La società automatica secondo Bernard Stiegler: lo stato della mutazione
Il nostro corpo sta mutando, anche qui, ora, mentre scriviamo o leggiamo, per effetto degli automatismi, per esempio del nostro essere ora esposti a uno schermo, o all’esserlo stati così a lungo negli ultimi mesi, o anni… Che sia una sorta di mutazione antropologica – legata al digitale, ai processi generali di automatizzazione della società e ai dispositivi connessi a tali processi – dal sapore neo-pasoliniano? Forse. Vero è che anche Stiegler, come Pasolini, fa una critica alla società dei consumi dove, però, il consumo è oggi digitale, reticolato, quindi meno evidente, ma non per questo immateriale: il punto fermo è che il consumo algoritmico investe la psiche umana, dunque i corpi. I quali, appunto, si consumano in rete. Non si tratta più di un soggetto che consuma un oggetto (la merce). E non si tratta neppure di un soggetto egli stesso merce di consumo. Nella società automatica, quel che si attua è il processo definitivo e storico di auto-consumazione dei corpi, processo che paradossalmente, in definitiva, consuma la materia vivente su cui esso si sostiene.
Sarà allora la psicosomaticità diffusa, di cui ampiamente argomenta Stiegler, quella zona intermediale, cioè di inter-mediazione tra i differenti livelli del problema, la leva teorica maggiore in una riflessione sul pharmakon. Perché, indubbiamente, quel che occorre oggi è una nuova, inedita, forma di mediazione, che possa configurarsi, almeno, come rimedio minimo. Questo significa però anche che, per Stiegler, l’innesco possibile di una critica alla società automatica non potrà che transitare dal piano psico-corporeo, unica sede in cui possa aver luogo la triangolazione tra a) il tema ecologico e il “problema della natura”, b) il tema dell’automatizzazione post-industriale e c) il tema antropologico.
Soffermiamoci un istante su alcuni aspetti metodologici, cioè su quanto costituisce la tecnica propria di scrittura di Stiegler: lo strumento tramite cui si dispiega l’automatismo procedurale di Stiegler stesso. Non insisteremo sullo stile di Stiegler, cioè su quella sua particolarissima “tecnica” di assemblaggio dei materiali che prevede un incessante lavoro sul linguaggio, sui neologismi, su quelli che i detrattori vedono come “giochi di parole”. Certo, ricordiamo, perlomeno, come questo lavoro sul linguaggio sia un lavoro sul grande automatismo del soggetto, operazione che corrisponde possibilmente a uno sforzo di ripensamento profondo delle strutture linguistiche abituali, cioè i nostri automatismi sul piano socio-psico-verbale.
Lo stile di Stiegler, riconoscibilissimo, rappresenta in questo senso una forma sui generis di disautomatizzazione, o almeno una tensione in quella direzione: una specie di strumento quasi-artigianale capace di mettersi in risonanza con le scritture anche più neutre e accademiche, ma senza deprivarsi della sua stessa, intima potenza di disautomatizzazione. Diciamo invece qualche cosa su un altro aspetto meta-concettuale, cioè sul set di riferimenti teorici messi in campo dall’autore, veri e propri strumenti tecnici, utensili per realizzare meta-discorsivamente una novità relativa internamente a una tradizione: per dare forma a un pensiero critico sull’automatizzazione che sia comunque, come prassi e non solo come teoria, in rapporto trasformativo con l’automatismo che lo “precede” e lo “forma”.
Stiegler nelle sue pagine ha il merito di fare rivivere il pensiero francese degli anni Settanta, specialmente Derrida e Deleuze
Per un verso, Stiegler nelle sue pagine ha il merito, ci pare, di fare rivivere il pensiero francese degli anni Settanta, specialmente Derrida e Deleuze. Il primo nel tema della tecnicità originaria (per cui tra techne e physis non vi sarebbe un’opposizione originaria, bensì una negoziazione continua, tipica del vivente in generale) e della différance (quest’ultima come ipotesi di decostruzione dall’interno degli automatismi) e il secondo soprattutto nei temi del Poscritto sulle società di controllo, testo che anticipa in maniera molto precisa la forma della società automatica.
Va dato atto a Stiegler di essere tra i pochi autori viventi che prova a fare lavorare assieme questi due riferimenti così diversi, rilanciandone in qualche misura l’attualità nell’idea di una lettura “collaborante” e critica. Dietro questo travailler ensemble troviamo il Simondon de L’individuazione psichica e collettiva, utilizzato proprio nel punto cruciale della mediazione, del milieu tra individuazione e società.
Più indietro ancora, assistiamo a un recupero complessivo della grande tradizione epistemologica francese, per esempio il Canguilhem de La conoscenza della vita o de Il normale e il patologico, ma anche quella di segno più direttamente filosofico-antropologico, tra cui il Lévi-Strauss di Tristi Tropici, il Leroi-Gourhan de Il gesto e la parola, risalendo sino a Mauss.
In effetti, anche quando entra in scena la questione della costruzione dell’umano, cioè l’antropo-tecnica intesa come formazione di soggettività mediante pratiche di ripetizione regolata e sociotecnica, Stiegler più che a riferimenti a una certa antropologia tedesca contemporanea, come Sloterdijk, o a un certo pensiero del controllo sociale, come Foucault, va alla fonte: il Mauss de Le tecniche del corpo, in particolare nel concetto di antropotecnica di cui si è già detto in precedenza.
Accanto a questa “base” francese, che è quella più ampia e visibile, Stiegler utilizza, forse in maniera ancora più decisiva benché spesso implicita, anche riferimenti di area tedesca, in primo luogo alla Scuola di Francoforte, specie Adorno e Horkheimer, a partire dall’idea di mondo totalmente amministrato (che sul piano formale è un perfetto correlato del concetto di società automatica) e ancora di più alla figura di una dialettica interna della ragione, che spazia sino alle ultimi propaggini di quell’eredità, come le analisi di Hartmut Rosa, autore di Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità. Ma le cose si complicano ulteriormente, per esempio in quanto non può essere trascurato il debito verso Heidegger, come anche ad altri riferimenti all’antropologia filosofica tedesca, particolarmente attenti al rapporto uomo-tecnica, tra cui Gehlen.
Ed allora, sul piano di un discorso sul metodo, che significato può avere questo doppio sguardo franco-tedesco? Difficile dirlo, ma è certo che da questo punto di vista il lavoro di Stiegler testimonia un’attenzione tutto sommato abbastanza rara, nel panorama filosofico attuale, nel proporre una cooperazione tra queste due tradizioni (così diverse, certo, ma ambedue decisive per la cultura europea, sotto vari aspetti, non solo filosofici ma anche politici) piuttosto che perpetuare il mantra dell’opportunità di una loro separabilità. E non va dimenticat, o come a questo milieu franco-tedesco si debba aggiungere la costante apertura che Stiegler opera verso il mondo anglofono, a quel razionalismo pragmatista ed empirista (molto attento anche a come la dimensione numerico-statistica faccia da nutrimento per il tema teorico), che è parimenti una presenza co- stante nel lavoro sul digitale di Stiegler, in questo senso pienamente inscrivibile anche nei Digital Studies.
Ma torniamo al punto teorico del corpo e al tema della mediazione. Abbiamo già detto che il vero problema dell’automatismo risiede, qui in Stiegler, nel suo articolarsi in un doppio livello: sociale e individuale. Il cuore del libro, il suo motore immobile teoretico, risiede nel tentativo di pensare questi due livelli dell’automatismo non come due momenti separati, ma come due parti di una medesima dinamica che è corporea nella misura in cui è sociale, ed è sociale nella misura in cui interessa i corpi. Detto ciò, è chiaro che comprendere o definire quali siano i modi, gli spazi e i tempi di tale articolazione, resta problematico.
Ripetiamolo ancora una volta: nel suo senso più generale, l’automatismo fisico, o anche psicologico, come può esserlo la respirazione, il battito cardiaco, oppure un tic, un movimento irriflesso o la capacità di camminare, è cosa molto diversa da una regola sociale, un rituale di gruppo, un istituzionalizzarsi delle forme di vita. Se li seguissimo nei loro movimenti e sviluppi, il primo, che siamo soliti riferire alla natura, lo vedremmo affondare nella qualità concreta del corpo, perdersi nelle sue pieghe oscure, sino a sparire nella sua opacità; l’altro, quello più legato al momento culturale o costruttivista, lo vedremmo evaporare in cerchi di diametro via via crescente, ectoplasma che cancella se stesso nell’astrazione di una relazione soltanto esterna.
Eppure, seguendo le convoluzioni del raisonnement filosofico di Stiegler, è molto chiara l’idea che il punto d’innesco della critica vada individuato in un’interrogazione intorno al loro incrocio: non possiamo che insistere sulla zona intermediale tra natura e cultura, sulla zona di scambio tra automatismo “interno” e automatismo “esterno”. Altre zone non ve ne sono.
Occorrerà, insomma, comprendere la relazione reale – o, come talvolta scrive Stiegler, la reciprocità – tra livello singolar-corporeo dell’automatismo e livello sovra-corporeo o sociale degli automatismi. Ciò significa che rispetto alla tradizione di riflessione sull’automatismo più volte ricordata, La società automatica si pone in una sua posizione specifica: lo fa esattamente, a nostro avviso, a partire dall’esplorazione che compie intorno a questa falda ambigua, a quella “zona grigia” di cui, usando termini differenti, abbiamo già parlato: alla soglia porosa tra prima natura e seconda natura, che è anche la soglia tra seconda natura e proceduralità sociale (per questa via si potrebbe forse immaginare una connessione al tema foucaultiano del controllo e del dispositivo, più forte di quanto in genere non venga riconosciuta a Stiegler).
Si delinea così quello che è forse il vertice nascosto da cui si diramano la maggior parte delle questioni di quest’opera e, probabilmente, del pensiero dell’ultimo Stiegler: le modificazioni profonde degli stati mentali di attenzione (o di distrazione da un compito assegnato), la neuroplasticità cerebrale dettata dall’esposizione al web, la progressiva invasione del capitalismo 24/7 nella sfera del sogno, l’incisione ormai strutturale dell’elemento digitale nella nostra animalità, cioè nella bêtise e nella stupidità funzionale.
La mancanza di confini chiari tra la macchina dell’ipercontrollo e la nostra corporeità funge da leva teoretica proprio per il suo doppio valore strutturale: sia negativo sia virtualmente positivo. Ciò si manifesta nell’adozione, in Stiegler, di quella sorta di psicosomaticità diffusa quale sfondo comune, elemento di mediazione instabile ma necessario: zona intermediale che fa comunicare la logica degli algoritmi e le pulsioni, l’automatizzazione totale del comportamento e il sogno (o il desiderio), e su questi ultimi aspetti Stiegler ci porta indietro sino al Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’io o di Al di là del principio di piacere.
È insomma sussumendo queste discordanze, queste contraddizioni produttive tra automatismi “esterni” e automatismi interiorizzati (di cui facciamo esperienza in maniera crescente su scala planetaria ma anche “spirituale”) che si può meglio comprendere il valore generale accordato alla psicosomaticità diffusa, reticolare, involontaria. Tale psicosomaticità globalizzata non è altro che il campo corporeo in cui si attivano le ritmiche esistenziali indotte dal capitalismo dell’interconnessione. […]
Per finire: il quadro sin qui descritto, non è dei più ottimistici. Che fare? Non esistono soluzioni semplici, né sul piano teorico, né su quello politico, e questo per la ragione già vista che noi tutti viviamo negli automatismi: noi “siamo” questi automatismi. Ma dove “siamo”? È sempre questione di posizioni: di come ci si posiziona nella relazione agli automatismi, che è una relazione strutturante e viva. Ed è del tutto evidente che la soluzione, in una costruzione teorica come quella stiegleriana, non può essere quella di un loro rifiuto unilaterale. Questo perché un simile gesto dialettico sarebbe nell’ordine dell’immaginario, facendoci ritornare pressoché immediatamente al punto di partenza, come ha sempre insegnato il suo maestro Derrida: pura illusione di trarsi fuori dalla nostra materia o densità funzionale che, come ricordato, è tanto fisica quanto storico-sociale.
Non basta, cioè, rigettare l’algoritmo, dichiarandolo apotropaicamente come “esterno”, per eliminarne gli effetti sul Soggetto, e più ancora, sui corpi. Per quest’ordine di ragioni, Stiegler non cede alla tentazione di un luddismo soft: spegnere le macchine. Il tema non è di tornare alla dimensione dell’off-line: non si tratta di interrompere la connessione elettrica o informatica all’algoritmo, magari prefigurando così un ritorno al “buon essere-umano”.
Che fare? Non esistono soluzioni semplici, né sul piano teorico, né su quello politico, e questo per la ragione già vista che noi tutti viviamo negli automatismi
Anche questo scenario rappresenterebbe un ritorno ingenuo, soltanto teorico – nel senso peggiore del termine – a una vita naturale, non contaminata dalla tossicità algoritmica. Per Stiegler, tale ritorno ingenuo è impossibile: l’automatismo, l’abbiamo detto, è strutturante e ormai del tutto ordinario, quotidiano, rarefatto.
Un po’ come il potere in Foucault. L’algoritmo permane, lavora, “travaille” e produce effetti anche (e soprattutto) in chi suppone di essersene liberato, magari individualmente. Non è questa la via verso la disautomatizzazione.
Occorre un atteggiamento diverso, più ambiguo e sorvegliato, di “secondo livello” rispetto al semplice utilizzo o non utilizzo della macchina, in piena sintonia – almeno sul piano dei contesti di partenza – con il Marx del Frammento sulle macchine: una condotta “fatta” di auto-controllo e continue retro-azioni, dove il servo-meccanismo-che-noi-siamo in qualche modo tramite lo strumento corporeo divenga differibile, divergente, disautomatizzabile. Ben inteso: la disautomatizzazione, se accadrà, lo farà in maniera minimale, oscura, improbabile. Ma è essenziale ancora impegnarsi, s’engager – trattasi dunque di una versione aggiornata di engagement – in questa logica differente, che non è quella della linearità ma quella che tenta di cogliere le interconnessioni dinamiche tra le componenti attive e quelle passive dei nostri comportamenti “digitali”. Nostri, si badi, in quanto cooperanti, collettivi: innanzitutto intercorporei.
Ma rispetto allo stare negli automatismi, quale opzione scegliere? Inventare o resistere? Inventare, cioè aprire spiragli di divergenza, di biforcazione, “inventando” appunto cooperativamente nuovi rapporti, oppure resistere, cioè auto-etero-definirsi in rapporto a ciò che si intende contrastare? Tale questione, indipendentemente da quanto Stiegler suggerisca nelle sue soluzioni provvisorie, è in realtà la domanda che guida la pars construens. Come disautomatizzarsi, ristrutturandosi o riformando se stessi? È il concetto stesso di opposizione tra pars construens e pars denstruens che, in questi contesti, entra in risonanza e va completamente riformato. In questi contesti: con ciò si intende il capitalismo digitale, il quale non è più il capitalismo del XX secolo: è altro, ma da esso deriva. L’intero progetto teorico di Stiegler vorrebbe certificare tale derivazione: la approfondisce e la contro-analizza, andando lungo tutto il corso della storia della filosofia, da Platone a Derrida e Deleuze, e dunque anche nel senso “alto” di un’auto-analisi del Soggetto occidentale.
Dunque, tra soluzione e sintomo non può esservi netta distinzione. Qualunque essa sia, la soluzione è già compromessa con l’esistente: risente di tale compromissione anche in senso fisico, dato il rilievo che assume l’elemento “psicosomatico digitale”. Dire che la soluzione – la disautomatizzazione – è sia in contro-fase che in fase con l’automatizzazione, non fa segno a una mancanza (di) logica, ma all’urgenza di una diversa forma logica: una logica omeopatica.
Disautomatizzazione equivale al senso di una politica di sinistra, tutta da inventare
Si inizia dalle pratiche: si inizia da un territorio nuovo. Ma in queste pratiche, ne andrà anche del savoir e di un suo riformarsi, ancora indeterminato ma, per Stiegler, assolutamente necessario. Ad esempio, si dovrà ripartire da un’alfabetizzazione di base, sul digitale e sugli automatismi che incorporiamo, che sia strategicamente estesa su una scala sociale più ampia possibile.
Qualunque ipotesi di disautomatizzazione deve tener conto di una riforma dell’intera logica educativa e di istruzione, come già nel lavoro del 2008 in Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni. Il punto nevralgico sarà, ancora una volta, la comprensione teorico-pratica di come si acquisiscono nuovi automatismi, e la proiezione di tale problema in quella dimensione di mediazione corporeo-antropologica di ambienti vitali che sono da sempre ambienti tecnici (milieux, nel senso simondoniano) di apprendimento, di incorporazione, di assoggettamento. In ultima analisi, désautomatisation significherà: imparare a disapprendere.
È appena il caso di ricordare come il termine chiave désautomatisation, ancora una volta si inserisca in una certa tradizione francese dell’uso del dé: la déraison (Foucault) la déterritorialisation (Deleuze), la déconstruction (Derrida), etc.. Il dé: particella che pensa la forma omeopatica del rapporto di forza, che nega ma sempre rileva, critica o trasforma il negato, perché è in relazione vivente-dinamica, o processuale, con esso. Ma, di nuovo, che cos’è questa collaborazione resistente tra disautomatizzazione e automatismo? Una definizione denotativa non è oggi possibile.
Questi nuovi rapporti per certi versi agiscono qui e ora, ma sono anche tutti da costruire: sono à venir, come avrebbe forse detto Derrida. Si può dire a che cosa essi equivalgono: con le parole di Stiegler, disautomatizzazione significa “pensare”, “épochè”, “tra-svalutazione di tutti i valori”, “deproletarizzazione”, “negantropia”, e l’elenco potrebbe proseguire. In questo senso, allora, la disautomatizazione equivale al fatto stesso della non-linearità, nella negoziazione tra automatismo e suo differimento, che nel tempo storico si rende imprescindibile, per non restare nell’etereo mondo delle idee.
Disautomatizzazione equivale al senso di una politica di sinistra, tutta da inventare. In fondo il problema della sinistra, per Stiegler, è quello di non avere adeguatamente pensato la tecnologia, lasciandola nelle mani del mercato, in quella che lui traduce come “assenza di una politica di sinistra in materia di tecnologia”. Osservazione non priva di fondamento.
In questo quadro di estrema difficoltà teorica, possiamo spingerci sino a immaginare, sognare, forse persino desiderare che “gli automi arriverebbero a servire la disautomatizzazione”: servo-meccanismi che producono contraddittoriamente la diversione rispetto alla norma, alla linearità che comunque, per un altro verso, li determina nel loro agire. Proprio quell’automa di cui già Pascal, in epoca cartesiana, individuava l’ambiguità formante ma al contempo impossibile per il pensiero. Del resto, quale pensiero può pensare sino in fondo l’automa “in” me, “in” noi, “nella” società?
Disautomatizzare: inventare o resistere? Stiegler lavora tra l’idea di stare dentro il capitale contro il capitale (il che ricorda altre tradizioni, anche italiane, come quella operaista), e l’idea di un’auto-critica, una Selbstkritik della ragione, dal sapore francofortese. La sfida che ci lancia, consiste in una sorta di engagement all’interno di una logica instabile, non pacificante, che richiede un salto di qualità: una logica omeopatica.