I confini del discorso pubblico sul mondo della scuola appaiono, negli ultimi tempi, davvero ristretti. Non solo per i temi su cui si concentra il dibattito: ad apparire povero è più che altro il quadro complessivo di riferimento, a partire dal linguaggio e dalle categorie con cui si parla e si ragiona della scuola e dei suoi problemi. Basti pensare alle accuse mosse alla “scuola progressista”, alla retorica sulla promozione del “merito”, alla recente controversia sulla funzione educativa dell’“umiliazione”. Risulta difficile sottrarsi all’impressione che a dirigere il discorso, più che profonde riflessioni, siano nel migliore dei casi delle prospettive interpretative fortemente riduzionistiche, nel peggiore dei semplici luoghi comuni. La scuola insomma, negli ultimi tempi, trova di rado occasioni di discussione adeguate alla sua complessa e delicata funzione pedagogica, civile e sociale.
Ci sono, è vero, le riviste di pedagogia e di didattica, ci sono i convegni e le conferenze degli specialisti, che senz’altro sanno restituire attraverso la prosa scientifica quella serietà di analisi che un tema tanto importante richiede. Tuttavia la discussione pubblica, quella accessibile alla maggior parte di noi in TV, sulla rete e sui giornali, pare ingabbiata in un orizzonte angusto, incapace di uscire da sterili dibattiti sulla meritocrazia o sulle punizioni più adeguate per i bulli.