Farsi da soli, in tanti sensi e contesti, anche i peggiori. Meritocrazia, autoimprenditorialità, self-made o deregulation, parole sospette interiorizzate a forza a inizi anni 2000, contraddittorie e pericolose quando messe sul piano pratico.
Da ragioniere diplomato con il minimo dei voti a laureato in filosofia, conti e partita doppia non erano il mio forte. Poi un master in comunicazione grazie a una borsa di studio, qualche corso di informatica, diploma di lingua, il tesserino da pubblicista e altre licenze ad attestare alta funzionalità e adattamento. Nel mezzo, già da quando ero a scuola, dai 14 anni, sempre il lavoro, fabbrica di scarpe, cameriere, taglialegna, imbianchino, aiuto cuoco, call center, fabbrica di vasche idromassaggio, portalettere, lavorazione materie plastiche, assicuratore, call center, barista, fabbrica di luci, parcheggiatore, aiuto scenografo, ognuno li ho attraversati. Nemmeno li ricordo tutti, sono sicuro che in parecchi casi sono stato pagato in nero, o parzialmente in nero, erano comunque soldi. All’inizio non percepivo la ricchezza come sostanza, era idealizzata, la ricchezza riguardava l’umano, risiedeva nelle mie esperienze, in una vita piccola ma avventurosa, attiva, in cui allargare gli orizzonti, conoscere altre vite, altre possibilità e crearmi un’idea. La mia famiglia non mi ha mai fatto mancare l’essenziale, quand’è stato possibile mi ha aiutato con il denaro, ho avuto il motorino, la vecchia Lancia Delta di mio padre. I soldi erano importanti, certo, non fondamentali, sapevo di avere una casa a cui tornare, ho sempre vissuto con poco, in camere o appartamenti minimi, viaggiare appena possibile, assecondando un forte quanto celato senso di autodeterminazione e l’insofferenza di quegli anni. L’autodeterminazione veniva dall’aria che avevo respirato, famiglie contadine, ex mezzadri che superato il dopoguerra di fame e fatica stavano bene, inventandosi, rinnovandosi. L’insofferenza era la provincia, la noia e la ripetitività da cui scappare.
Continua a leggere l’articolo di Luca Pakarov su The Italian Review
Photo by Matthias Heyde on Unsplash