Ladri d’innovazione

È il 1952 quando Vittorio De Sica arriva a Los Angeles in attesa di un incontro con Howard Hughes. Celebrato regista di Sciuscia, di Miracolo a Milano e di Ladri di biciclette, riconosciuto a livello internazionale e già premiato con l’Oscar, De Sica è alla ricerca di finanziamenti per i suoi nuovi progetti. Vittorio De Sica da sempre si divide tra direzione e recitazione, tra commedie all’italiana più o meno impegnate e i suoi progetti più legati al neorealismo che ha fortemente contribuito a diffondere insieme a Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Pietro Germi.

Il neorealismo è per De Sica il linguaggio ideale per restituire il racconto di un paese in uscita dalla guerra e dal fascismo, un paese confuso e impoverito anche da una perdita d’identità sociale e politica. Il neorealismo è tuttavia inviso sia alla dirigenza politica che lo lega ad una forma di denigrazione della realtà italiana sia ai produttori che non vi scorgono grandi opportunità economiche al punto che spesso De Sica è costretto sostanzialmente ad autofinanziarsi per poter dirigere gli script a cui più tiene.

Il viaggio in America nasce dall’invito (rivolto a De Sica e a Zavattini a cui verrà però impedito l’ingresso negli Stati uniti a causa del suo legame con il Partito Comunista italiano) del grande magnate americano Howard Hughes che è affascinato e incuriosito dal regista italiano tanto da essere interessato a produrlo. Ma i giorni passano e nessuno si presenta, il regista trascorre le proprie giornate in snervante attesa e dopo due settimane decide di andarsene, scorato dai capricci del miliardario americano. Un viaggio a vuoto che segnerà profondamente l’umore di De Sica spesso costretto a scendere a patti (alle volte umilianti) per poter produrre i propri capolavori.

Fare cultura, pensare contenuti culturali da sempre è in direzione contraria con quello che sono le attese e le previsioni sia di chi detiene le leve economiche sia (spesso, anche se non sempre) con le aspettative del pubblico. Tuttavia per tutto il Novecento si è assistito ad uno sviluppo e ad un allargamento dell’industria culturale italiana che sapeva contenere all’interno della sua pancia piccole sacche (di resistenza) capaci di dare spazio anche alle idee più anticonformiste e innovative, veniva anzi considerato un dovere lasciare quello spazio (che evidentemente veniva conteso da molti) da parte di chi si fregiava di fare e produrre cultura.

Questa sorta di spazio franco vedeva la luce all’interno di una società che aveva ancora una costruzione sociale organizzata e ben definita in cui il ruolo dell’artista come dell’intellettuale viveva –  seppur spesso rinchiuso in un giardino protetto a tratti asfissiante a tratti rassicurante – un privilegio dato da un ruolo sociale che non poteva essere messo in discussione.

In questo contesto il contenuto culturale aveva la sacralità di un a priori: la messa in discussione non era mai denigratoria, seppur dura e ostile era sempre orientata ad un dibattito che doveva avere corpo all’interno della società stessa (la polemica tra Andreotti e De Sica su Ladri di biciclette legittimò in realtà il neorealismo e la sua visione della realtà italiana).

Le modalità di produzione culturale avevano così due aspetti quello di una forte istituzionalità e quello non meno urgente – in una realtà in forte crescita economica come quella italiana – di legittimare affaristi e capitani di ventura come veri e propri imprenditori e costruttori della giovane repubblica. Modalità che si sono diffuse e che hanno proliferato fino a farsi vero e proprio sistema.

Un sistema che ha dovuto anche costruirsi una serie di retoriche e di visioni spesso inconsistenti da un punto di vista economico e imprenditoriale, ma necessarie per garantire un’immagine pulita a ciò che in realtà nascondeva contraddizioni e desideri nascosti ben slegati da ogni ambizione culturale.

Da un punto di vista strettamente culturale il decadimento degli ultimi anni del secolo è individuabile in prodotti sempre più conformisti e legati ad una visione confortante e autocompiaciuta, su tutti, nel cinema la deriva borghese della commedia all’italiana.

Questo  percorso non esclude però nemmeno contenuti che si volevano indipendenti e politici divenuti invece strumentali e politicizzati: oggetti retorici e di stampo quasi esclusivamente partitico. L’unica cosa che sembra sopravvivere è l’autonomia dell’autore, di colui che grazie ad un proprio guizzo geniale sa cogliere e raccontare. Evidentemente però anche qui le cose non stanno andando come ci si racconta e il crollo dell’industria culturale sarà accompagnato anche dalla perdita di visione di tanti autori che parevano capaci invece di sopravviverne.

Il crollo dell’industria culturale segue quello dell’esplosione sociale e politica, un crollo che è figlio di una frenata economica generale e di una classe imprenditoriale troppo frantumata e che mai ha saputo aggiornarsi e far uso degli strumenti necessari per pensare innovazione. È la caduta di un sistema, ridotto a sua stessa parodia

La situazione appare oggi rappresentabile sotto due campane; in una vi troviamo una landa desertificata in cui le macerie sono i primi oggetti utili per la ricostruzione e per porre le basi di un’innovazione che non sia solo di facciata, nell’altra intravediamo una sorta di ancien régime in cui un ambito ristretto di operatori e sempre più ridotto di pubblico prova ad incipriarsi il volto contro il tempo che passa.

I due mondi vivono a fianco a fianco in reciproco sospetto. Perché se nel primo è fondamentale elaborare nuove pratiche di produzione culturale, nel secondo solo il contenuto è al centro, ma un contenuto percepito da una classe intellettuale spesso totalmente staccata dal proprio tempo e quindi sottoposto ad una sorta di censura implicita che ne riduce automaticamente gli spazi e le possibilità.

È necessaria un’azione che sappia costruire un percorso produttivo inedito ed efficace attivando le risorse umane e non semplicemente consumandole come è avvenuto in passato in nome di una missione superiore anche ai diritti di chi lavorava.

Ora che politicamente spendere soldi per la cultura non conviene più, diviene impellente (e specificatamente politicamente) dare corpo ad un sistema virtuoso che metta al centro il contenuto e il suo valore.

La situazione è ottimale perché il campo appare sgombro, ma allo stesso tempo è necessario nella  ricostruzione definire nuovi parametri che non siano semplici limiti e paletti ad un’azione possibilmente e ambiziosamente libera e priva di obblighi e freni istituzionali.

In tal senso è urgente individuare nel prodotto culturale l’insita capacità di una doppia attivazione dei pubblici. La prima – quella verso cui ci si affanna oggi ed è possibile strutturare – prevede una produzione dal basso, un coinvolgimento all’origine e una distribuzione orizzontale dei contenuti, l’altra – quella più intima – appartiene invece strettamente all’opera nella sua imprevedibile lettura, ed è incontrollabile sia da chi la pensa sia da chi la produce. Un eccesso di controllo e quindi di istituzionalizzazione rischia di ridurre drasticamente quell’intimità culturale, quel cuore caldo capace di liberare una forza di attivazione e di innovazione straordinaria.

 

 

Foto di Chris Barbalis su Unsplash