Quando a fine 2022 il sindaco Gualtieri ha presentato il progetto che dovrebbe trasformare – grazie anche ai soldi del Pnrr – l’ex Mattatoio di Roma in una “Città delle arti” le reazioni sono state tiepide. È ovviamente una buona notizia che una struttura unica come il Mattatoio di Testaccio, che per una buona metà è tutt’ora cadente, venga destinata a finalità artistiche piuttosto che di altra natura, ma di che tempi e di che modelli si parli era tutt’altro che chiaro. Per intenderci: in un’intervista del 1979 a Carlo Giulio Argan, che aveva appena terminato il suo mandato di sindaco, si parlava dell’imminente riqualificazione del Mattatoio che sarebbe avrebbe dovuto ospitare una “Città della scienza”. Le tempistiche che intercorrono tra quella dichiarazione e oggi potrebbero già di per sé giustificare lo scetticismo iniziale. Ma c’è dell’altro. Il Mattatoio contiene già ora al suo interno diverse realtà culturali di varia natura: ospita la facoltà di Architettura di Roma Tre, l’ex Macro, la Città dell’Altra Economia, la Pelanda – che a sua volta ospita progettualità come quelle di Short Theatre, Romaeuropa, Prender-si cura – e la Scuola di Musica Popolare di Testaccio. C’è anche una ciclofficina e un residuo tutt’ora attivo della grande stagione di cultura autorganizzata dei centri sociali (il Villaggio Globale, negli anni Novanta, ne fu uno dei cuori pulsanti). È un panorama frastagliato, ma che racconta anche di una vocazione che quel posto esprime: essere abitato.
I padiglioni del Mattatoio, con la loro ampiezza e gli spazi circostanti, sono indubbiamente una risorsa preziosissima nel quadrante centrale, saturo di esercizi commerciali, della città. Come fare a rendere vivo un posto del genere mantenendo la sua vocazione di piazza delle arti aperta alla cittadinanza? Esistono modelli differenti, ovviamente – per accostamento spontaneo vengono in mente il Matadero di Madrid, a livello internazionale, e i Cantieri della Zisa di Palermo – ma tutti hanno a che vedere con la residenzialità artistica e la possibilità di attraversamento anche informale da parte dell’utenza cittadina.
Quella di Roma, quando si parla di luoghi pubblici, è da sempre una politica delle scatole vuote
Roma invece sembra avere una passione per le istituzioni di vecchio stampo, gestite verticalmente e difficili da attraversare. La Città delle Arti immaginata da Gualtieri prevede infatti un’estensione degli spazi dell’Università Roma Tre (bene, ma non esattamente un luogo per la cittadinanza); la concessione di alcuni padiglioni all’Accademia di Belle Arti (idem); l’apertura di un non ben specificato Museo della Fotografia; un padiglione destinato al primo municipio per le proprie attività (quali? boh). Da quanto si apprende ci sarà spazio anche per una biblioteca (evviva! Il quartiere ne ha bisogno, c’è solo la biblioteca Enzo Tortora che funziona a singhiozzo e ha locali poco idonei ai criteri di una moderna libreria pubblica), ma poi, guardando meglio, sembra che si tratterà di una biblioteca universitaria, per la sola utenza universitaria.
Insomma, al netto delle attività formative, importanti ma per loro natura al di fuori dal modello di agorà artistica e cittadina, si tratta di scatole vuote che andranno riempite dai direttori e dai gestori politici di turno. Una visione a dir poco deludente.
E miope, perché, forse persino “malgrado” le varie amministrazioni di questa città, dei modelli residenziali, per quanto intermittenti, all’interno del Mattatoio si sono sviluppati. In particolare La Pelanda (padiglione gestito da Palaexpo, ex Macro Testaccio) ha ospitato nel tempo quella che è diventata una polarità delle arti performative della Capitale, attraverso le programmazioni di festival, residenze, laboratori. E oggi, giustamente, suscita preoccupazione il destino di questo luogo: oltre 800 artisti e intellettuali hanno sottoscritto una lettera indirizzata alla giunta capitolina dopo aver appreso della brusca interruzione del Centro interdisciplinare che, negli ultimi quattro anni, ha prodotto una programmazione articolata di residenze, laboratori e approfondimento e formazione, come il Master in Arti Performative (qui il link). Quel progetto deve ottenere, infatti, un rinnovo da Palaexpo, di recente presieduta Marco Delogu, per proseguire le proprie attività in quello spazio.
Questi spazi, lo dicevamo, hanno una vocazione legata al teatro e alle arti performative che va avanti da diversi anni. Il Mattatoio è il luogo perfetto per svolgere una funzione di questo tipo: gli spazi di archeologia industriale sono estremamente adatti a quel tipo di produzione artistica, il quartiere è raggiungibile e molto vivace e si trova a poca di stanza da altre istituzioni come il Teatro India, il Teatro Argentina e il Teatro Valle. Di fatto, nell’immaginario cittadino, quello spazio è già da oltre un decennio una polarità del contemporaneo e dell’arte performativa. Le attività del Centro delle arti performative assieme ai festival Short Theatre e Romaeuropa (che invece proseguono) questo posizionamento dell’ex Mattatoio lo hanno costruito nel tempo, e lo hanno fatto per di più lavorando “a intermittenza”, secondo logiche stagionali, e dovendo ogni volta rinnovare accordi e progettualità. È singolare che la politica cittadina, anziché consolidare questi percorsi, chiedendo magari di sviluppare una programmazione per tutto l’anno, e con un’assegnazione pluriennale che garantirebbe il respiro di una visione ad ampio raggio, finisca per interrompere parti di questo mosaico prezioso e precario.
Nulla di nuovo, purtroppo. Quella di Roma, quando si parla di luoghi pubblici, è da sempre una politica delle scatole vuote. Vale la pena, da questo punto di vista, ricordare come nacque il progetto della Pelanda, che originariamente – sull’onda delle attività di Zone Attive – doveva replicare il modello Matadero di Madrid e quello del 104 di Parigi, realizzando un luogo multidisciplinare dedicato alla creazione e produzione artistiche. Un atelier, un luogo abitato da artisti e cittadini. I tempi di restauro si allungarono, l’esperienza di Zone Attive e del festival Enzimi che realizzava si esaurirono, e la Pelanda divenne così una “scatola vuota”, da riempire con mostre, eventi, iniziative senza una visione culturale strutturata a sostenere la programmazione. L’attività di Short Theatre, Romaeuropa e Prender-si cura, reiterate nel tempo, hanno parzialmente colmato quel vuoto, ma lavorando nella precarietà, nella continua ricontrattazione, nell’episodicità di programmazioni puntiformi che non permettono di progettare a lungo termine. Una condizione che può portare, come sta avvenendo oggi, alla scomparsa in blocco, dall’oggi al domani, di pezzi di quelle iniziative che per un intero settore – quello teatrale e performative – sono vitali in una città sempre più chiusa, con un teatro pubblico commissariato da un triennio, il principale teatro privato chiuso, le iniziative associative chiuse o ridotte, i circuiti alternativi dei centri sociali e circoli Arci ridotte al lumicino, chiusi o depotenziati, dopo la grande stagione di oltre un decennio fa.
Che alla politica, di ogni schieramento, piacciano le scatole vuote è comprensibile: si possono gestire con direttori di nomina politica ben pagati e con personale delle partecipate pubbliche. Si possono agilmente controllare. Ma restano, per l’appunto, scatole vuote. Costruire una città delle arti a Roma significherebbe invece investire sulla residenzialità artistica, sulla stabilizzazione della scena artistica in condizioni di indipendenza creativa, sull’attraversamento informale della cittadinanza, sui progetti a lungo termine oltre che quelli a breve termine. Il compito di uno spazio pubblico è di essere aperto e abitato e il Mattatoio, invece, sembra avviarsi verso una concezione museale antica, verticistica e fuori tempo massimo.
Immagine di copertina: Mattatoio Testaccio (Roma) da Wikimedia