L’indipendente, l’intraprendente, l’interdipendete a altri bla bla bla…
Ho ascoltato la presentazione della ricerca di cheFare su l’arte indipendente nel contemporaneo a Milano e in Lombardia che si è svolta in Triennale venerdì 4 febbraio. Queste righe le ho scritte di getto per proseguire quella discussione. Credo che cheFare abbia fatto in questi anni un ampio lavoro di indagine sulle trasformazioni della produzione culturale, in particolar modo si è posta in questa triangolazione fra analisi delle politiche pubbliche, forme di attivismo artistico e gli attori dell’ecosistema istituzionale. Quello di cui voglio parlare è stato nominato più volte in alcuni interventi e riassumerei con questo interrogativo: come si fa a non essere l’utile idiota?
A tutti piace essere indipendenti fino al momento in cui non ci si accorge di aver fatto da sempre il gioco di qualcun altro.
Uno dei temi che mi sono sembrati rilevanti attraversando e osservando spazi sociali, movimenti, sperimentazione artistica, attivismo politico, mutualismo conflittuale, è che questo tipo di soggetti negli ultimi anni hanno sviluppato molti dibattiti e anticorpi alla così detta cooptazione da parte di istituzioni che hanno sempre voglia di nutrirsi di questi contenuti e di queste estetiche. Dal dibattito su manifestazioni di piazza trans femministe, alla interlocuzione con le grandi istituzioni che discutono della crisi climatica, al tema della decolonizzazione delle istituzioni e del discorso pubblico, ai gruppi che hanno auto organizzato il mutualismo di base sotto la pandemia, mi è sembrato emergere in modo trasversale questo tipo di consapevolezza. Diciamo NO al produrre contenuti ad uso e consumo delle istituzioni che li vogliono rilanciare, se queste non sono disposte a cambiare. Dico questo prima di tutto da osservatore, non voglio in nessun modo parlare a nome di tutti questi soggetti, fortunatamente diversificati e molto differenti fra di loro.
Parto da questa considerazione per cercare di fare emergere un punto e una tendenza che credo si aggiri per l’Europa per meglio inquadrare la questione del diventare istituzione dei movimenti.
Qualcuno dice che i movimenti sono in crisi, ma in me sta crescendo l’idea che i movimenti, a volte, sono in sciopero. Cioè hanno smesso di recitare semplicemente la parte che gli viene ritagliata. Stanno diventando più intelligenti. Scendono nell’invisibilità quando vogliono scendere nell’invisibilità, usando i gruppi telegram e le piattaforme criptate, si incontrano in presenza ma senza farne call pubbliche, sperimentano tattiche nuove e nuove forme di sabotaggio, allo stesso tempo usano i media mainstream quando serve e si organizzano in agenzie indipendenti al pari dei grandi governi a livello mondiale. Sono locali, ma sanno confederarsi a livello globale. Sono fiumi carsici non perché smettono improvvisamente di scorrere ma perchè prendono sempre più consapevolezza del valore politico della loro visibilità o meno.
Circa dieci anni fa lanciammo dall’Italia l’idea dello sciopero sociale. E cioè di inventare forme di diserzione ai cicli di valorizzazione dei nostri comportamenti sociali. Era una chiamata a dire NO alla femminilizzazione del corpo, allo sfruttamento del lavoro di cura, all’essere sempre a disposizione come precario, all’economia dell’attenzione sui social e all’inferno della rendita reputazionale. Insomma a tutti quei meccanismi per cui ci si deve dare un sacco da fare nel mostrare quanto si vale, anche se si rimane sempre con questa sensazione di essere inadeguate.
Attraversando grandi istituzioni dell’arte contemporanea europea, così come le piccole riunioni di collettivi, negli ultimi anni mi sono sempre più trovato immerso in discussioni che mettevano al centro questo punto. Sciopero decoloniale. Sciopero underground. Sciopero dal pink/greenwashing…
E pensai: finalmente il tema della tattica! Diciamoci la verità, in nessun ambito istituzionale a qualsiasi livello nessuno osa mettere in discussione il tema del razzismo, del sessismo, della speculazione immobiliare e finanziaria, la gentrificazione delle città, ma quasi tutte (non tutte) le grandi istituzioni hanno politiche economiche e urbanistiche che le alimentano. La questione nei movimenti si è spostata dal cercare di fare passare questi contenuti, al cercare di capire come farli attuare. E si rifiutano di fornire contenuti alle istituzioni che non intendano davvero attuare. E’ piuttosto semplice da capire, no? Per questo parlo di una forma di sciopero, di uno sciopero a singhiozzo, imprevedibile, ma sempre più consapevole. Uno sciopero che ha come tattica l’obiettivo di spostare l’attenzione dai temi, all’efficacia della loro attuazione.
Nella postura dello sciopero si sta fermi fino a che non arrivano i fatti.
Perché la normalizzazione che porta il sistema è controproducente al sistema stesso.
Da una parte credo sia evidente che la produzione indipendente è utile al sistema. Perché la normalizzazione che porta il sistema è controproducente al sistema stesso.
Il sistema burocratico e finanziario dell’arte contemporanea sa benissimo che una città che si sviluppa senza lasciare spazi vuoti, spazi di dissenso e sperimentazione diventa una città brutta, ingessata, dove gli spazi di incontro e i programmi culturali e lo spazio urbano sono troppo noiosi e prevedibili. Sanno benissimo che i bandi e le linee guida vampirizzano gli spazi di libertà e omologano l’offerta culturale, e immobilizzano la mobilità professionale creando delle grigie rendite da posizione. Sanno benissimo d’altra parte che piegare l’offerta ai bisogni del marketing dell’industria creativa può nel breve termine dare un effetto adrenalinico ma alla lunga è alquanto stucchevole.
Ma la vera domanda è: siamo davvero condannati a questo dualismo? Il gioco, il ciclo retroattivo è davvero solo quello fra sperimentazione antagonista indipendente e valorizzazione finanziaria delle istituzioni vigenti? Insomma cambiano i temi, le estetiche, gli spazi ma sempre all’interno di questo feedback loop? Ieri c’era l’arte relazionale, poi è arrivata quella partecipata, il decoloniale, il transfemminismo, oggi c’è l’interdipendenza umano non umano, il fare compost e il Web 3, domani chissà… ma sempre all’interno di questo menu da fast food del sistema dell’arte?
Il limite della teoria dei giochi è che considera l’attivismo come uno dei fattori in un campo omogeneo in cui le regole non vengono mai messe in discussione.
Credo che per comprendere l’uscita da questo loop, occorra esplicitare le condizioni per cui i movimenti sono disposti a sedere a questo tavolo.
Il costo della sperimentazione dell’antagonismo dei movimenti non è semplicemente la tolleranza, la sensibilità a lasciare qualche spazio vuoto, per far fornire i contenuti del prossimo giro di giostra. Il costo io credo debba essere più alto: è ciò che abbiamo chiamato movimento istituente.
E cioè organizzare, finanziare e supportare nuove istituzioni antagoniste e radicali.
E questo se siamo seri non significa appendere un polipo sulla facciata dei musei, ma davvero generare nuove istituzioni che hanno la forma politica sviluppata nei movimenti e nel loro momento prefigurativo.
Nei movimenti si è sviluppata negli scorsi anni questa articolazione fra momento di di prefigurazione e momento istituente. Il momento prefigurativo è quello della sperimentazione in cui si creano le condizioni, l’humus, per il cambio di paradigma. E’ questo un momento che può durare alcuni anni, un ciclo di lotta, in cui si inventano le nuove parole d’ordine, le nuove modalità relazionali, i nuovi assemblaggi sociali, e da cui nascono le nuove estetiche. Questo momento prefigurativo, deve essere tradotto in nuove forme di organizzazione, in nuove istituzioni. Istituzioni però che mantengono la forma di autonomia e resistenza che si è accumulata nel momento prefigurativo. Istituzioni che hanno la forza di essere radicali e mantenere una postura indipendente ed antagonista.
Questo credo sia l’unico modo di uscire da quel circolo vizioso della sperimentazione/cattura/sperimentazione/cattura. E dall’altro lato è anche l’unico modo per non disperdere il ciclo di sperimentazione prefigurativa.
Ci sono stati momenti nella storia in cui questa cosa è avvenuta, e alcune delle attuali istituzioni del contemporaneo, in modo anche puntuale, sono nate da questi gesti di rottura radicale. In altri casi la storia ha temporeggiato nel circolo vizioso, si è ripiegata su se stessa continuando a riportare il concetto di indipendenza e innovazione all’interno di un ossessivo tentativo di definire per meglio raschiare il fondo, surfando un campo da gioco sempre più arido di veri gesti di rottura, vere aperture paradigmatiche.
Le rotture paradigmatiche sono sempre rotture di rapporti di forza, terremoti di senso, sismi nelle nomenclature, forme organizzative che partono da pratiche e non solo da metodi o enunciazioni di contenuti.
Concludo dicendo che per immaginare nuove forme di produzione artistica indipendente occorre diffidare dell’utilizzo che il sistema dell’arte fa dei nuovi temi e linguaggi emersi dalle lotte sociali. Occorre invece chiamare le politiche pubbliche e gli investimenti del privato ad investire nelle forme di nuove organizzazioni antagoniste e radicali come nuove istituzioni del contemporaneo. Parallelamente, ma in modo controintuitivo solo in secondo luogo, bisogna capire come aprire le istituzioni museali, culturali, e accademiche creando spazi che mutuano le pratiche delle nuove istituzioni radicali.
Marco Baravalle ha fatto negli ultimi anni un ottimo lavoro di analisi di questa relazione fra nuove istituzioni radicali (che lui chiama altristituzioni autonome) e isituzioni tradizionali che cercano di praticare un’apertura al cambiamento (alteristituzioni governamentali).
Credo per questo che nel dibattito in cui siamo in Italia sia importante in questo momento far nascere e strutturare in modo importante gli esperimenti radicali, piuttosto che rischiare di accelerare una frettolosa traduzione da parte di quelle esistenti. Si rischia cioè di aver troppa fame di traduzioni, senza aver conosciuto e lasciato crescere i classici.
Pena di questa dinamica sarebbe purtroppo la ricaduta nel loop dove tutto cambia, per non cambiare nulla.
Immagine di copertina: ph. Sean Benesh da Unsplash