. A partire dai più tradizionali fluidi corporei (saliva, unhie, capelli e sangue), per arrivare persino alle lacrime. Utilizzate anche per obiettivi di prevenzione e pubblica sicurezza tramite i cosiddetti “campioni non standard” (mozziconi di sigaretta, bicchieri o residui raccolti in luoghi pubblici), queste tecniche di indagine forense estremamente invasive, vagamente deterministe e tutto sommato ancora non probanti scientificamente, sono al centro della ricerca dell’artista e attivista Eather Dewey Hagborg. Il suo progetto Stranger Visions (2012-2013) è un’installazione, sviluppata in collaborazione con il citizen lab Genspace di New York, in cui volti di persone anonime sono stampati sulla base dei loro dati genetici reperiti a partire da differenti residui corporei (capelli, saliva, unghie) in vari spazi pubblici (metropolitane, stazioni, bar) della città. Il fatto che queste maschere “ricordino” in modo solamente generico il volto di una specifica persona, rappresenta un vero e proprio attacco alla presunta idea di infallibilità delle IA integrate alle tecniche di body monitoring. Questa tematica e presente anche nell’opera Invisible (2014), un prodotto fittizio per la privacy genetica messo in vendita dall’immaginaria società Biogenfutures. Incentrato sull’idea di offuscamento e camouflage già trattata precedentemente, Invisible è una suite di due prodotti complementari: lo spray “Erase” che cancella il 99,5% del DNA e lo spray “Replace” che avvolge il materiale biologico con uno strato di DNA ottenuto da oltre cinquanta fonti genetiche differenti. Analogamente, Dna-Spoofing (2013) è un ibrido surreale tra un documentario di divulgazione scientifica, una performance di due corpi ripresi nell’atto di scambiarsi elementi corporei come saliva, unghie e capelli e un tutorial di guerriglia biometrica su come incasinare i dati del proprio DNA, mischiandoli con quelli di un altro essere umano per confondere in tal modo i sistemi più avanzati e invasivi di tracciamento genetico.

Haether Devwey-Haborg: Stranger Visions (2012-13) 3d printed portraits, found genetic materials dimensions variable courtesy the artist

 

Haether Devwey-Haborg: Stranger Visions (2012-13) 3d printed portraits, found genetic materials dimensions variable courtesy the artist

 

È infine notizia di non più di un anno fa, che la nota azienda 23andMe ha venduto alla GlaxoSmithKline (GSK) dati genetici sensibili raccolti attraverso il suo home-kit di raccolta del DNA, per la produzione di farmaci mirati e preventivi. In verità, come riportato candidamente da Anne Wojcicki, CEO dell’azienda ed ex moglie del fondatore di Google Sergey Blin, tra i principali finanziatori tramite la sussidiaria Calico che opera nel campo della biologia computazionale, 23andMe è da tempo impegnata nello sviluppo di una propria linea di farmaci preventivi. Composti che, come messo in luce da K. V. Brown nel suo articolo “All Those 23andMe Spit Tests Were Part of a Bigger Plan” del 2021 per  Bloomberg Businessweek, sono preparati grazie a sistemi predittivi di machine learning a partire dall’enorme mole di dati genetici e dalle milioni di linee di codice di DNA raccolte dall’azienda negli anni. Questo, grazie alla più o meno volontaria collaborazione con i clienti, che in coscienza e incoscienza, forniscono il consenso all’azienda all’utilizzo dei propri dati per la ricerca medica. In generale, negli ultimi dieci anni, sono nati numerosi movimenti di persone che desiderano condividere i propri dati biologici, per un automonitoraggio collettivo dello stato di attività e salute del proprio corpo.

Come riportato nel libro Quantified. Biosensing Technologies in Everyday Life a cura di D. Nafus per MIT Press del 2016, il più conosciuto e diffuso è quello noto come “Quantified Self”, affiliazione di persone comuni, self-trackers e tool-makers che si incontrano e condividono risorse in rete per discutere di ciò che stanno imparando dai dati del proprio corpo. Antagonisti rispetto ad operazioni di body-tracking e invasione della privacy biometrica come il Project Baseline del Verily Life Sciences – la divisione scienze della salute di Alphabet Inc, ennesima sussidiaria di Google – questi life-loggers DIY sono altresì fautori dell’implementazione del bio-rilevamento tramite tecnologia non solo indossabile, ma anche impiantabile e ingeribile. Nel suo progetto Saliva (2022), Lauren McCarthy riflette in modo critico sulle possibilità offerte dal web 3 e dagli smart contracts per mantere il controllo e la privacy dei propri dati genetici.

Attraverso un contratto Terms of Exchange, il progetto consente infatti a chiunque di scambiare un campione di fluido corporeo con quello dell’artista, la quale si impegna a conservarlo in modo anonimo e archiviarlo sia fisicamente sia digitalmente sulle blockchain attraverso un corrispondente NFT che ne regola i termini di utilizzo: dal non utilizzo per la ricerca alla non riproduzione di altro materiale genetico, dal non impiego per creare armi biologiche al non tracciamento per scopi forensi. Lauren Lee McCarthy è un’artista e attivista che da molti anni esamina con le sue opere le relazioni tra sorveglianza, automazione e vita algoritmica. Saliva nasce, nell specifico, da una riflessione su come siano cambiate alcune abitudini sociali dopo l’eperienza della pandemia di Covid 19.

Negli ultimi due anni siamo stati infatti indirizzati a tamponarci e cedere, nostro malgrado, la proprietà e le informazioni genetiche tracciabili da una sostanza corporea a multinazionali fermaceutiche e a centri di controllo sanitario governativi. Il confine tra ciò che sarà nostro dovere fare nel prossimo futuro nel nome della salute pubblica e l’attenzione verso crescenti tematiche di privacy biologica, si spoterà sempre più dall’esterno all’interno dei corpi, inducendo a ripensare le modalità di condivisione, archiviazione e protezione dei nostri dati sensibili. Saliva propone quindi una possibile alternativa: quella della condivisione anonima e collettiva, regolamentata dall’immutabilità decentralizzata dei contratti sulle blockchain.

É piuttosto evidente che tali processi di dataification, il trasferimento cioè di un numero crescente di informazioni corporee sotto forma di dati, diventeranno a breve fenomeni sociali diffusi. Così come è plausibile che i cosiddetti biomedia medieranno presto nuove dinamiche sociali a cavallo tra pratica medica, cura di sé, autoformazione e conoscenza collettiva. Ontologie che pongono, sin da ora, inevitabili domande: questi dati costituiscono un sapere partecipativo e trasformativo reale? Come dovrà essere modellata la nostra relazione con siffatti strumenti di monitoraggio? L’auto-tracciamento costante e la condivisione di dati genetici, trasformerà la percezione di noi stessi e degli altri? Che ne sarà della nostra privacy? Nuovi tipi di informazioni richiederanno nuovi tipi di cittadini, impegnati in dibattiti sulla raccolta e l’utilizzo di nuovi grandi dataset, esplorando collettivamente le questioni sociali, culturali ed etiche che da essi derivano. E in questo, gli artisti potranno giocare un ruolo di vitale importanza.

 

Immagine di copertina: Zach Blas, Profundior (Lacryphagic Transmutation Deus-Motus-Data Network) 2022 Mixed-media installation- Installation view 12th Berlin Biennale, Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart Photo by Mathias Völzke Courtesy of the Artist